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Dialettica e diabolica - Il progetto di Hegel - Quarta Parte (4/4)

 

Dialettica e diabolica

Il progetto di Hegel

 
Quarta Parte (4/4)
 
 Modalità etica della dialettica hegeliana

Da quanto detto fin qui apparirà chiaro al lettore come la dialettica hegeliana non va intesa solo come un semplice processo logico del concetto, del pensiero o della ragione, una battaglia di idee, ma – secondo quanto Hegel ci dice esplicitamente – anche come forza viva inesauribile, spirituale, irrequieta, creatrice, plasmatrice e polemica, paga del suo stesso contraddirsi e contraddire, bisognosa essa stessa di porsi davanti un’antitesi per opporsi ad essa, perché lo stesso essere, come abbiamo visto, è antinomico.

La dialettica hegeliana è un moto della volontà indirizzata non al bene reale, ma al bene apparente. Infatti qui l’uso volontario di questa dialettica non è così innocente come quello che si basa sull’aristotelismo, dove la dialettica è finalizzata alla ricerca della verità per mezzo del confronto di tesi opposte.

Nella dialettica hegeliana è impossibile fare un’affermazione netta, che escluda assolutamente la possibilità del suo opposto o una smentita. Per essa è impossibile prendere una decisione o assumere un impegno definitivo che possa escludere ogni ripensamento. Nessun parere così certo che in futuro non possiamo esser obbligati a cambiar parere.

Tutto può sempre essere rimesso in discussione. Non c’è nulla di così certo che non possa essere confutato. Nulla di così evidente che non possa essere dubitabile. Dal punto di vista etico ne segue che questa doppiezza secondo Hegel non è biasimevole, ma è un preciso dovere morale, per non essere rigidi, dogmatici o impositivi. Possiamo immaginare i danni che ne vengono per la stabilità, e l’affidabilità, la serenità e l’ordine dei rapporti umani e sociali. Li vediamo tutti i giorni.

La dialettica hegeliana, come abbiamo visto, si basa sul principio protagoreo che è vero ciò che a me sembra vero o che io giudico essere vero, indipendentemente dal riferimento a ciò che è realmente vero o da come stanno le cose in se stesse.

Per questo io sono autorizzato a far sembrar vero o bene ciò che è falso o male o ad apparire buono o a fingere di essere buono, mentre in realtà nell’intimo io sono malvagio. Diventano dunque lecite la menzogna e l’ipocrisia. Per l’agire morale è sufficiente dare ad intendere o sembrare.

Non interessa come stanno veramente le cose o come devono essere, perché è impossibile saperlo con certezza: ci si trova sempre tra due tesi opposte. E questa è appunto la dialettica hegeliana. La differenza da quella aristotelica è che, in questa, dalla dialettica si può passare alla scienza, dall’opinione alla certezza. Invece in Hegel la dialettica è la scienza.

Hegel assume la dialettica in questo senso pragmatico come prassi o azione da Fichte, dove, come sappiamo, l’Io oppone a sé nell’Io un non-Io proprio per essere Io. L’essere non è dunque solo pensiero, ma anche volere, un tema che ha origine nel volontarismo medievale di Ockham, si ritrova in Lutero, Böhme, Schelling, Schopenhauer e Nietzsche.

Il più importante erede di questa dialettica è Marx, il fondatore appunto del materialismo dialettico, per il quale la dialettica è sì considerata una logica, come molla di un processo razionale necessario, ma questa dialettica non è intesa come moto che fa dipendere la materia dallo spirito, ma al contrario come moto della materia che fa dipendere lo spirito dalla materia.

Hegel giustifica con la sua dialettica la sua idea che la guerra è la legge del progresso storico. Il progresso per lui è rottura, è la negazione o distruzione di quello che c’è e la sua sostituzione con una novità che nulla ha a che vedere con ciò che c’era prima.

Hegel, come abbiamo visto, parla bensì di una conciliazione e di una restaurazione arricchita dell’inizio. Parla della forza della sintesi che utilizza la tensione fra gli opposti. Queste non sarebbero cattive idee, ma in pratica in Hegel la conflittualità irrisolta finisce per prevalere sul suo innegabile bisogno di unità, di semplicità, di pace, di armonia, di quiete e di identità.

Come mai? Perché gli manca, come ho detto più volte, la nozione analogica e partecipativa dell’essere e resta fermo a quella univoco-equivoca parmenideo-eraclitea. Gli manca il concetto del diverso e vede solo il contrario o prende il contrario per il diverso.

