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La concezione idealistica della filosofia - Seconda Parte (2/5)

 

La concezione idealistica della filosofia

Seconda Parte (2/5)

 

 L’idealismo è un volontarismo

Ho già mostrato più volte nei miei scritti su Cartesio come la sua affermazione del nostro sum non è un’affermazione che sia effetto di una constatazione intellettuale necessitata dall’evidenza dell’oggetto, ma di una libera decisione della volontà. Sicchè d’ora in avanti non è la libertà che consegue alla verità, ma è la verità ad essere effetto della libertà o della volontà o della prassi.

Da qui nasce il tipico volontarismo idealista che compare nel primato kantiano della ragion pratica. Per Kant il conoscere è costruire l’oggetto unendo la forma a priori dell’intelletto con la materia delle sensazioni.

Fichte accentua questo volontarismo, per cui per lui l’essere è un fare (tun). L’io pone se stesso perché lo vuole. L’io agisce nel momento in cui pensa. Sostanzialmente il pensare coincide con l’agire, col fare.

Schelling identificherà esplicitamente l’essere col volere fino ad arrivare a dire che Dio esiste non perché è l’essere necessario, ma perché Egli stesso come in Fichte pone e vuole il suo essere con un atto di volontà: il suo esistere è effetto del suo voler essere e coincide con la sua volontà e la sua libertà.

In Hegel il tema della libertà ha la massima importanza. Lo stesso Assoluto è libertà. Tuttavia la sua filosofia si presenta come una logica, apoteosi della ragione come divina rivelazione. C’è però la dialettica, nella quale appare il suo volontarismo. Infatti in essa al volere corrisponde l’opposizione del positivo al negativo: il positivo è il volere; il negativo è il non volere. Per questo la contraddizione è ad un tempo pensiero e azione. Alla dialettica nel pensiero corrisponde la guerra tra gli Stati e nella storia. Marx raccoglierà questo spunto per elaborare la sua teoria della lotta di classe. Per questo egli parla di materialismo dialettico.

Come poi farà notare Heidegger[1], Nietzsche riprenderà il volontarismo hegeliano concependo l’essere come volontà di potenza.  Il Lebensraum (spazio vitale) che Hitler rivendicherà come spettante alla volontà di potenza del popolo tedesco, è l’applicazione in politica della concezione nicciana dell’essere.

L’idealismo e il popolo tedesco

L’indole del tedesco, simile a quella allo slavo, associa in sé una tendenza alla violenza ad un bisogno spasmodico e nostalgico[2] di assoluto. C’è in lui un’impressionante oscillazione fra la più delicata tenerezza e la più spaventosa crudeltà, fra la totale dedizione e la più dura prepotenza. Da qui la sua bellicosità e ad un tempo la ricchezza del suo sentire e sognare, nonchè l’arditezza del suo poetare e del suo misticismo, che lo spinge al panteismo, probabilmente favorito da antichissimi contatti con l’India e il Tibet.

Il misticismo cattolico tedesco ebbe il suo splendido inizio nel sec. XIII a seguito della diffusione dei Domenicani. Iniziò Sant’Alberto Magno, al quale nel secolo successivo fecero seguito Meister Eckhart, il Beato Enrico Susone e Giovanni Taulero, periodo fecondissimo di santità e spiritualità, ma anche, con Eckhart, dell’apparizione dei primi sintomi di panteismo.  Inizia in Germania anche la letteratura mistica femminile.

Nel secolo successivo, il sec. XV°, lo slancio mistico subisce un ulteriore degrado, in quanto, se da una parte i Tedeschi cominciano a voler costruire una propria teologia, e in ciò non c’è nulla di male, dall’altra però lo fanno indulgendo ai loro difetti, con la pretesa di presentarli e imporli agli altri popoli cristiani come fari di sapienza e direttive-guida teologiche per tutta la Chiesa.

Penso in modo particolare all’opuscolo anonimo La teologia dei tedeschi[3], ammirato e raccomandato da Lutero e da Nicolò Cusano, anima peraltro di mistico, che immagina in Dio, col pretesto della sua incomprensibilità, la sua famosa coincidentia oppositorum, un al di là del sì e del no, che sarebbe stata la gioia dei doppiogiochisti, destinata ad un’immensa fortuna fino ad Hegel e a Nietzsche.

