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Dialettica e diabolica - Il progetto di Hegel - Seconda Parte (2/4)

 

Dialettica e diabolica

Il progetto di Hegel

 
Seconda Parte (2/4)
 

Il bisogno di Hegel

A differenza di filosofi come Aristotele o San Tommaso il cui bisogno è quello della verità, il bisogno fondamentale di Hegel è un bisogno di unità. Hegel non sente il bisogno di adeguare il proprio pensiero a una realtà esterna già data, dalla quale dedurre poi la causa prima. Il suo bisogno fondamentale non è quello di vedere, ma di organizzare in unità. Non gl’interessa la molteplicità degli enti, ma la totalità (Ganzheit) raccolta nell’Uno. In ciò assomiglia a Plotino.

Hegel sa che l’Assoluto è uno solo, ma sbaglia nella sua volontà di unificazione dell’essere al nulla, del vero al falso e del bene al male, quando invece sappiamo che l’essere si oppone al non-essere, il vero al falso, il bene al male. La vera conciliazione concilia il conciliabile, non l’inconciliabile. È proprio l’amore per l’unità, per la pace e la concordia che giustifica l’opposizione del paradiso all’inferno. Hegel serve a due padroni proprio perché il suo Assoluto mette assieme Dio col diavolo.

Ad Hegel non interessa tanto cercare, indagare o scoprire la verità già data, oggettiva e trascendente, quanto piuttosto entrare in sé stesso, prender coscienza, chiarire o determinare quella verità interiore o quel qualcosa che sa già implicitamente presente nel suo io: Dio stesso o l’Assoluto. La verità per lui non è il vero opposto al falso, ma la sintesi del vero e del falso. Questa è la sua dialettica.  

È la stessa impostazione di Cartesio precedentemente sviluppata da Kant, Fichte e Schelling. Crede certo nell’esperienza sensibile o nella conoscenza storica, conosce la forza della fede, ma solo in quanto intende i loro dati come determinazioni concettuali ed empiriche della verità assoluta già presente in lui.

La verità per lui è lo stesso essere ed è l’identità di pensiero ed essere presente non solo in Dio, ma anche in ogni cosa, perchè ogni cosa è concetto, come Dio è Concetto. Ogni cosa è dialettica, come Dio è dialettico, perché l’essere è dialettico.

Per questo motivo, il proposito di Hegel non fu tanto quello di costruire un insieme di nozioni ordinate fra loro, tutte attorno e sotto a una nozione suprema, quella di Dio, come in Aristotele e San Tommaso, ma fu quello di costruire un sistema filosofico unitario, raccolto attorno ad un una sola nozione, quella dello Spirito, tale da ridurre tutto all’unità, da conciliare tutte le opposizioni, da togliere tutte le separazioni ed esclusioni reciproche, un sistema tale da abbracciare tutto e non escludere nulla. Come trovare una mediazione fra gli opposti?

Nessuno nega il suo interesse per il tema dell’essere, strettamente connesso col problema di Dio, che lo fa assomigliare addirittura a San Tommaso. Ma in realtà nello sfondo c’è Parmenide, come Hegel stesso ha riconosciuto. Come in Parmenide, l‘essere hegeliano è uno, tutto, assoluto, spirito, necessario, eterno, immutabile, semplice.

San Tommaso fa queste osservazioni riguardo a Parmenide:

 

«Egli sembra toccare l’unità secondo ragione, ossia dalla parte della forma. Egli argomenta in questo modo: tutto ciò che è fuori dell’ente è non-ente; e tutto ciò che è non ente, è nulla; dunque, tutto ciò che è oltre l’ente è nulla. Ma l‘ente è uno. Dunque tutto ciò che è oltre l’uno, è nulla. Nel che appare chiaro che considerava la stessa ragione di essere, che sembra essere una, perché non si può intendere che alla ragione di ente sopravvenga qualcosa per cui venga diversificato, perché è necessario che ciò che sopravviene all’ente sia estraneo all’ente. Ciò che infatti è tale è nulla, per cui sembra che non possa diversificare l’ente.

 

Così infatti vediamo che le differenze che si aggiungono al genere lo diversificano, le quali tuttavia sono al di là della sua sostanza. Infatti le differenze non partecipano del genere, altrimenti la differenza apparterrebbe alla sostanza del genere, per cui avverrebbe una futilità nelle definizioni, se posto il genere, si aggiungesse la differenza, se il genere fosse della sua sostanza, così come ci sarebbe una futilità se si aggiungesse la specie. Infatti la differenza non differirebbe per nulla dal genere. Infatti bisogna che  ciò che è al di fuori della sostanza dell’ente sia non ente, per cui non può diversificare l’ente»[1].

