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Il Giudizio di Dio - Il mistero della morte - Terza Parte (3/3)

 

Il Giudizio di Dio

Il mistero della morte

Parte Terza (3/3)

 Il libero arbitrio è indebolito ma non distrutto

È sorprendente come Lutero, così portato ad analizzare se stesso, non si rendesse conto dell’esperienza che tutti abbiamo del libero arbitrio. Sappiamo infatti benissimo quand’è che vogliamo e quand’è che non vogliamo. Sappiamo benissimo di poter volere o non volere. Sappiamo benissimo di poter scegliere questo o quello; decidiamo di farlo e l’atto si avvera. Sappiamo che quella data cosa l’abbiamo voluta, mentre avremmo potuto non volerla. Quando siamo lucidi, siamo coscienti del fatto che noi stessi poniamo i nostri atti spiegando il motivo e siamo ben coscienti del fatto che li abbiamo posti noi. Li abbiamo voluti noi e sappiamo di averli voluti.

Dunque, che cosa ci viene a raccontare Lutero col suo «servo arbitrio»? Il libero arbitrio, a seguito del peccato originale, - come osservò successivamente il Concilio di Trento - è indebolito, ma non estinto. Sono gli animali, non gli uomini ad essere privi di libero arbitrio.

Quando San Paolo dice di essere «schiavo del peccato», non va preso alla lettera, perché si esprime in modo enfatico, per arrivare a sostenere la necessità della grazia, altrimenti non ci avrebbe fatto tutte le esortazioni e dato tutti i comandi a fare il bene ed evitare il male, né avrebbe minacciato la punizione divina ai peccatori e avrebbe parlato di premio celeste («corona di giustizia») per le sue fatiche.

Lutero è troppo fissato, non sappiamo con quanta sincerità (quasi a voler esser sempre scusato), sull’esperienza della concupiscenza e della debolezza delle nostre forze. È vero che a volte è tanta la forza della passione, che noi non ce la facciamo a compiere il bene (non parliamo dei casi di malattia mentale), ma soccombiamo sotto la violenza della passione, che, come osserva lo stesso San Paolo, ci costringe a fare quello che, se fossimo liberi, non faremmo. Ma l’attrattiva è così forte, che ci trascina, benché sappiamo che ciò che facciamo è male. Ma a cose fatte, constatando che abbiamo agito non perchè l’abbiamo voluto liberamente, ma perché trascinati dalla passione, non ci sentiamo colpevoli, ma soltanto infelici di non riuscire a fare il bene che dovremmo e vorremmo fare.

Allora invochiamo il soccorso divino, che prima o poi non manca ed è a volte superiore a quello stesso che ci attendevamo, tanto che ci accorgiamo di raggiungere mete mai fino ad allora conseguite. Avvertiamo allora di aver ricevuto una forza nuova, che prima non avevamo. Da dove viene? È questa l’esperienza della grazia, ottenuta dalla preghiera. Ma Lutero non ha mai fatto esperienza di queste meraviglie? E com’è che non sa distinguere ciò che viene dalle sue forze e ciò che gli è stato donato dall’alto?

La sua idea che Dio fa tutto e noi non facciamo niente è assolutamente falsa ed è falsa umiltà. Dio agisce valendosi delle nostre qualità che Egli stesso ci ha donato e delle quali dobbiamo rispondere, sia pur sanate e rafforzate dalla grazia. La vera umiltà sta nel riconoscere la verità della nostra situazione: non solo le nostre debolezze, ma anche i talenti che Dio ci ha dato (certo senza esagerarne il numero), e che dobbiamo trafficare e non scaricarci sulla grazia con la scusa che Cristo ci salva, ma in realtà per non far la fatica di obbedire a Dio.

