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Il processo all’infinito nella prova dell’esistenza di Dio - Seconda Parte (2/2)

 

Il processo all’infinito nella prova dell’esistenza di Dio

Seconda Parte (2/2) 

 Fermatevi e sappiate che Io sono Dio

Sal 46,11

La causa nel senso forte ed assoluto, veramente causa, non può essere una causa causata, che rimanda a una causa precedente, che l’ha causata, ma è una causa che è solo e totalmente causa, bastante a sé stessa. Questa è la causa prima, alla quale deve fermarsi il regresso delle cause. Ed è questo il motivo per il quale non  è possibile un regresso all’infinito. Questa causa non può essere altro che  la causa dell’essere, essa stessa Essere sussistente. E questa è Dio.

Occorre dunque distinguere una retrocessione all’infinito di una successione di agenti indipendenti gli uni dagli altri e accidentalmente collegati gli uni agli altri nella loro esistenza ed azione, da una retrocessione di cause ontologicamente sovraordinate connesse da un rapporto di necessità.

Nel primo caso la retrocessione o processo all’infinito è possibile; invece nel secondo caso è impossibile, ma occorre fermarsi ad una prima causa creatrice ossia produttrice non solo del divenire, ma anche dell’essere dell’effetto o a un primo motore immobile, che muove il succedersi degli effetti.

Mentre nel primo caso non è necessario che la causa agisca nel presente, ma essa può aver agito nel passato, appartenere al passato e non più esistere, come per esempio le generazioni che ci hanno generato e preceduto, nel secondo caso l’effetto presente non esisterebbe nel presente, se nel presente non esistesse ed operasse attivamente la sua causa sufficiente nel causare non solo la sua azione e il suo divenire, ma la sua stessa esistenza.

Ecco il senso del famoso ananke stenai, bisogna fermarsi, di Aristotele: è come il ciglio di un burrone, varcando il quale la ragione precipita nel baratro del nulla. Se non c’è la causa prima, ovvero il motore immobile, tutto perde di senso e si spegne la sete del sapere e della verità.

È interessante la corrispondenza qui tra Aristotele e la Scrittura: anch’essa invita a fermarci laddove soltanto possiamo trovare la nostra quiete, la nostra pace e la nostra patria, laddove possiamo costruire su saldo fondamento. Il voto di stabilità proprio della tradizione monastica rappresenta efficacemente questo bisogno dell’anima di fermarsi laddove tutto trova la sua ragion d’essere, il suo impulso vitale, la sua volontà di vivere, di sapere, di amare.

Notiamo tra l’altro che ammettere una causa prima immutabile, immobile e non mossa non vuol dire affatto impedire, proibire, fermare o bloccare con cieco dogmatismo, come alcuni credono, il cammino o progresso indefinito della scienza, che sempre fa nuove scoperte, si arricchisce di nuove conoscenze. La scienza deve star ferma sui princìpi; ma è proprio questa fermezza che le consente e le garantisce la forza e lo slancio che la spingono a sempre nuove conquiste, così come è la solidità della piattaforma di lancio che consente alla nave spaziale di spiccare il volo e di lanciarsi alla conquista di spazi infiniti.

Non si tratta di sostenere non saprei quale immobilismo o di bloccare il cammino della scienza, tutt’altro: la causa prima e fine ultimo sono la molla del progresso, affinchè il progresso non sia un vuoto e inconcludente girare su sé stesso. Il primo motore dà alla scienza il suo dinamismo e la sua ragion d’essere, le consente di correggere gli errori e la spinge senza sosta e con fiducia verso le più ardue conquiste, perché essa sa di non muoversi a vuoto o invano come nella fatica di Sisifo. Saldezza, certo nelle certezze fondamentali; ma appunto per questo insaziabile e fruttuoso anelito verso le vette e le profondità.

Molti non si rendono conto di quanto sono sciocchi nel deridere il famoso motore immobile (kinùn akìneton) di Aristotele, perché col termine «motore» pensano al motore delle motociclette e col termine «immobile» pensano all’immobilità del sasso o del cadavere dando prova di capire la metafisica come io capisco la lingua cinese. Invece di insegnare in cattedre universitarie di filosofia farebbero bene a gestire un negozio di ciclomotori o un’impresa di pompe funebri, così come io rinuncio ad insegnare la lingua cinese. Ma, a parte queste battute, che però sono opportune, parliamo adesso seriamente.

La serie delle cause precedenti dev’essere finita ed occorre porre una causa prima non nel caso di una serie di cause che hanno già agito nel passato. In tal caso, infatti, potremmo, in linea di principio, retrocedere nel tempo all’infinito perché il collegamento tra le cause non sarebbe necessario ma accidentale. Il problema che ci poniamo adesso, infatti, è giustificare, fondare, motivare o spiegare sufficientemente non tanto l’esser divenuto dell’effetto, quanto piuttosto la sua attuale esistenza.