In Marx non è la materia a dipendere dalla coscienza, ma è la coscienza a dipendere dalla materia. Abbiamo un certo recupero del realismo gnoseologico contro l’astrazionismo inetto dell’idealismo hegeliano. Ma il guaio è che Marx intende quella dipendenza non solo in senso intenzionale, ma ontologico, confondendo pensiero ed essere materiale[1], così da umiliare lo spirito sotto l’impero della materia.

Nel contempo Marx nell’ambito del pensare e teorizzare non rinuncia del tutto all’antinomismo hegeliano, che gli consente di giustificare la violenza, di mantener vivo lo spirito rivoluzionario e di inventare di volta in volta tutte le giravolte che possono essere utili al partito comunista per mostrare di avere sempre ragione e di sgusciare dalle critiche degli avversari.

Occorre una disciplina morale del pensiero

Oggi, col pretesto della libertà di pensiero, è frequente l’abitudine di usare il pensiero non per cercare,  vedere,  conoscere, possedere, mostrare, difendere,  diffondere o praticare ed amare la verità, ma come uno strumento, un mezzo o  materiale a nostra disposizione, al quale possiamo dar forma e contenuto secondo i nostri gusti personali, per soddisfare i nostri egoismi, prevalere sugli altri, distruggere gli avversari, apparire zelanti, santi e profeti celando le nostre colpe, raggiungere scopi inconfessabili, ottenere il favore dei potenti e il successo presso le folle,  saziare le nostre brame e concupiscenze.

Si è introdotto di recente nell’attività del pensiero l’uso del concetto di «creatività», che dà l’impressione di valorizzare e potenziare le energie dello spirito, la scoperta, la novità e l’inventiva. Ma in realtà ha come effetto un aumento dell’uso arbitrario, indisciplinato, capriccioso, individualista e quindi disonesto e criminoso del pensiero, un uso atto a causare ogni genere di disordine e danno morale e materiale.

Esistono sempre ovviamente, ma purtroppo non entrano più in funzione come un tempo le istituzioni ecclesiali e gli organismi locali e centrali di vigilanza nel campo della dottrina, deputati a mettere in guardia, avvertire, denunciare, minacciare, confutare, correggere e condannare errori, imposture, menzogne, diffamazioni, calunnie, scandali, inganni, frodi, falsità, empietà ed eresie.

Il cattolico amante della verità si trova spesso smarrito o sconcertato  in mezzo alla confusione o ad una babele di opinioni mutevoli e contrastanti su punti fondamentali di dottrina, sente proclamare ai quattro venti da teologi di grido dottrine contrarie a quelle che gli erano state insegnate come immutabili, non trova chi lo tranquillizzi nei suoi dubbi e nelle sue preoccupazioni.

Per questo difficilmente e raramente si sente protetto o sostenuto dalle autorità, le quali a volte tralignano esse stesse o tacciono davanti ai pericoli o agli scandali, per cui deve difendersi da solo come può, magari con l’aiuto precario od occasionale o fortunato di qualche altro fedele o sacerdote o teologo preparato, sveglio e fedele al Magistero della Chiesa.

La cosa paradossale è che mai come oggi siamo stati davanti  ad una produzione letteraria teologico-religiosa così abbondante come quella di oggi, nonché ad una tale quantità di documenti ecclesiastici, quale quella di oggi. Eppure in questa massa enorme di materiale molto raramente troviamo indicazioni atte a farci scoprire e confutare gli errori dottrinali che oggi rovinano e turbano profondamente la vita della Chiesa e della società.

Nella sua Logica Hegel fa precedere alla «dottrina dell’essere» un’introduzione nella quale si domanda «con che si deve cominciare la scienza» e si arrovella per quindici pagine girando attorno ad un equivoco che non riesce a risolvere. Infatti è evidente che parlando del principio del sapere confonde principio nel senso dell’iniziare, del cominciare, del dar principio, del punto di partenza, col principio nel senso della verità basilare immediatamente evidente e più certa sulla quale fondare il sapere. La prima questione riguarda il conoscente: come egli comincia a conoscere? Da dove parte? La seconda riguarda l’oggetto del sapere: qual è  il primo noto?

Dobbiamo ricordare che l’esercizio del nostro pensiero è cosa molto delicata e responsabilizzante; non è qualcosa che stia a totale disposizione della nostra volontà come materia puramente plasmabile a piacere del nostro arbitrio, così che ci sia lecito o abbiamo la facoltà o la libertà o il permesso di metter in opera il pensiero o farne uso come meglio aggrada a ciascuno di noi secondo le sue voglie o interessi particolari, senza che ciò possa avere alcuna conseguenza incresciosa o spiacevole o senza che rechiamo alcun danno a noi stessi e agli altri.