Lutero infatti, per non voler riconoscere la sua parte di responsabilità nella sua esperienza morale, finisce nella sua famosa blasfema idea di attribuire esclusivamente a Dio la causa di tutti i nostri atti, quelli buoni come quelli cattivi, sicchè viene a concepire Dio come causa sia della giustizia che del peccato; dal che nasce l’orribile dottrina della doppia predestinazione, che la Chiesa aveva già condannato nel monaco Godescalco nel sec. IX.

La predestinazione non è, come credeva Lutero, il fatto che Dio ha già deciso se scegliermi o non scegliermi, in modo tale che se non mi ha scelto, qualunque opera buona io faccia non mi conta nulla, perché comunque andrò all’inferno. E non vuol dire neppure che se mi ritengo predestinato, posso commettere liberamente qualunque peccato perché comunque mi salverò.

La predestinazione della quale parla San Paolo in Rm 8,28-30 è il fatto che Dio dall’eternità, pur offrendo a tutti la possibilità di salvarsi, di fatto ha deciso per suoi imperscrutabili motivi di scegliere solo alcuni (gli «eletti»), ed avendoli scelti, muove infallibilmente la loro libera volontà all’acquisto della salvezza. Quelli che non ha scelto sono quelli che per colpa loro rifiutano la grazia salvifica a loro offerta. Per cui Dio dall’eternità non li spinge al peccato (cosa orribile a pensarsi), ma semplicemente sa che non si salveranno perché non vogliono, avendoli lasciati liberi di fare la propria volontà.  I non scelti, che rifiutano la grazia, non compiono affatto opere buone e per questo vengono giustamente puniti con la pena eterna.

Per quanto riguarda la nostra responsabilità, dobbiamo dire che è vero che a volte l’attrattiva del piacere è così forte che noi, nonostante il volere contrario, cediamo alla concupiscenza. Ma non è così ogni volta! Quante sono le volte nelle quali, soccorsi dalla grazia, abbiamo l’esperienza gioiosa di aver resistito alla seduzione della carne e di esserci dominati, sia pur con fatica e dopo un’aspra lotta! Tuttavia, se badiamo onestamente alla nostra coscienza, sappiamo ben distinguere gli atti cattivi che abbiamo compiuto volontariamente da quelli compiuti sotto l’impulso della passione o inavvertitamente. Sappiamo benissimo che dei primi siamo responsabili, mentre non possiamo rispondere dei secondi. Proviamo giustamente vergogna e un senso di colpa per i primi, mentre ci sentiamo innocenti e senza colpa per i secondi, benché obbiettivamente abbiamo fatto una cattiva azione.

Riconosciamo di meritare il castigo per i primi, mentre esigiamo di essere scusati e assolti per i secondi. Sentiamo di non essere onesti se, pur essendo in colpa, pretendiamo di non essere castigati. Sentiamo che non è onesto il desiderio di farla franca. Avvertiamo di non essere sinceri se pretendiamo di essere scusati mentre siamo in colpa, così come protestiamo se veniamo incolpati o puniti mentre eravamo innocenti. Sentiamo che non possiamo confidare nella misericordia divina se siamo attaccati al peccato, quasi ad ottenere il permesso di peccare liberamente senza essere puniti. Era questo quello che voleva Lutero? 

Lutero con la sua teoria della giustificazione, ha tutta l’aria di assumere questo aspetto furbesco, insincero e meschino, per nulla dignitoso per un uomo di coscienza, onesto con sé stesso, con gli altri e con Dio. Il suo difetto era quello di confondere tra loro gli atti cattivi colpevoli con quelli scusabili; per cui si sentiva colpevole quando faceva il bene e innocente e scusato quando peccava. Ci può essere una stortura psicologica e morale peggiore di questa?

Lutero si era irragionevolmente fissato nell’idea che Dio esercita il suo giudizio su di noi, senza tener alcun conto del giudizio che noi stessi pronunciamo su noi stessi. Se noi ci giudichiamo buoni, Egli ci giudica cattivi e viceversa. Se ci sentiamo la coscienza tranquilla, ciò non vuol dire che non siamo colpevoli ai suoi occhi. Viceversa, possiamo sentirci in colpa ed esser graditi ai suoi occhi, come se Dio rinnegasse il principio di non-contraddizione.