Questo nazionalismo intellettuale tedesco – il Tedesco luce del mondo - in seguito non è andato che affermandosi sempre di più col passare da un iniziale poderoso esordio avviato da Lutero col suo Discorso ai principi cristiani di nazione tedesca, dove egli presenta il cristiano tedesco (cioè i suoi seguaci) come il vero annunciatore del Vangelo contro le menzogne dell’Anticristo romano.

Nel sec. XVII sorge Jakob Böhme, definito ed ammirato da Hegel come philosophus teutonicus[4], autore di una teologia nella quale il mondo è in Dio stesso, per cui Dio è causa tanto del bene quanto del male, un tema, questo, già presente nella Kabbala, dalla quale probabilmente Böhme ha attinto. Nel ‘700 compare la Metafisica tedesca di Wolff, ispirata a Cartesio, mentre Fichte nell’800 nei Discorsi all nazione tedesca sostiene l’eccellenza della filosofia tedesca su quella dell’umanità.

Hegel nell’800 ed Heidegger nel ‘900 proclamano la stessa cosa. Nietzsche esalta il tedesco, la «bestia bionda» come dominatore del mondo e il nazismo, come sappiamo, tenterà di mettere in pratica queste idee nella folle volontà di rendere la Germania dominatrice del mondo. Stoltissimo fu il fascismo, sotto la guida intellettuale dell’hegeliano Giovanni Gentile a rendersi succube della Germania nazista, la cui organizzazione dello Stato era appunto ispirata ad Hegel.

Il Dio degli idealisti

Un questionario

Per loro l’essere è l’essere pensato o è anche quello non pensato? Il pensiero dipende dall’essere o l’essere dal pensiero? La verità è ciò che appare o è ciò che è? C’è una cosa in sé o la cosa è solo per me? C’è un essere fuori del pensiero o l’essere è solo nel pensiero? C’è un dentro e un fuori del pensiero o c’è solo il pensiero come l’essere? C’è differenza tra pensare ed essere? C’è differenza tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra il vero e il falso, tra il bene e il male? Tra Dio e il mondo?

Dobbiamo ricordare altresì che non basta parlare di Dio, usare la parola «Dio» per avere un concetto giusto di Dio, per dire di adorare il vero Dio, per sapere e insegnare chi è Dio. Gli idealisti hanno tutti sulla bocca la parola «Dio», si vantano di conoscere Dio meglio dei realisti, degli aristotelici, dei cattolici, dei Papi, dei Santi, della Bibbia, di Gesù Cristo.

Ma in fin dei conti qual è il loro Dio? È diverso dal loro io? É più in alto? È una persona diversa dalla loro persona? È un essere o una realtà esterna al loro pensiero e alla loro coscienza, ad essi presupposto, da essi indipendenti, una realtà creatrice del loro essere, del loro pensiero e della loro coscienza?

Esisterebbe se loro non ci fossero? Nel parlare di Dio alzano lo sguardo al cielo o innalzano se stessi al cielo? Esaltano Dio o esaltano se stessi?  Il loro Dio è al di là di questo mondo o esiste in questo mondo? È il Dio che è in cielo è il Dio di questo mondo? É un Dio connesso al mondo o libero e sciolto (absolutus) dal mondo? Esisterebbe senza il mondo? È un Dio che crea il mondo dal nulla o non è nulla senza il mondo? È un Dio da noi noto prima delle cose come conosciamo l’effetto dalla causa o un Dio che conosciamo mediante le cose, come la causa si conosce dall’effetto? Sanno distinguere l’uomo da Dio?

Sanno parlare con Dio? Sanno ascoltarlo? Sanno adorarlo, rendergli culto, pregarlo, consultarlo, obbedirgli, amarlo? Chi è per loro il prossimo? È creato da Dio o è funzionale al loro io? Nell’agire si curano di osservare i comandamenti di Dio o di fare la loro volontà? Per loro la libertà sta nell’obbedire a Dio o nel fare la propria volontà? Amano Dio più di se stessi o amano se stessi più di Dio? Amano un solo padrone o ne amano due? Sanno distinguere l’essere dal non-essere, il vero dal falso, il sì dal no, il bene dal male?