Per risolvere il nostro problema, non possiamo ricorrere a cause passate che hanno già agito e adesso non agiscono più, ma dobbiamo trovare una causa in atto adesso, giacchè l’effetto esiste adesso. E non basta che sia presente e attiva, ma dev’essere sufficiente, cioè spiegare l’effetto nella sua totalità e nella sua esistenza.

Per negare questa causa, dovremmo negare l’esistenza dell’effetto che è sotto i nostri occhi, cosa evidentemente assurda. Perché non limitarci a una causa causata? Essa è causa del divenire, del moto, del nascere, dell’agire, del mutare dell’effetto; ma non del suo essere.

Quali caratteristiche deve avere? Dev’essere una causa prima, cioè una causa che fermi il processo all’infinito delle cause passate, una causa che dà inizio alla serie, la causa di tutte le cause. Perché? Come? Perché dev’essere una  causa totalmente e solamente causa, la causa incausata, assoluta e infinita, causa efficiente, produttiva e creatrice delle cose finite e contingenti, a lei relative, ente supremo nella scala degli enti, causa finale ultima del loro agire, che è all’origine della serie dei causati, serie che può essere infinita nel tempo passato di agenti che hanno causato e non sono più, ma non di agenti causanti in atto adesso, agenti che necessitano di essere sostenuti e mantenuti in essere da un primo ente fondato su se stesso, la cui essenza coincida con la sua esistenza, essere assoluto e infinito, Dio.

Un conto però è che una causa produca per sua essenza quel dato effetto, per cui qui la connessione causa-effetto è necessaria. E un conto è che molte cause si succedano per produrre un dato effetto. San Tommaso[1] dice che è necessario che il ferro plasmato dal fabbro sia plasmato dal martello. Ma che questo ferro venga plasmato dal fabbro che usa successivamente più martelli è cosa accidentale, per il semplice fatto che uno si rompe e dev’essere sostituito da un altro.

Ma non esiste alcun nesso causale necessario fra un martello e il successivo: l’importante è che funzionino, ossia che facciano ciò che il fabbro vuole. È nella struttura dell’operazione del fabbro che troviamo un nesso logico necessario tra causa ed effetto, perché è chiaro che se manca nel fabbro l’intenzione o gli manca il martello o manca l’incudine, il ferro non viene plasmato.

Occorre dunque assolutamente una causa prima (il fabbro) perchè il ferro sia plasmato, ma in linea di pura possibilità metafisica non è necessario un primo martello nella successione temporale dei martelli che uno dopo l’altro si rompe, anche se di fatto il primo martello c’è stato.

Per questo, in linea di principio, osserva San Tommaso, i martelli potrebbero essere infiniti, ma non può essere infinita la serie delle cause sovraordinate per ottenere la plasmazione del ferro. Qui occorre una causa prima, che è il fabbro che usa il martello, non importa quale e non importa quanti.

Similmente, osserva San Tommaso, affrontando la questione se il mondo potrebbe esistere da sempre, in un infinito succedersi di cause, dice che di per sé si potrebbe andare indietro nel tempo all’infinito, dato che Dio è eterno e che il creare è un atto eterno non necessariamente nel tempo, anche se sappiamo dalla rivelazione che di fatto il tempo passato ha avuto un inizio. Tommaso osserva che invece dove non si può andare all’infinito è nelle cause sovraordinate, ossia quelle che spiegano l’esistere attuale del mondo, perché altrimenti dovremmo dire che il mondo non esiste essendo privo di causa sufficiente.

Nelle famose cinque vie per dimostrare l’esistenza di Dio San Tommaso afferma in vari modi l’impossibilità dell’utilizzo del processo all’infinito. Scelgo quanto dice nella prima via:

 

«Tutto ciò che è mosso dev’esser mosso da altro. Se dunque ciò da cui è mosso, è mosso a sua volta, bisogna che anche questo sia mosso. Ma qui non si può procedere all’infinito», cioè non possono darsi infiniti motori mossi, «perché così non ci sarebbe alcun motore primo e per conseguenza alcun altro motore, perché i motori secondi non muovono se non perché sono mossi dal primo motore, così come il bastone non muove se non perché è mosso dalla mano. Dunque bisogna arrivare ad un primo motore, che non sia mosso da alcuno e tutti intendono che ciò sia Dio»[2].

