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Testi di P. Tomas Tyn, OP

Il cogito cartesiano è contrario alla fede?

 

Il cogito cartesiano è contrario alla fede?

Videte ne quis vos decipiat

       Per philosophiam et inanem fallaciam

Col 2,8

La cattiva filosofia blocca o falsifica l’accesso alla fede

Se una buona filosofia apre la mente all’accoglienza della fede, ne crea le condizioni della sua possibilità, la prepara all’ascolto della Parola di Dio e della Chiesa, liberandola dagli ostacoli e dalle illusioni che le impediscono il cammino, incoraggiando, purificando e confermando il suo desiderio e la sua sete di verità e di giustizia, una cattiva filosofia accentua la tendenza della mente all’ipocrisia e alla menzogna, fomenta vane illusioni di grandezza, restringe lo sguardo dell’intelletto, insegna ad essere dei sofisti e ad impugnare la verità conosciuta, rende sleali e capziosi nei ragionamenti, giustifica la propria voglia di peccare ed avvia verso la strada della perdizione.

La verità di fede è il massimo livello di un’esperienza della verità che inizia con l’esercizio dei sensi, sale alla ragione e s’innalza alla fede. Se non facciamo quest’esperienza iniziale della verità, che fanno anche gli animali, in quanto dotati come noi di sensi, è impossibile procedere oltre e l’intelletto rimane bloccato, come avviene nei dementi.

È vero che è più oggettiva e certa la verità intellettuale che quella sensibile. Ma ciò dipende solo dalla maggior dignità dell’oggetto; non coinvolge il nostro atto soggettivo di aderire all’oggetto, atto che è più soggettivamente certo e facile nella percezione sensibile che nell’intuizione intellettuale.

Ma se noi blocchiamo col dubbio o con la convinzione per principio di errare, come ha fatto Cartesio, l’accesso alla verità sensibile, il parlare di pensiero, di ragione, di metafisica, di coscienza, di scienza, o di Dio, sono discorsi campati per aria.

Teniamo inoltre presente che il concetto di verità è esso stesso un dato di fede, come per esempio quando Cristo dice “Io sono la verità”. Pertanto una gnoseologia che metta in dubbio la veracità del senso come quella di Cartesio, è con ciò stesso contraria alla fede.

È vero che molti non vedono nel famoso cogito ergo sum alcun pericolo per la fede cattolica. Lo assimilano al principio agostiniano dell’autocoscienza. Cartesio mantenne la concezione della conoscenza che ammette una realtà fuori del pensiero e quindi la trascendenza di Dio.

Anzi il suo cogito intendeva proprio dare un miglior fondamento al realismo e quindi alla fede. Cartesio non si accorse che invece il cogito distrugge il realismo e conduce al panteismo. Lo avrebbero capito gli idealisti tedeschi. Ma forse lo stesso Cartesio non si rese conto della carica dirompente del suo cogito.

Come si sa, lo stesso famoso Card. de Bérulle, grande maestro spirituale, incoraggiò Cartesio a proseguire il suo lavoro. Ma non si accorse di prendere un abbaglio enorme, ingannato dall’apparenza di spiritualismo data dalla filosofia cartesiana.

Per gli ammiratori di Cartesio si tratta semplicemente e nientedimeno che del principio della «filosofia moderna», che supera con una vera fondatezza definitiva l’impostazione realistica aristotelica della precedente filosofia medioevale.

Pertanto il cattolico di oggi, postconciliare, - così credono i modernisti -  se vuole dialogare col pensiero moderno, deve porre a base filosofica della sua fede il cogito cartesiano nell’esplicitazione che ne ha fatta l’idealismo tedesco. Questo è il metodo che, per esempio, ha seguìto e proposto Rahner, benchè tale metodo fosse stato in precedenza condannato dalla famosa Pascendi di S.Pio X contro i modernisti.

Che cosa intendeva veramente Cartesio?

Che cosa si ricava dal suo cogito?

A tutta prima il cogito sembra del tutto ovvio ed innocuo, anzi una verità più che evidente, ben degna di essere posta a principio primo della verità, del sapere e della certezza. Come non assentire al fatto che se io ho coscienza di pensare, ciò è il segno del fatto che esisto? Potrei pensare se non esistessi?

Il problema è che Cartesio non sembra tener conto del fatto che per pensare bisogna esistere, ma può suggerire che per esistere bisogna pensare e così insinua il primato del pensiero sull’essere, anziché dell’essere sul pensiero. È questo diabolico suggerimento che sarà ghiottamente fatto proprio dagli idealisti per restarne avvelenati. Cartesio non tiene conto del fatto che il vero filosofare parte dall’essere, come aveva fatto Aristotele, e non dal pensiero.