Il fideismo luterano prepara l’idealismo cartesiano

L’odio che Lutero aveva per la filosofia e la teologia di San Tommaso non fu certo segno di realismo[5]. Lutero intendeva combattere una ragione arrogante e sofistica, la ragione corrotta e ribelle guastata dal peccato originale, una ragione bugiarda che crea ostacolo alla fede ed anzi falsifica la Parola di Dio. E in ciò egli si rifaceva in certo modo alla polemica di Sant’Agostino contro i pelagiani e gli accademici. Ma Agostino conosceva bene anche il valore della ragione, che ha il compito di farci trascendere noi stessi per farci tendere a quel Luogo trascendente, cioè Dio, «ubi ipsum lumen rationis accenditur»[6].

Certo non si può parlare di idealismo per Lutero, sia perchè egli non pensò mai di dover dimostrare l’esistenza delle cose e sempre credette in Dio come creatore del mondo, sia perchè egli disprezzava Platone e sia perchè Cartesio era ancora da venire.

E tuttavia nella condotta morale e nel modo di ragionare di Lutero l’albagia capziosa e la superbia tipica dell’idealista: la convinzione di possedere in proprio la verità assoluta su Dio contro tutto e contro tutti. Così si spiega in Lutero la sua ribellione al Magistero della Chiesa e la pretesa di interpretare la Bibbia, lui, da solo e al di sopra di tutti, convinto di essere sempre sotto l’influsso dello Spirito Santo.

Indipendentemente da questo atteggiamento di Lutero, i suoi seguaci si resero conto che comunque, per quanto la ragione fosse corrotta al seguito del peccato originale, non si poteva evitare di farne uso anche nell’interpretare la Scrittura, mentre lo stesso Lutero si era proclamato seguace di Ockham e Melantone simpatizzava per Aristotele.  

I luterani pertanto, alla ricerca di una filosofia che potesse appoggiare il luteranesimo, quando apparve Cartesio non trovarono nulla di meglio che utilizzare il suo pensiero. Infatti il pensiero di Cartesio converge con quello di Lutero nell’autoesaltazione dell’io: Cartesio che concepisce l’«io sono» alla maniera di Es 3,14 (come ben comprese Fichte) e Lutero per il quale Dio è in me e guai a chi mi dà torto. Inoltre il coscienzialismo cartesiano poteva avere qualche somiglianza con l’interiorismo agostiniano, del quale resta un riflesso nell’ex-agostiniano Lutero.

Idealismo cartesiano e idealismo platonico

Occorre inoltre osservare che l’idealismo di Cartesio[7] è ben diverso da quello di Platone, per il quale l’idea è oggettiva e trascendente. Con Cartesio, invece, l’idea non è altro che l’idea umana divinizzata.  Per questo è solo con Cartesio che si può cominciare a parlare di idealismo nella sua caratteristica propria di entificazione dell’idea umana, mentre in realtà l’idealismo platonico è un realismo come quello di Aristotele, che ammette una realtà trascendente il pensiero e ne è la regola di verità, anche se Platone la chiama «idea», concetto che Aristotele non seppe apprezzare perché non capì ciò che esattamente Platone intendeva in quel termine. Resta comunque, come osserverà San Tommaso, che Platone ipostatizzò l’universale anziché riconoscere il suo essere mentale.

Cartesio sbaglia nel concepire la mente o l’anima umana come res cogitans. Solo Dio è res cogitans. Solo Dio è pensante in atto e per essenza, anzi atto puro di pensare Se stesso, Nòesis noèseos, come intuì Aristotele.  L’intelletto umano è una potentia o facoltà, o se vogliamo, una res quae potest cogitare. 

In noi il pensare o il sapere appartiene bensì alla nostra natura personale di animali ragionevoli, ma non è in noi sostanziale, cioè noi non siamo per natura pensanti in atto, ma abbiamo solo la facoltà o possibilità o capacità naturali di pensare che in alcuni soggetti può anche non attuarsi. E non per questo perdono o mancano della dignità di persone.