Per raccogliere tutto in unità bisogna secondo Hegel togliere tutti gli opposti, quindi non solo quelli nell’orizzonte dell’essere, come il finito e l’infinito, Dio e mondo, essere e divenire, essere e pensiero, ma anche quelli fra essere e non-essere, tra vero e falso, tra bene e male. Tutto è essere, anche il non-essere; tutto è vero, anche il falso; tutto è bene, anche il male. In tal senso egli dice che  tutto è contradditorio e si oppone al principio d’identità di Aristotele. Dunque anche lui, in nome dell’unità non può evitare l’opposizione, con l’aggravante che è un’opposizione sbagliata.

Inoltre ad Hegel manca il concetto platonico dell’essere per partecipazione, la metessi, che si distingue dall’essere per essenza. Egli dispone solo del concetto di parte relativa al tutto, concetto, questo, proprio della fisica e della matematica, che non è sufficiente in metafisica, ossia nel campo dell’essere, dove occorre formare un concetto analogico di parte, ossia appunto l’essere per partecipazione, altrimenti si finisce come Parmenide per concepire l’universo non come un insieme di enti, ma come un unico tutto intero, come una torta o una mela da tagliare a fette.

Osservo che il tutto divino assolutamente semplice non può e non ha bisogno di essere finitizzato o diviso in parti per dar luogo agli enti, quasi fossero parti del suo essere. Né l’idea di enti fuori dell’ente infinito comporta alcuna assurda aggiunta o aumento al suo essere infinito già perfetto e completo, ma appunto gli enti posseggono per partecipazione quell’essere che Dio possiede per essenza. Così si distingue Dio dal mondo e si evita il panteismo del dio diviso a fette.

Tuttavia egli non vuole negare il divenire come aveva fatto Parmenide in nome dell’identità dell’essere. Ma sensibile anche ad Eraclito, e senza esser capace di conciliare il divenire con l’identità, pur di non negare il divenire fece della contraddizione il principio della realtà al posto dell’identità. Hegel non si dimentica neanche di Cartesio, per cui per lui l’essere è il sum, è l’io cartesiano, sviluppato da Kant, Fichte e Schelling.

Hegel da una parte si lascia sedurre dall’univocismo e monismo ontologici di Parmenide, per il quale l’ente è uno solo ed assoluto, ma dall’altra, accorgendosi che Parmenide sbaglia nel rifiutare il divenire e la storia, invece di ricorrere alla spiegazione aristotelica del divenire, assume quella di Eraclito basata sulla contraddizione.

E fu così che Hegel, per salvare il divenire, si sentì in dovere di negare il principio aristotelico di non-contraddizione, non esitando ad affermare che se vogliamo accettare la realtà, non dobbiamo aver paura di riconoscere che il divenire è contradditorio, benchè molto probabilmente egli non abbia capito bene il principio aristotelico, perché in realtà Hegel si cura di tranquillizzare chi si scandalizza per la sua tesi; è preoccupato di non contraddirsi e anche egli confuta gli avversari mostrando che si contraddicono. Oppure può essere che egli non si spieghi bene per carenza di strumenti concettuali, come per esempio l’analogia dell’essere. Infatti con la sola univocità si è portati ad esprimersi con termini contradditori, anche al di là della volontà di evitare la contraddizione.

Di fatto, come hanno notato i critici più avveduti, Hegel si contraddice nei suoi princìpi, ed è questo fatto che ci induce a rifiutare il suo idealismo storicista panteistico, senza con ciò misconoscere i suoi meriti e le sue buone qualità. Ciò però che è antipatico in lui non è quindi tanto un certo modo improprio di parlare della contraddizione, quanto l’impressione che egli dà di promuovere l’ambiguità, la menzogna, l’ipocrisia e la doppiezza.

Infatti, nell’etica di Hegel vien meno l’obbligo inculcatoci da Cristo di dire sì a ciò che è sì e no a ciò che è no. Siccome il reale è sì e no, non abbiamo un riferimento oggettivo, certo, univoco e distinto. Non siamo più vincolati dalla realtà. Per Hegel la stessa realtà è dialettica, è sì e no. Il reale è il razionale. E il razionale è dialettico, ossia oppone l’affermazione alla negazione. Non è la nostra ragione che deve rispecchiare la realtà, ma è la realtà stessa ad essere riflesso della nostra ragione.