Tuttavia alcuni fecero notare a Cartesio che il suo principio non era nuovo. Anche Aristotele, Sant’Agostino e San Tommaso si erano espressi in questo senso. Cartesio rispose che invece il suo principio non coincideva affatto con quello dei pensatori citati, perché mentre in loro il «dunque» (ergo) era la conclusione di un sillogismo – chi esiste, pensa: ma io penso e dunque esisto –, ma significava un’inferenza immediata, nel senso che congiuntamente e indissolubilmente alla consapevolezza di pensare, ho la coscienza di esistere.

Era un chiarimento pericoloso ed equivoco, inquatoché le parole di Cartesio potevano essere interpretate come a dire: nel momento in cui esercito l’atto del pensare, esercito l’atto d’essere. Non c’era il rischio di identificare il mio pensare col mio essere? O addirittura di considerare il mio essere come posto dal mio pensare?

Sarà proprio questa l’interpretazione di Fichte, per cui verrà fuori che io non ho bisogno di essere creato da Dio, perché io stesso pongo il mio essere nel momento in cui penso me stesso. E si noti bene che per Fichte questo porre non è un atto teoretico, ma pratico. È un fare, un agire, un causare, un produrre, quindi un creare.

 Ma allora il mio pensare è pareggiato allo stesso pensare divino, nel quale solo in realtà abbiamo l’identità di pensare ed essere, di pensare e di fare. Ma abbiamo ad un tempo l’ateismo, giacchè, se sono io stesso a porre il mio essere, vuol dire che io esisto da me stesso e in forza di me stesso e quindi che bisogno c’è di ammettere un Dio che mi crei e mi faccia essere?

Conseguenze dirompenti

Nel cogito cartesiano non c’è un’adaequatio intellectus, ma una positio voluntatis. La verità, la scienza e la certezza non sono l’effetto di una convinzione dell’intelletto necessitato dall’evidenza, ma della libera volontà. Ovvero l’intelletto non è libero di dire disinteressatamente ed oggettivamente quello che vede, ma deve dire quello che gl’impone la volontà. La verità non è ciò che è, ma quello che la volontà decide e vuole e quindi fa credere agli altri che sia. Dunque la menzogna istituzionalizzata per soddisfare gli interessi della volontà.

Infatti per Cartesio io affermo che una data cosa sta così non perché mi adeguo a come essa sta effettivamente davanti a me e fuori di me, ma perché io decido che quella data cosa è così. Quindi non c’è la dipendenza del pensiero dalla realtà, ma della realtà dal pensiero volente, esattamente come avviene in Dio. Da qui la conseguenza di pareggiare il pensare e il volere umani a quelli divini. Il che è chiaramente contrario alla fede.

Ma c’è un’altra cosa conturbante che scopriamo se analizziamo, tenendo conto del contesto, che cosa intende Cartesio col termine «penso» (cogito). Teniamo presente che il cosiddetto «dubbio metodico» di Cartesio non è affatto un dubitare sensato e intelligente, ma è una serie di dubbi assurdi e irragionevoli, il primo dei quali è il dubitare della veracità dei sensi (e quindi dell’esistenza delle cose esterne) e del principio di non-contraddizione.

Anche San Tommaso prende per un momento in considerazione l’universalis dubitatio de veritate[1]. Anzi dice che il filosofo deve prendere in considerazione questo tipo di dubbio, dato che il suo oggetto è la verità universale. Ma per dichiararlo immediatamente come assurdo.

Invece Cartesio non lo scarta affatto ma lo prende sul serio, lo conserva e pretende di trovare un principio di verità supremo che sarebbe il suo cogito quando invece quell’assurdità si scopre ricorrendo semplicemente al principio di esperienza sensibile e di non-contraddizione, come già aveva fatto Aristotele contro Protagora.

In terzo luogo, occorre tener presente che il cogito non è un vero cogitare, ma è il dubbio universale, che, come ho detto, Cartesio non abbandona affatto ma continua ad esercitare, perché non lo respinge come fa Tommaso constatandone la assurdità, ma ricorrendo al cogito inteso come dubito.

Che il cogito cartesiano sia questo, appare evidente dal fatto che, allo stesso modo del dubitare, che essendo un’oscillazione del pensiero, oscilla fra il sì e il no, il cogito cartesiano non ha oggetto. Cioè Cartesio pensa ma non ci dice precisamente che cosa penso.