Osserviamo che Egli decide su noi stessi, è vero, ma decide nel senso che è causa della nostra stessa decisione libera con la quale noi ci decidiamo per Lui. È questa la vera predestinazione. Al momento della morte, cioè della resa dei conti, nel momento nel quale Dio ci giudicherà e deciderà del nostro destino eterno, pronuncerà un giudizio conforme a quanto era nei patti, in modo che noi stessi potremo renderci conto della sua fedeltà e lealtà nel rispettare gli impegni assunti e nel realizzare quanto aveva promesso.

Lutero non ha mai capito che cosa è il merito soprannaturale

Come insegnano chiaramente le parabole del Vangelo, al termine della giornata di lavoro o al momento del ritorno del padrone della vigna, cioè al momento della morte, noi possiamo e dobbiamo presentarci davanti al nostro divino Datore di lavoro con quanto abbiamo guadagnato col nostro lavoro, sfruttando i talenti che il nostro stesso Datore di lavoro ci aveva dato.

Il che vuol dire chiaramente che la vita eterna è sì grazia di Dio, ma ciò non toglie assolutamente che nel contempo essa sia frutto e merito delle nostre fatiche. Lutero non è mai riuscito a sciogliere questo apparente paradosso, questa congiunzione del gratuito col meritorio. Ha pensato che si dovesse scegliere tra i due termini e invece non rifletté mai sul saggissimo detto di Sant’Agostino, che fu poi citato dal Concilio di Trento contro di lui, che i nostri stessi meriti sono frutto della grazia.

Se Lutero avesse riflettuto su queste cose, non avrebbe provato nessun terrore o nel caso l’avesse provato, l’avrebbe calmato con queste considerazioni e non con la stolta negazione del libero arbitrio e con l’idea blasfema di un Dio che salva senza merito.

Il terrore non si placa con la presunzione, ma con la coscienza della mia libera decisione e la certezza che Dio vuol salvarmi. Io decido di amarlo perché Egli stesso causa in me questo atto del libero arbitrio. Io andrò all’inferno perchè ho deciso di fare la mia e non la sua volontà. Questa è la verità insegnata dalla Bibbia.

A Lutero mancava la coscienza del fatto che io con la mia volontà ho la possibilità di porre atti che dipendono da me e che posso decidermi a compiere il bene, posso conoscere il vero bene e posso aver coscienza di averlo compiuto. È, questo, come sappiamo, il libero arbitrio, insegnato dalla stessa Sacra Scrittura, che egli vedeva ben illustrato nel De libero arbitrio di Sant’Agostino che Erasmo gli ricordò al tempo della sua ribellione a Roma.

Inoltre bisogna dire che Lutero non ha mai saputo apprezzare la giustizia come virtù cardinale, il dovere di rendere a ciascuno il suo e che Dio stesso dà a ciascuno il suo secondo i suoi meriti, un concetto chiaramente espresso dalla Bibbia.  Non ha mai capito che cosa è veramente la giustizia divina in quanto distinta dalla misericordia e il meraviglioso gioco che nella provvidenza divina intercorre tra l’una e l’altra virtù. Ha falsato la giustizia riducendola alla misericordia e ha falsato la misericordia riducendola alla giustizia.

L’intento dichiarato di Lutero è quello di infonderci fiducia e serenità al momento della morte, quando dovremo presentarci al tribunale di Dio, per quando saremo davanti al suo giudizio su di noi. Secondo lui il Magistero della Chiesa fino al suo tempo non aveva capito il Vangelo, non aveva capito che cosa è la misericordia divina: aveva cioè presentato un Dio terrorizzante facendoci credere che possiamo placarLo offrendoGli sacrifici ed opere buone.