Al contrario, il cattivo uso morale del pensiero, il suo uso capzioso, sofistico, disonesto od ipocrita, con la cattiva volontà che ne consegue e ne sta all’origine,  fa sì che noi perdiamo di vista il nostro vero bene, imbocchiamo un cammino o assumiamo una condotta,  che  invece di farci mettere in opera i talenti ricevuti da Dio o le buone inclinazioni della nostra natura, ci rende, per dirla con il paragone evangelico,  fichi sterili, degni di essere abbattuti e gettati nel fuoco.  

L’obbligo, nel pensare, della coerenza, del rispetto del principio di non-contraddizione, di evitare di contraddirsi oppure di sciogliere o mostrare l’apparenza di contraddizione, è un preciso dovere morale, perché ciò che diciamo non sia insensato e inintellegibile e risponda al dovere che abbiamo di rispettare l’intelligenza del nostro interlocutore, il quale, se è amante della verità, si attende che gli facciamo discorsi coerenti e sensati ed ha il diritto di ascoltare cose che hanno senso, prima di giudicare se ciò che diciamo è vero o falso. Infatti  perché un discorso sia vero non basta che sia coerente e sensato, ma dev’essere anche conforme alla realtà.  Un discorso che ha senso può essere vero o falso; ma un discorso contradditorio è certamente falso.  

Nell’Introduzione alla sua Logica Hegel presenta un concetto di logica che pretende di sostituire la metafisica. E questo come mai? Perché egli parte dalla presa in esame di un concetto insufficiente di logica, intesa solo come logica formale e trascura l’esistenza della logica materiale. Prende cioè in considerazione la logica della correttezza e coerenza del ragionamento e non considera che la logica ha per oggetto ed ordina anche la materia del conoscere in quanto pensata, regolata e concettualizzata.

Segue a questa confusione che Hegel pone nella logica materie di altre scienze, mentre trascura materie che fanno parte della logica. Che cosa c’entra con la logica il meccanismo, il chimismo e il processo vitale? Che cosa c’entra il divenire con la logica? Queste materie sono oggetto della fisica o della biologia o della storia e comunque delle scienze della realtà.

Mancano invece delle parti della logica: dove sono i predicabili? Dove sono i predicamenti? Dov’è la dottrina della dimostrazione? Dove sono i princìpi della dimostrazione? Dove sono le regole della disputa scientifica?  Dov’è l’induzione e la deduzione? dove sono il giudizio inventivo e quello risolutivo? Dove sono gli elenchi sofistici? Dov’è la subalternazione delle scienze?

La confusione che Hegel fa tra metafisica e logica lo porta a confondere l’essere, oggetto della metafisica, col concetto dell’essere, oggetto della logica. L’essere non è per sé né determinato né indeterminato, ma è atto dell’ente, che contiene in sé virtualmente ogni possibile determinazione, giacchè è chiaro che ogni ente determinato ha l’essere, mentre il concetto dell’essere astrae in modo incompleto da ogni determinazione, perché altrimenti, astraendo da tutto, risulterebbe un nulla e avrebbe ragione Hegel a identificarlo col nulla.

L’essere, oggetto della metafisica, ha, come dice Aristotele, molti sensi, è analogico e diversificato. È l’essere reale. Il concetto metafisico dell’essere comporta l’astrazione dell’essere formale da quello materiale (astrazione formale). È l’ente di ragione. Il concetto logico dell’essere è l’essere universale o comune, che astrae dall’ente singolo (astrazione totale). L’essere reale si oppone al nulla. Invece la logica, che ha per oggetto l’ente di ragione, pone sotto il concetto dell’essere tanto la categoria dell’essere reale quanto il nulla, che così appare come se fosse essere.

Se quindi riduciamo l’essere del metafisico alla categoria logica dell’essere, è facile la tentazione di identificare l’essere col non-essere, perché non siamo più davanti all’ente reale, ma ad un ente di ragione col quale pensiamo tanto l’essere quanto il non–essere. È esattamente quanto è successo ad Hegel, che ha ridotto l’essere della metafisica a quello della logica.