Il pensare, cioè, in noi appartiene alla categoria accidentale della qualità, che si aggiunge e qualifica la sostanza o persona umana a differenza delle sostanze inferiori. Il nostro atto di pensare non s’identifica col nostro atto d’essere, ma vi si aggiunge, se si aggiunge, come atto secondo. Il sapere acquisito appartiene alla categoria accidentale dell’avere o del possedere. In quanto comunicato, il sapere o il pensare appartiene alla categoria della relazione. Solo in Dio il pensare è sostanziale e sussistente, perché coincide col suo stesso atto d’essere.

Ma anche mettendo il conoscere nella categoria dell’accidente, esso non è un fare o un agire, ma un essere o divenire ideale o intenzionale, cosciente ed intramentale, un divenire intenzionale l’altro in quanto altro, restando se stessi ontologicamente. È vero che nel conoscere noi produciamo il concetto o le nostre idee, ma si tratta di semplici enti mentali, come mezzi del conoscere e diventano oggetti di conoscenza o meglio di coscienza solo quando riflettiamo su di essi dopo averli prodotti.

Il pensare umano passa, se passa, dalla potenza all’atto. Il pensare nell’embrione umano è solo in potenza.  Il pensare umano passa dall’ignoranza alla scienza. Solo il pensare divino è scienza in atto. Non s’identifica sic et simpliciter con l’essere, come il pensare divino, ma solo intenzionalmente nell’atto del conoscere. E comunque, è chiaro che quando cade nell’errore si separa dall’essere.

Cartesio è il primo filosofo nella storia della filosofia, nella linea dell’antropocentrismo protagoreo, a dichiarare falsa la gnoseologia realista per sostituirle l’idealismo. Ricordiamo infatti le famose parole di Cartesio:

«Un’altra cosa ancora asserivo che a causa dell’abitudine che avevo di credervi, sebbene, veramente, non la percepissi affatto: è cioè che vi erano delle cose fuori di me donde procedevano quelle idee ed alle quali esse erano del tutto simili. Ed era in questo che m’ingannavo»[8].

Per Cartesio, come è noto, noi non attingiamo con i sensi a cose esterne, dalle quali ricaviamo le nostre idee come rappresentazioni o immagini delle cose, ma abbiamo come oggetto immediato del nostro sapere delle semplici idee, come quella del mondo, dell’anima e di Dio, circa le quali però non sappiamo se ad esse corrisponde fuori di noi qualcosa di reale.

Ma Cartesio imposta male il problema della conoscenza. È vero che nella nostra coscienza ci sono delle idee che pretendono di rappresentare una realtà esterna. Ma Cartesio non tiene conto del fatto che noi elaboriamo la dottrina delle idee proprio per spiegare il fatto della conoscenza della realtà esterna.

Ora dobbiamo considerare che il problema della veracità od oggettività della conoscenza si imposta così: noi troviamo nella nostra coscienza o nella nostra mente come immanenti ed immaterialmente presenti ad essa quelle cose materiali che sono fuori di noi e che sperimentiamo con i sensi.

Non dobbiamo chiederci, quasi dubitando, come ha fatto Cartesio, se ciò è vero o possibile, ma, poiché è un dato di fatto indubitabile, dobbiamo chiederci: come ciò è possibile? Che cosa accade? Che cosa è successo? Come si spiega questo essere in noi ciò che è fuori di noi?

Nel momento in cui ci poniamo questo problema supponiamo di conoscere le cose per mezzo delle nostre idee, che evidentemente supponiamo veraci o capaci di verità; se no, non ci porremmo neanche il problema. Quindi, non si tratta di sapere se possiamo o non possiamo conoscere la verità, ma di sapere com’è e in base a che cosa noi conosciamo la verità.

A questo punto siamo obbligati a prender coscienza dell’esistenza e della funzione gnoseologica delle nostre idee. Non si tratta quindi di sapere se le nostre idee si rapportano o no a ciò che esse ci dicono di rappresentare, e tanto meno si tratta di sapere se esistono o non esistono cose fuori di noi, ma di renderci conto che noi raggiungiamo e rappresentiamo con la nostra mente interiormente le cose per mezzo delle idee.