Niente di tutto questo, dice Lutero, il quale crede di aver scoperto lui il vero insegnamento del Vangelo. Secondo lui il Vangelo insegna invece che dobbiamo confidare nel fatto che al momento della morte sperimenteremo la misericordia di Dio che accoglierà in paradiso, anche se la coscienza è gravata dalla colpa, alla sola condizione che noi crediamo di essere salvati.

Ma il Concilio di Trento ricorderà ai luterani che confidare in Dio senza aver fatto penitenza dei nostri peccati è cosa del tutto vana, è prendersi gioco di Dio col risultato di accendere maggiormente la sua ira anziché spegnerla.

Notiamo però che il terrore di Dio non si allontana con una confidenza irragionevole, ma col timor di Dio ed una speranza basata sulla coscienza di aver fatto il proprio dovere. La vera confidenza in Dio non toglie il timor di Dio. Quando San Giovanni dice che l’amore scaccia il timore, si riferisce ad un timore servile ed egoistico centrato solo sul proprio interesse.

San Paolo ci esorta invece a curare la nostra salvezza con «timore e tremore». Di che si tratta? Il vero e sano timore di Dio è un dono dello Spirito Santo, è quell’atteggiamento di riverenza ed umiltà davanti a Dio, dettato dallo Spirito Santo, per il quale teniamo nella massima considerazione la sua volontà sapendo che la nostra esistenza e il nostro bene dipendono da Lui e dall’obbedienza a Lui, per cui mettiamo la massima cura nell’evitare il peccato, la cui conseguenza è l’inferno.

Come dunque insegna il Concilio di Trento, il fedele nella vita presente non si sente del tutto sicuro di essere in grazia, benchè avverta segni che lo inducono a pensare di essere gradito a Dio. Sull’esempio di San Paolo, benché non sia conscio di alcun peccato, non giudica sé stesso, ma rimette il giudizio a Dio, certo con fiducia, ma facendo attenzione a non peccare, ben conscio della sua fragilità.

D’altra parte Lutero perde di vista il valore del sacrificio cultuale offerto a Dio per placare l’ira divina ed ottenere misericordia. Per questo nega il sacerdozio e il sacrificio della Messa. Egli riconosce bensì il sacrificio redentore di Cristo, ma non capisce che Cristo ci ha resi partecipi al suo sacrificio con la celebrazione della Messa in sconto dei nostri peccati.

Questo è il modo per ottenere la vera pace della coscienza e di ottenere il perdono divino e non scaricarci su Cristo col pretesto che Egli ha già offerto il sacrificio perfetto, perché non è che noi possiamo aggiungere alcunché a quello che ha fatto Lui, però possiamo unirci alla sua Croce redentrice. Questo ci consente di presentarci sereni al cospetto del Giudice divino.

Una volta che Dio ci ha donato la sua grazia, i nostri meriti acquistano, per i meriti di Cristo, il potere di aumentare la grazia, sicchè per tutto il corso della nostra vita, se noi ci manteniamo fedeli al Signore, la grazia aumenta continuamente. C’è però una grazia che non possiamo meritare ed è quella della perseveranza finale. Qui il libero arbitrio non ha nessuna parte. Su questo punto Lutero aveva ragione. E dobbiamo dire che egli aveva ragione anche per quel che riguarda la prima grazia, la quale ci fa passare dalla condizione di figli di Adamo a quella di figli di Dio.

Perché possiamo meritare tutte le grazie precedenti e non la grazia della perseveranza finale? Perché questa, a differenza da quelle che riguardano la vita presente, riguarda la stessa vita eterna dopo la morte. Uno potrebbe dire: ma il paradiso non è la mercede e il compenso per il lavoro fatto? Il padrone non dice forse al buon operaio: bene, servo fedele, entra nella gioia del tuo padrone?