Ci è dunque concesso di dire sì a ciò che no e no a ciò che è sì, perché non è la realtà ma siamo noi a decidere del sì e del no del reale. Ora il dire essere ciò che non è e non essere ciò che è non è altro che la menzogna.  E il far sembrare ciò che non è e il fingere che sia ciò che non è, è l’ipocrisia.  

Cristo dice che ciò appartiene al diavolo, il menzognero per eccellenza. Per questo possiamo ben dire che la dialettica hegeliana è una diabolica, arte dell’inganno e della frode, della simulazione e della dissimulazione, del doppio senso e dell’ambiguità. Cristo è così severo contro l’ipocrisia perché vuol tenerci al riparo dalle insidie del demonio.

Da qui il dovere della sincerità nel dire le cose come sono. Certo ci si può sbagliare senza volere, ma la sincerità resta perchè non volevamo ingannare, ma siamo noi che senza volere ci siamo ingannati. Sincerità peraltro non è semplicemente il dire ciò che si pensa, se questo pensare è falso, ma è il dire ciò che in buona fede si ritiene essere vero.

Si può notare inoltre in Hegel la tendenza a voler conciliare l’inconciliabile, l’essere col non essere, il vero col falso, il bene col male, Cristo con Beliar, l’inferno col paradiso, in modo che tutto fosse uno, vero, buono, eterno, divino, assoluto, anzi esistesse solo l’assoluto come sintesi di tutto con tutto.

La vera conciliazione dev’esser fatta tra termini conciliabili, che possano dar luogo ad un’unità o ad un’unione, quindi nell’orizzonte dell’essere, del vero e del bene. Per la cura della vera conciliazione si richiede proprio la cura di non confondere ciò che va tenuto separato, si richiede di respingere ciò che va respinto, di non approvare tanto il vero che il falso, tanto il bene che il male, tanto la giustizia che il peccato, magari col pretesto della «diversità», ma di opporre il sì al no e non servire a due padroni, per non cadere nella doppiezza e nella finzione che non procurano affatto la concordia, ma l’ipocrisia e l’aumento delle tensioni.

Occorre certo evitare le rigidezze, i dualismi e le false contrapposizioni. Occorre saper apprezzare le sfumature, le gradualità, i toni intermedi. La scelta non è tra il tutto o il niente, ma fra questo e quello, questo sì, l’altro no. Tra il bianco e il nero certamente c’è il grigio, tra l’estate e l’inverno ci sono primavera ed autunno. Un conto tuttavia è il contrario e un conto è il contradditorio. I contrari hanno il medesimo soggetto, per esempio una medesima stanza che può essere ora fredda ed ora calda.

Il contradditorio invece comporta l’affermazione e la negazione simultanea del medesimo soggetto: uomo e non-uomo. È chiaro che una simile espressione non ha senso. Anche il principio del terzo escluso enuncia la stessa cosa: un uomo o c’è o non c’è: non ci può essere una terza possibilità.

La sintesi hegeliana ha molto il sapore di contravvenire a quel principio. L’ente contrario invece può esistere, è possibile: una persona mi può essere contraria; i due contrari coesistono; ma il contradditorio è impensabile; i contradditori si escludono a vicenda. Probabilmente Hegel con termini contradditori intende riferirsi ai contrari o all’azione di forze (il «negativo») che si oppongono fra loro, come può essere un conflitto bellico. In tal senso Marx interpreterà la «contraddizione» e la dialettica hegeliana.

I diversi enti coesistono assieme e tra di loro; c’è l’essere reale e c’è l’essere di ragione, esistono tante distinzioni e mediazioni all’interno dell’essere; ma tra essere e non essere non c’è via di mezzo, non c’è sintesi o «superamento» che tenga: o l’essere o il non-essere: aut-aut. Bisogna scegliere. Sgusciare o fare il doppio gioco non conviene.