E ne ha ben donde, perché nel dubitare noi non pensiamo a niente! Infatti il dubitare non è un vero pensare e non esiste un pensare senza oggetto. Qui Cartesio sfiora addirittura il nichilismo. Il vero pensare è pensare qualcosa. Invece è il dubbio che manca di oggetto perché chi dubita nega nel momento in cui  afferma. In tal modo abbiamo il pensare tipico della doppiezza, dell’ipocrisia e del farisaismo.

In quarto luogo, il cogito suppone un atto di coscienza: ho coscienza di pensare. Ammettiamo pure, benché abbiamo mostrato il contrario, cioè che qui Cartesio non pensa veramente. Ammettiamo pure che Cartesio ci dica: io non guardo fuori di me. Guardo dentro. E scopro di esistere. Io sono. Siamo d’accordo. Allora penso a me stesso? Faccio di me oggetto del mio pensare? Tuttavia Cartesio salta il passaggio che consiste nel dire che cosa pensa. La conclusione di Cartesio è troppo affrettata. Essa sarebbe valida se avesse detto: penso a qualcosa. Ma se penso a qualcosa, allora vuol dire che esisto.

In realtà, io, prima di esercitare la coscienza o consapevolezza, devo esercitare la conoscenza delle cose o prendere oggetto di conoscenza me stesso, il mio io come ente reale oggettivo, davanti a mio sguardo, anche se sono sempre io. Invece Cartesio passa subito all’essere di coscienza, al suo essere come pensato da lui, come se il suo essere coincidesse col suo essere pensato da lui. Ma questo è già idealismo!

In quinto luogo io posso dire «io» solo quando ho coscienza di me stesso. Un embrione non dice io; eppure è già una persona umana. È chiaro infatti che io esisto prima e indipendentemente dalla mia coscienza del mio io. Un conto è esistere e un conto è aver coscienza di esistere. E allora, se veramente Cartesio vuol fondare la metafisica, come ci assicura, meglio di Aristotele, metafisica che è scienza dell’essere, per qual motivo restringe l’essere al proprio io?

Ma se Cartesio non parte dal suo io reale, come fà a cogliere il suo io pensato? È perchè io colgo una cosa che io ho il pensiero o la coscienza o l’idea di quella cosa. È perchè la penso, che diventa pensata. Ma non può essere pensata se prima non la penso così come essa è fuori di me. Qui vediamo di nuovo il principio dell’idealismo: la riduzione del reale al pensato.

In sesto luogo, Cartesio, sempre per questa sua volontà di partire dalla coscienza di sé anziché dalle cose, pone le idee delle cose nella mente prima del contatto con le cose, senza rendersi conto che questa in realtà è una prerogativa di Dio, ideatore e creatore delle cose.

In tal modo per lui le idee non sono rappresentazioni delle cose ricavate dalle cose, ma gli appaiono oggetti immediati del pensiero, per cui si pone il problema assurdo di sapere se a queste idee corrispondono cose fuori di noi e come raggiungerle. Problema assurdo, perché la dottrina delle idee serve appunto a spiegare come noi conosciamo le cose.

Sappiamo qual è la soluzione conseguentemente assurda di questo problema assurdo: Dio stesso, secondo Cartesio, presente come deus ex machina alla sua mente nell’idea innata di Dio, gli garantisce che le sue idee corrispondono alla realtà. In tal modo Cartesio, accortosi che sta esagerando, crede di rimediare con un recuperato artificioso realismo all’evidente assurdo che noi come Dio possiamo avere le idee delle cose prima e indipendentemente dall’averle contattate.

Gli idealisti tedeschi non avranno questa preoccupazione di recuperare il realismo, ma, non sorvegliati dall’Inquisizione Romana come lo era Cartesio, condurranno tranquillamente e spavaldamente alle estreme conseguenze le implicanze del cogito, sicchè per loro tutta la realtà esterna non sarà altro che ciò che io ho nella mia coscienza come prodotto della mia coscienza. Esiste solo quello che io penso che esista.

Così, come abbiamo visto, Cartesio si rifiuta di partire dalle cose perchè dubita dei sensi. Per questo vorrebbe trovare un’altra via della verità, che sarà appunto il cogito. Ma cade, come abbiamo visto, nell’assurdo. Solo Dio può partire dall’autocoscienza, perché in Lui conoscere ed essere cosciente sono la stessa cosa.

In settimo luogo c’è da notare che Cartesio, ponendo come oggetto della metafisica l’io anziché l’ente, dimostra, nonostante le sue vanterie, di non sapere che cosa è la scienza. Infatti nella scienza il verbo essere si usa alla terza persona, non alla prima. Il parlare di sé appartiene tutt’al più all’autobiografia, non alla scienza.