Sì, ma bisogna distinguere il modo col quale meritiamo il paradiso da quello col quale riceviamo la grazia che ci fa entrare in paradiso. Noi certo meritiamo il paradiso con i nostri atti soprannaturali; ma quella grazia finale che ci consente di meritare il paradiso non è a sua volta meritata da un nostro precedente atto, per quanto ottenuto dalla grazia.

Non c’è infatti proporzione fra un miglioramento della nostra vita terrena e la stessa vita eterna. Un miglioramento lo possiamo ottenere per nostro merito. Ma la vita eterna è talmente soprannaturale, che se Dio non ce la dona con la grazia della perseveranza finale, noi potremmo avere tutti i meriti della Madonna, che questa grazia noi non la potremmo ottenere con un nostro atto. Per questo nell’Ave Maria noi chiediamo alla Madonna di pregare per noi «nell’ora della nostra morte» perché ci ottenga la grazia della perseveranza finale.

È estremamente improbabile che coloro che per lungo tempo in precedenza sono stati fedeli al Signore, lo respingano in punto di morte. Possiamo invece pensare che a coloro che da tempo lo avevano avversato, nell’imminenza della loro morte, Dio, nella sua misericordia, dia a loro un’ultima, estrema possibilità di salvezza, faccia un’ultima accorata profferta del suo amore. Che sappiamo allora di certi grandi peccatori se si sono dannati? Non potrebbero essersi pentiti all’ultimo istante?

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato 14 novembre 2024


La predestinazione non è, come credeva Lutero, il fatto che Dio ha già deciso se scegliermi o non scegliermi, in modo tale che se non mi ha scelto, qualunque opera buona io faccia non mi conta nulla, perché comunque andrò all’inferno. E non vuol dire neppure che se mi ritengo predestinato, posso commettere liberamente qualunque peccato perché comunque mi salverò.

La predestinazione della quale parla San Paolo in Rm 8,28-30 è il fatto che Dio dall’eternità, pur offrendo a tutti la possibilità di salvarsi, di fatto ha deciso per suoi imperscrutabili motivi di scegliere solo alcuni (gli «eletti»), ed avendoli scelti, muove infallibilmente la loro libera volontà all’acquisto della salvezza. Quelli che non ha scelto sono quelli che per colpa loro rifiutano la grazia salvifica a loro offerta. Per cui Dio dall’eternità non li spinge al peccato (cosa orribile a pensarsi), ma semplicemente sa che non si salveranno perché non vogliono, avendoli lasciati liberi di fare la propria volontà. 

Io decido di amarlo perché Egli stesso causa in me questo atto del libero arbitrio. Io andrò all’inferno perchè ho deciso di fare la mia e non la sua volontà. Questa è la verità insegnata dalla Bibbia.

San Paolo ci esorta  a curare la nostra salvezza con «timore e tremore». Di che si tratta? Il vero e sano timore di Dio è un dono dello Spirito Santo, è quell’atteggiamento di riverenza ed umiltà davanti a Dio, dettato dallo Spirito Santo, per il quale teniamo nella massima considerazione la sua volontà sapendo che la nostra esistenza e il nostro bene dipendono da Lui e dall’obbedienza a Lui, per cui mettiamo la massima cura nell’evitare il peccato, la cui conseguenza è l’inferno. 

 È estremamente improbabile che coloro che per lungo tempo in precedenza sono stati fedeli al Signore, lo respingano in punto di morte. Possiamo invece pensare che a coloro che da tempo lo avevano avversato, nell’imminenza della loro morte, Dio, nella sua misericordia, dia a loro un’ultima, estrema possibilità di salvezza, faccia un’ultima accorata profferta del suo amore. Che sappiamo allora di certi grandi peccatori se si sono dannati? Non potrebbero essersi pentiti all’ultimo istante?

Immagini da Internet:
- La Maddalena, Francesco Rustici
- Seneca morente, Rubens

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