Tra questo e quello nell’orizzonte dell’essere o del bene ci può essere un accordo. Ma fra il sì e il no o tra il bene e il male non c’è una terza possibilità, se non quella vergognosa dell’ipocrita, che vuol servire Dio e li demonio. Non bisogna confondere l’et-et con l’aut-aut.  La sintesi della dialettica hegeliana fra l’essere e il non-essere è un’impostura che dà solo una falsa apparenza di concordia e di pace, ma che nasconde nel suo fondo una guerra inestinguibile perché costitutiva dell’essere. Questo è il prezzo della dialettica hegeliana.

Come Platone, Hegel non riuscì a trovare la spiegazione, l’identità e l’intellegibilità del divenire. Gli sembrava un essere che non è. Il divenire sembra contradditorio. Ebbene, Hegel si convinse che è realmente contradditorio. È così che inventò la sua dialettica basata sulla contraddizione.

È sempre per non rinunciare alla sua concezione eraclitea del divenire come contradditorio, che Hegel identificò la scienza con la dialettica, perché questa, a differenza del sapere dimostrativo, fondato da Aristotele (episteme) e basato sull’identità, la dialettica dava spazio alla contraddizione.

Hegel infatti non si è accorto che è stato Aristotele a farci comprendere l’intellegibilità del divenire senz’alcun bisogno di un’impossibile contradditorietà della realtà, ma nel pieno rispetto del principio di non-contraddizione, fino a darci la possibilità di istituirne la scienza, che è appunto la fisica, che a sua volta consente il dominio e l’utilizzazione della natura per i bisogni umani e quindi l’istituzione della tecnica.

Infatti, come è noto, per Aristotele il divenire non è altro che l’atto dell’ente in atto che passa dalla potenza all’atto. Ciò suppone le due nozioni ontologiche di atto e potenza, che purtroppo sono sfuggite ad Hegel. Egli ha avuto un forte senso della potenza attiva, ma ha ignorato quella passiva, necessaria per concepire la materia come soggetto della forma.

E benché egli sentisse forte il bisogno del concreto e fosse sensibile ai fatti storici, difficilmente si avverte in Hegel l’identità propria della sostanza materiale nella sua sussistenza indipendente dal concetto, al di là degli schemi astratti della dialettica. Benché si vantasse di una percezione del divenire superiore a quella di Aristotele, Hegel è ben lontano dalla precisa analisi aristotelica delle varie forme del divenire: la trasformazione (metabolè), il moto locale o movimento (kinesis), l’alterazione (alloiosis), la diminuzione (fthyisis), l’aumento (àuxesis), la generazione (ghenesis), la corruzione (fthorà).

Con l’uso delle due nozioni di potenza ed atto non c’è alcun bisogno, anzi è assurdo, ricorrere, come fa Hegel, all’opposizione di essere e non-essere, giacchè essere e non-essere non possono affatto stare assieme e si escludono a vicenda, così come il sì e il no, l’affermazione e la negazione, similmente a come non c’è conciliazione fra Dio e il demonio, benchè sia sua creatura e Dio sappia impiegare l’agire del demonio per i suoi piani di giustizia e di misericordia.

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 novembre 2024

Ad Hegel manca il concetto platonico dell’essere per partecipazione, la metessi, che si distingue dall’essere per essenza. Egli dispone solo del concetto di parte relativa al tutto, concetto, questo, proprio della fisica e della matematica, che non è sufficiente in metafisica, ossia nel campo dell’essere, dove occorre formare un concetto analogico di parte, ossia appunto l’essere per partecipazione, altrimenti si finisce come Parmenide per concepire l’universo non come un insieme di enti, ma come un unico tutto intero, come una torta o una mela da tagliare a fette.

Hegel infatti non si è accorto che è stato Aristotele a farci comprendere l’intellegibilità del divenire senz’alcun bisogno di un’impossibile contradditorietà della realtà, ma nel pieno rispetto del principio di non-contraddizione, fino a darci la possibilità di istituirne la scienza, che è appunto la fisica, che a sua volta consente il dominio e l’utilizzazione della natura per i bisogni umani e quindi l’istituzione della tecnica.

Infatti, come è noto, per Aristotele il divenire non è altro che l’atto dell’ente in atto che passa dalla potenza all’atto. Ciò suppone le due nozioni ontologiche di atto e potenza, che purtroppo sono sfuggite ad Hegel. Egli ha avuto un forte senso della potenza attiva, ma ha ignorato quella passiva, necessaria per concepire la materia come soggetto della forma. 

Immagine da Internet: La saggezza dà ad Aristotele la chiave del tesoro della ragione


[1] In XII libros Metaphysicorum, op.cit., p.41.

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