Non si tratta quindi, come fa Cartesio, di dimostrare, in base ad una nostra supposta autocoscienza originaria, apriorica ed atematica, che esiste una realtà esterna, ma al contrario, si tratta di capire che noi siamo arrivati ad un’autocoscienza perché abbiamo precedentemente contattato con i sensi la realtà esterna e siamo consci, contro l’assurdo scetticismo cartesiano, della veracità dei sensi.

 A questo punto abbiamo la possibilità di dimostrare realmente, applicando il principio di causalità l’esistenza di Dio e non di fare di Dio un’idea della nostra ragione o della nostra mente o un prodotto della nostra coscienza. Non siamo noi a poter affermare l’esistenza di Dio come se Egli fosse una nostra idea, ma è Lui il creatore della nostra ragione ideatrice per mezzo della quale dimostriamo che Egli esiste a partire dai suoi effetti creati. Non dimostriamo che Dio esiste in base alla nostra idea di Dio, ma ci facciamo un’idea di Dio perchè abbiamo dimostrato che Egli esiste.

Il Dio di Cartesio non è il Dio reale, extramentale, trascendente, scoperto dalla ragione che, partendo dall’esperienza delle cose ed applicando il principio di causalità, lo ha scoperto come motore immobile, causa prima e creatore del mondo. Ma è un’idea innata, alla quale Cartesio dà corpo e realtà solo perchè la concepisce in questi termini, ma resta una semplice idea della ragione, come confermerà Kant e sarà ripresa da Hegel.

La svolta al soggetto in Kant[9]

Cartesio sposta l’attenzione dalle cose all’io, credendo di trovare lì il principio della verità e del sapere. Kant continua a fare attenzione alla cosa in sé e sa che esiste, ma perde di vista che l’intelletto, come aveva insegnato San Tommaso, ha per oggetto la quidditas rei materialis. 

Kant sa che le cose ci sono fuori di noi, ma non riesce più a coglierne l’essenza. Sa che ci sono, ma non sa che cosa sono. Secondo lui, io non vedo la cosa in sé, così come essa è, ma solo ciò che di essa mi appare nell’esperienza sensibile. In questo senso egli si lascia ingannare da Cartesio secondo il quale è un errore credere che ci siano delle cose fuori di noi, senza averlo dimostrato.

E lo si dimostra solo partendo dall’autocoscienza, cioè, come la chiama Kant, dall’«io penso». Fichte capì che il principio della gnoseologia kantiana non era la cosa in sé, cioè che Kant, benchè avesse mantenuto il dato realistico della cosa in sé, nel fondare il suo sistema aveva sposato l’io cartesiano.

E ciò era dimostrato dal fatto che Kant, con la sua famosa rivoluzione copernicana, cioè col trasferire dall’oggetto (la cosa) al soggetto (l’io) il principio della verità del sapere, seppur conservando con la cosa in sé un residuo di realismo, tuttavia si considerò fondatore dell’idealismo trascendentale, assunto e condotto alle estreme conseguenze panteistiche ed atee dagli idealisti tedeschi successivi.

Come è ben noto, il trascendentale kantiano non è una proprietà dell’ente, come nel realismo, ma è proprietà del soggetto conoscente. Fichte quindi capì che la cosa in sé kantiana era un residuo di realismo, che in clima idealistico non aveva più ragion d’essere, dal momento che Kant aveva sposato l’io penso cartesiano, che gli appariva già sufficiente a spiegare l’esistenza e l’origine della realtà, senza bisogno di ricorrere a cose esterne alla coscienza dell’io.  

Fichte pertanto esortò Kant ad essere coerente andando fino in fondo nell’idealismo, ossia eliminando la cosa in sé, perché per Fichte l’Io bastava da solo a spiegare tutta la realtà. Ma Kant non accettò la proposta di Fichte e l’interpretazione che questi aveva dato del suo io penso, cosicché volle conservare il realismo della cosa in sé, che sarà poi eliminata da Fichte.

C’è inoltre da notare che Kant accoglie il concetto cartesiano dello spirito inteso come res cogitans, ma senza esplicitarne le potenzialità panteistiche come farà Fichte. L’io penso kantiano sono io nel senso cartesiano, come spirito, che per Kant equivale alla ragion pura. Quindi, quando Kant dice che noi non possiamo conoscere l’essenza della cosa in sé, intende la cosa o sostanza sensibile e materiale.