D’altra parte Hegel sa che la logica ha per oggetto il pensato, l’essere in quanto pensato o concepito. Nel contempo, erede dell’idealismo che, nato da Cartesio, aveva portato a Kant e a Fichte, egli si rifiuta di ammettere una realtà o un essere presupposto al pensiero, che sia fuori del pensiero e al quale il pensiero si debba adeguare per essere vero. Egli pertanto rifiuta la metafisica come conoscenza di una realtà extramentale, secondo la concezione realistica aristotelica della metafisica.

Egli sostiene che bisogna che la logica prenda il posto di questa metafisica perché per lui oggetto del pensiero, secondo l’eredità cartesiana, non è l’ente, ma il concetto dell’ente.  Ora, siccome l’ente in quanto pensato ovvero il concetto dell’ente è l’oggetto della logica, non resta che dire che la scienza dell’ente sarà la logica e non la metafisica. Ma questa confusione dell’ente col concetto dell’ente è ciò  che conduce Hegel a identificare l’essere col nulla, perché l’indeterminatezza appartiene al concetto dell’essere e non all’essere stesso.

Infatti, mentre la metafisica ha per oggetto l’essere, la logica ha per oggetto il concetto dell’essere. Se ci si ferma come fa Hegel solo alla questione della determinatezza o non indeterminatezza del concetto dell’essere, per forza si finisce per confondere, come è successo ad Hegel, l’essere col non essere, il sì col no, credendo peraltro vanamente con ciò di spiegare il divenire.

E invece l’essere è solo il sì che si oppone al no. Nell’essere reale ci sono virtualmente tutte le determinazioni. È il concetto dell’essere che astrae da tutto e può dar l’apparenza di concludere nel nulla. Ma confondere l’essere col nulla è la più grande disgrazia che possa capitare all’intelletto umano. È la disgrazia del nichilismo. E qui meraviglia moltissimo come un Hegel cristiano venga superato dal pagano Aristotele, qui più fedele a Cristo dello stesso Hegel. Alcuni si lamentano che Papa Francesco parli poco di Cristo e non si accorgono che si può parlare di lui senza nominarlo, si può essere con Lui senza saperlo.

Non si tratta di disprezzare il divenire, ma dobbiamo lasciarlo al suo posto.  Non disprezziamo il passato o il futuro, ma abbiamo bisogno del presente. Dio non è stato e non sarà, ma È. E se È, lo è perché è stato e sarà. Sentiamo il bisogno di costruire sul solido, su ciò che è saldo, dà sicurezza e affidamento, su ciò che dà garanzia, ciò che resiste al potere della distruzion .

Non sappiamo che cosa farcene dei concetti fluidi. Cerchiamo la certezza e non la sicumera. Non vogliamo dar per certo quello che non lo è. Non possiamo rinnegare ciò di cui siamo certi.  Vogliamo conoscere ciò in cui possiamo errare. Ci è odioso crogiolarci nel dubbio. Non vogliamo costruire sulla sabbia ma sulla roccia. Non vogliamo separare per confondere, ma distinguere per unire. Rifiutiamo la rigidezza perchè vogliamo la fermezza. Rifiutiamo la doppiezza e vogliamo la sincerità.

Sentiamo che non è dignitoso essere canne sbattute dal vento. Siamo fragili, ma vogliamo resistere alle tempeste. Non ci basta ciò che è precario e corruttibile. La nostra vita non finisce con la morte. Abbiamo bisogno di parole che non passano.  Abbiamo bisogno di Qualcuno a cui dire: «Tu hai parole di vita eterna».

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 novembre 2024

Hegel giustifica con la sua dialettica la sua idea che la guerra è la legge del progresso storico. Il progresso per lui è rottura, è la negazione o distruzione di quello che c’è e la sua sostituzione con una novità che nulla ha a che vedere con ciò che c’era prima.

L’essere, oggetto della metafisica, ha, come dice Aristotele, molti sensi, è analogico e diversificato. È l’essere reale. L’essere reale si oppone al nulla. Invece la logica, che ha per oggetto l’ente di ragione, pone sotto il concetto dell’essere tanto la categoria dell’essere reale quanto il nulla, che così appare come se fosse essere.

Non sappiamo che cosa farcene dei concetti fluidi. Sentiamo che non è dignitoso essere canne sbattute dal vento. Siamo fragili, ma vogliamo resistere alle tempeste. Non ci basta ciò che è precario e corruttibile. La nostra vita non finisce con la morte. Abbiamo bisogno di parole che non passano.  Abbiamo bisogno di Qualcuno a cui dire: «Tu hai parole di vita eterna».

Immagine da Internet: Gesù Cristo, Monreale


[1] Se Hegel riduce la materia a pensiero, Marx riduce il pensiero a materia.

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