 

Potremmo dire anche: non si può procedere all’infinito perché staremmo sempre su di un piano di causalità, che non spiega a sufficienza. Il problema non è risolto ma rimandato o spostato e riproposto senza essere risolto. La causa sufficientemente esplicativa e soddisfacente dev’essere una causa alla quale fermarsi e non una causa che costringa a rifarci la domanda. Se no, siamo al punto di partenza e il pensiero non avanza, non giunge a conclusione; il processo razionale non giunge a termine, è bloccato e frustrato.

Il ragionamento per induzione, come in questo caso, è fatto in modo tale che ha ragione di fermarsi ossia di terminare solo al compimento naturale del suo ciclo, solo quando ha compiuto il suo cammino, non prima. Fermarlo prima è un’offesa alla ragione. Sarebbe come se sopprimessimo un uomo prima che arrivi all’età adulta. O come un treno per Roma che, partito da Bologna, si fermasse a Firenze.

Bisogna sì fermarsi, ma quando si è arrivati e non prima. Chi nella spiegazione delle cause si ferma al livello delle cause fisiche, campo del divenire, della generazione e della corruzione e non sale al livello metafisico dell’essere, non ricava dalla ragione tutto quello di cui essa è capace e per cui è fatta e che essa stessa desidera: si priva di tutto il contenuto del quale essa è capace.

Chi si ferma alle cause fisiche è come un assetato che beva a metà, senza essersi dissetato; è l’empirista sensuale, il quale, immerso nei piaceri carnali, non sa che cosa perde, perdendo le gioie della spiritualità.

Un testo di Padre Tyn

Riporto qui un brano di una conferenza[3] del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, che può aiutarci a capire perché è impossibile il processo (sarebbe meglio dire il regresso) all’infinto delle cause accidentalmente collegate tra di loro nella successione temporale passata. Padre Tomas sta parlando di diverse «tappe» della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio. Dice:

«Il secondo momento della seconda tappa è quello che io chiamo il principio di freno. Perché a un certo punto questa serie causale sembra essere infinita[4]. Allora Dio non ci sarebbe a questo punto. Perché si passerebbe da causa in causa e così all’infinito.

Così la serie numerica è una serie potenzialmente infinita. Non esiste un sommo numero. Ad ogni dato numero, se uno avesse pazienza e uno vivesse per sempre, si potrebbe calcolando aggiungere sempre un altro numero. Quindi se la serie causale fosse infinita, fosse indefinita, a Dio non si arriverebbe[5].

Quindi bisogna pensare che la serie causale, anziché essere potenzialmente infinita, è invece finita. Cioè c’è un primo, da cui ogni altra causa dipende. C’è un primo incausato, da cui ogni altra causa dipende. Come si dimostra questo? È molto semplice. Non si dimostra. Perché? Si spiega soltanto. Perché è evidente. in quanto non è altro che un corollario, per così dire, allo stesso principio di causalità.

Se volete, ve lo metto in questi termini. Non è una cosa esatta, ma sapete anche che in metafisica bisogna barcamenarsi un po’ usando un linguaggio fin troppo umano insomma. Allora, potremmo dire così, che una distanza infinita non è percorribile in tempo finito. Quindi non è possibile, pensare a una causa infinitamente distante. La causa prima sarebbe infinitamente distante. Ciò vuol dire che l’effetto di quella causa infinitamente distante non arriverebbe mai all’effetto. Cioè l’agire di quella causa non arriverebbe mai a destinazione[6].

È come un treno che partisse dall’infinito, non arriverebbe mai in nessuna stazione. Come temo che accadrà adesso durante gli scioperi. Comunque, insomma il treno che parte dall’infinito non arriva, non arriva mai. Perché la distanza infinita non è percorribile. Infinitum non est pertransire dicevano gli Antichi molto giustamente[7].

Quindi in qualche modo il numero di cause dipendenti l’una dall’altra deve essere sempre finito e al vertice della serie causale. Questa è la terza tappa. È il punto di arrivo. Al vertice della serie causale noi troviamo una causa, che è solo causa e in nessun modo effetto, è solo datrice di essere, perché è essere per essenza[8], è actus purus essendi, come dice San Tommaso, ossia è ciò che tutti chiamano Dio.

Vedete come San Tommaso molto opportunamente, siccome si tratta di conoscere l’esistenza di Dio e non la sua essenza, dice che però per conoscere l’esistenza di Dio bisogna avere una qualche nozione di ciò che Dio è. Però, trattandosi di sola esistenza e non di essenza, basta sapere e avere solo la definizione nominale. Cioè basta avere una proprietà di Dio, su cui tutti sono d’accordo che è Dio, o meglio che spetta a Dio. Ora, circa la proprietà di essere solo causa e in nessun modo effetto, tutti, anche gli atei, sono d’accordo che è una proprietà che conviene a ciò che si chiama Dio. L’idea dell’assoluto è comune a tutti. Si tratta di vedere qual è il vero assoluto.»