È solo questa che appare come fenomeno sperimentabile al senso.  Se invece per cosa in sé pensiamo alla res cogitans, per Kant questa res la conosciamo benissimo: non  è altro che la ragion pura che riflette su se stessa, oggetto della filosofia e in particolare della metafisica. In tal senso Kant ammette la metafisica come scienza. Tuttavia si tratta della concezione cartesiana e non di quella aristotelica della metafisica.

Fine Seconda Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 ottobre 2025

L’odio che Lutero aveva per la filosofia e la teologia di San Tommaso non fu certo segno di realismo. Lutero intendeva combattere una ragione arrogante e sofistica. E in ciò egli si rifaceva in certo modo alla polemica di Sant’Agostino contro i pelagiani e gli accademici. Ma Agostino conosceva bene anche il valore della ragione, che ha il compito di farci trascendere noi stessi per farci tendere a quel Luogo trascendente, cioè Dio, «ubi ipsum lumen rationis accenditur».

Il pensare, in noi, appartiene alla categoria accidentale della qualità, che si aggiunge e qualifica la sostanza o persona umana a differenza delle sostanze inferiori. Il nostro atto di pensare non s’identifica col nostro atto d’essere, ma vi si aggiunge, se si aggiunge, come atto secondo. Il sapere acquisito appartiene alla categoria accidentale dell’avere o del possedere. In quanto comunicato, il sapere o il pensare appartiene alla categoria della relazione. Solo in Dio il pensare è sostanziale e sussistente, perché coincide col suo stesso atto d’essere.

Ma anche mettendo il conoscere nella categoria dell’accidente, esso non è un fare o un agire, ma un essere o divenire ideale o intenzionale, cosciente ed intramentale, un divenire intenzionale l’altro in quanto altro, restando se stessi ontologicamente. È vero che nel conoscere noi produciamo il concetto o le nostre idee, ma si tratta di semplici enti mentali, come mezzi del conoscere e diventano oggetti di conoscenza o meglio di coscienza solo quando riflettiamo su di essi dopo averli prodotti.

Il pensare umano passa, se passa, dalla potenza all’atto. Il pensare nell’embrione umano è solo in potenza.  Il pensare umano passa dall’ignoranza alla scienza. Solo il pensare divino è scienza in atto. Non s’identifica sic et simpliciter con l’essere, come il pensare divino, ma solo intenzionalmente nell’atto del conoscere. E comunque, è chiaro che quando cade nell’errore si separa dall’essere.

Immagine da Internet: Sidra, il libro sacro di Qaraqosh (https://www.vaticannews.va/fr/pape/news/2021-02/sidra-livre-sacre-qaraqosh-pape-voyage-irak.html)



[1] Vedi Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 2013.

[2] La nostalgia è vicina alla malinconia. Sono entrambe forme di tristezza per aver perduto un bene che ad un tempo non si riesce e non si vuol recuperare. La nostalgia si concentra nel ricordo del bene perduto. La malinconia è un ripiegamento su di sé privo di speranza. È interessante l’elogio che Giuseppe Barzaghi fa della malinconia nel suo libro Philosophia. Il piacere di pensare. Il Poligrafo, Padova 1999, pp.22-27. Secondo lui la malinconia è segno di «genialità» ed è legata all’esperienza del «puro pensiero» nel senso idealistico gentiliano. Come tale essa appare un sentimento malsano. Per questo si attribuisce a San Filippo Neri il motto «scrupoli e malinconia fuori di casa mia!”.

[3] Pubblicato dall’Editrice Esperienze, Fossano (Cuneo) nel 1969.

[4] Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1981, vol.3, II, p.35.

[5] Resta classica la critica di Maritain nel già citato libro Tre riformatori.

[6] De vera religione, c. XXXIX.

[7] Una buona critica a Cartesio è stata fatta da Maritain in Tre riformatori, Editrice Morcelliana, Brescia 1964 e Le songe de Descartes, Buchet&Chastel, Paris 1932.

[8] Meditazioni metafisiche, Editori Laterza, Bari 1968, p.95.

[9] Una buona critica all’idealismo kantiano si trova in Maritain, in Riflessioni sull’intelligenza, Editrice Massimo, Milano 1987, pp.42-86.

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