Aristotele nel porsi il problema dell’essere, non si chiede chi sono io, ma che cosa è l’ente. È estremamente meschino ridurre la sconfinata vastità della questione dell’essere alle ristrettissime dimensioni del proprio io, come se esso esaurisse tutto l’essere e non esistesse altro che il mio io.

In ottavo luogo, Cartesio non tiene conto che io non sono, propriamente, una res cogitans, non sono un pensante per essenza. Quando dormo, non penso; eppure esisto. Non sono una ragione sussistente, perché in me la ragione è un accidente, è una semplice facoltà e non costituisce la mia sostanza. Ciò infatti appartiene solo a Dio. Io sono un soggetto composto di atto e potenza che passa dalla potenza di pensare all’atto di pensare le cose. La mia essenza non sta nel pensare. Io esisto anche se non penso.

E solo dopo aver pensato le cose, posso, con un atto di riflessione, pensare a me pensante le cose e scoprire me che sto pensando le cose e accorgermi di esistere. Questo è l’iter di un cogito che dia il vero fondamento.  

In nono luogo, riflettendo sul fatto che penso, sì, scopro di esistere, ma qual è il mio essere? Qui il sum cartesiano si apre a una duplice direzione. Da una parte io scopro di essere un ente creato da Dio e non semplicemente di essere. Qui Cartesio non aveva difficoltà ad ammettere Dio creatore dell’io e del mondo. Ma ciò pretendeva di poterlo stabilire solo in base al cogito. Questo io umano è quello che gli idealisti chiamano «io empirico»: Renato Cartesio.

Ma dall’altra parte Cartesio prescinde da questo io empirico, perché è sensibile ed egli non si fida dei sensi. Appare allora quello che gli idealisti chiameranno «io trascendentale» o «io puro». È questo l’io ridotto alla mente, allo spirito. Per Cartesio sono certo del mio spirito, ma non del mio corpo. Devo quindi dimostrare di avere un corpo che sente le cose esterne.  Si tratta per la verità di un’assurdità, giacchè è proprio per aver conosciuto le cose con i miei sensi che io giungo per induzione a sapere di poter pensare ed avere una coscienza del mio pensare o del mio spirito.

In decimo luogo ci chiediamo che cosa è questo sum che consegue al cogito. Il latino, a differenza dell’italiano, usa pochissimo il verbo exsistere, esistere, che qui invece sarebbe d’obbligo, giacchè sarebbe meglio dire: penso, dunque esisto.

Infatti se dico «sono», viene in mente l’Ego Sum di Es 3,14, che è l’essere divino. Ora solo Dio può dire io sono l’essere. Io posso dire: io esisto. Ma non io sono. Solo Lui può dire: io sono il pensiero, quindi sono l’essere. L’esito del cartesianismo è il panteismo, che, come abbiamo visto e come dimostra il passaggio da Hegel a Marx, si volge in ateismo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 31 agosto 2024

Alcuni fecero notare a Cartesio che il suo principio non era nuovo. Anche Aristotele, Sant’Agostino e San Tommaso si erano espressi in questo senso. Cartesio rispose che invece il suo principio non coincideva affatto con quello dei pensatori citati.

Era un chiarimento pericoloso ed equivoco, inquatoché le parole di Cartesio potevano essere interpretate come a dire: nel momento in cui esercito l’atto del pensare, esercito l’atto d’essere.

Sarà proprio questa l’interpretazione di Fichte, per cui verrà fuori che io non ho bisogno di essere creato da Dio, perché io stesso pongo il mio essere nel momento in cui penso me stesso. E si noti bene che per Fichte questo porre non è un atto teoretico, ma pratico. È un fare, un agire, un causare, un produrre, quindi un creare.

Nel cogito cartesiano non c’è un’adaequatio intellectus, ma una positio voluntatis. La verità, la scienza e la certezza non sono l’effetto di una convinzione dell’intelletto necessitato dall’evidenza, ma della libera volontà.

Aristotele nel porsi il problema dell’essere, non si chiede chi sono io, ma che cosa è l’ente. È estremamente meschino ridurre la sconfinata vastità della questione dell’essere alle ristrettissime dimensioni del proprio io, come se esso esaurisse tutto l’essere e non esistesse altro che il mio io.

La mia essenza non sta nel pensare. Io esisto anche se non penso. E solo dopo aver pensato le cose, posso, con un atto di riflessione, pensare a me pensante le cose e scoprire me che sto pensando le cose e accorgermi di esistere. Questo è l’iter di un cogito che dia il vero fondamento.  

Immagine da Internet: Il pensatore, Auguste Rodin


[1] In Metaphysicorum Aristotelis expositio, l.III, lect.I, c.1, n.344. Edizioni Marietti, Torino-Roma 1964.

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