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 15 ottobre 2024


Un conto però è che una causa produca per sua essenza quel dato effetto, per cui qui la connessione causa-effetto è necessaria. E un conto è che molte cause si succedano per produrre un dato effetto. San Tommaso dice che è necessario che il ferro plasmato dal fabbro sia plasmato dal martello. Ma che questo ferro venga plasmato dal fabbro che usa successivamente più martelli è cosa accidentale, per il semplice fatto che uno si rompe e dev’essere sostituito da un altro.

Ma non esiste alcun nesso causale necessario fra un martello e il successivo: l’importante è che funzionino, ossia che facciano ciò che il fabbro vuole. È nella struttura dell’operazione del fabbro che troviamo un nesso logico necessario tra causa ed effetto, perché è chiaro che se manca nel fabbro l’intenzione o gli manca il martello o manca l’incudine, il ferro non viene plasmato.

Occorre dunque assolutamente una causa prima (il fabbro) perchè il ferro sia plasmato, ma in linea di pura possibilità metafisica non è necessario un primo martello nella successione temporale dei martelli che uno dopo l’altro si rompe, anche se di fatto il primo martello c’è stato.

Per questo, in linea di principio, osserva San Tommaso, i martelli potrebbero essere infiniti, ma non può essere infinita la serie delle cause sovraordinate per ottenere la plasmazione del ferro. Qui occorre una causa prima, che è il fabbro che usa il martello, non importa quale e non importa quanti.

Similmente, osserva San Tommaso, affrontando la questione se il mondo potrebbe esistere da sempre, in un infinito succedersi di cause, dice che di per sé si potrebbe andare indietro nel tempo all’infinito, dato che Dio è eterno e che il creare è un atto eterno non necessariamente nel tempo, anche se sappiamo dalla rivelazione che di fatto il tempo passato ha avuto un inizio. Tommaso osserva che invece dove non si può andare all’infinito è nelle cause sovraordinate, ossia quelle che spiegano l’esistere attuale del mondo, perché altrimenti dovremmo dire che il mondo non esiste essendo privo di causa sufficiente. 

Immagini da Internet



[1] Sum.Theol.,I, q.46,a.2.

[2] Sum.Theol., I, 2., a.2.

[4] Siamo portati a credere che la serie sia infinita, perché ci fermiamo al concetto di causa causata. Per dimostrare che invece c’è una causa prima incausata, per cui la serie termina o comincia con lei, non si tratta tanto di immaginare una serie infinita di cause successive per affermare poi che essa è impossibile. Si tratta invece di stare sul piano dei fatti e della realtà e di applicare seriamente il principio di causalità in tutta la sua potenza e consequenzialità cognitiva senza sconti e senza riserve onde attuare in pienezza il funzionamento della ragione senza frustrarla o bloccandola a metà strada. Si tratta cioè di capire che un ente contingente sarebbe contradditorio se non fosse causato da un ente necessario. La dimostrazione è tutta qui, senza che occorra immaginare processi all’infinito per poi escluderli. È il semplice e corretto ragionamento per analogia che ci propone la Bibbia (Sp 13,5; Rm 1,20): se c’è l’opera, c’è l’artefice. 

[5] Uno potrebbe dire: tu parti dal bisogno che esista Dio. Ma è proprio quello che devi dimostrare. Vediamo come Padre Tomas risponde a questa obiezione. Padre Tomas vuol dire che se non ci fosse Dio, il mondo non dovrebbe esistere, perché privo di una causa sufficiente. Ora, siccome il mondo esiste, allora Dio esiste.

[6] Si potrebbe anche dire che il problema della causa, se questa è solo una causa causata, non è risolto, ma si ripropone. Se dunque vogliamo veramente risolvere la questione della causa, occorre, come dice Aristotele, fermarsi e ammettere una causa non causata.

[7] Osserviamo però che non si tratta di percorrere una distanza infinita, ma di attuare una successione infinita di cause. San Tommaso non ne esclude la possibilità in senso assoluto, se si tratta di una successione accidentale o casuale. Come abbiamo visto, porta l’esempio del succedersi casuale di martelli del fabbro. Quello che è impossibile è una successione infinita di cause sovraordinate.

[8] L’impossibilità del retrocesso all’infinito per dimostrare l’esistenza di Dio appare chiara se noi sottintendiamo il riferimento all’essere, ossia alla realtà, cioè al fatto che noi prendiamo in considerazione come punto di partenza l’ente contingente. Occorre tuttavia essere prudenti nell’uso della categoria dell’infinito e della distanza, perché di per sé si tratta di concetti della matematica, per cui, se non facciamo riferimento all’essere contingente e necessario, rischiamo di restare solo sul piano dell’immaginazione.

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