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L'esistenza di Dio - Conferenza di P. Tomas Tyn - Seconda Parte (2/3)

 

L’esistenza di Dio

Conferenza di P. Tomas Tyn, OP

Bologna, 13 novembre 1986 - Presso Istituto Tincani

Seconda Parte (2/3) 

 Audio:  http://youtu.be/GM5xcy5WQv0

 

Adesso, dopo aver accertato questo, vediamo qual è il punto di partenza per arrivare alla conoscenza di Dio e della sua esistenza. San Tommaso d’Aquino, il nostro Angelico Dottore esclude tutte le prove dell’esistenza di Dio tranne un solo tipo di prova, che ammette. Ed è la prova cosiddetta cosmologica, cosmologica.

Perché si chiama cosmologica? Perché parte dal cosmo, ossia dalle cose sensibili che compongono il mondo sensibile e che guardiamo con i nostri occhi, che ascoltiamo con le nostre orecchie, insomma tutte quelle cose che sono percettibili dai sensi dell’uomo e quindi intelligibili immediatamente dalla intelligenza umana.

 Quindi il punto di partenza è estremamente semplice e umile. Sono semplicemente le cose di questo mondo, cose evidenti per i sensi umani e quindi tanto più per l’intelligenza umana. Perché, vedete, bisogna partire proprio da quello che l’uomo è. L’uomo non è né un Dio né un angelo. È semplicemente un uomo: un’anima razionale, però legata ad un corpo. Quindi una intelligenza che nel conoscere intellettivamente si serve dei sensi. Pensate alla dottrina aristotelica della astrazione dal dato sensibile. Quindi San Tommaso dice: no, no, non hanno ragione gli ontologisti, che dicono che noi contempliamo l’essere di Dio nelle nostre belle idee, che abbiamo nella mente. No. Bisogna prendere la strada di quelle cose, che sono immediatamente conoscibili dal nostro intelletto, in quanto è umano, che sono le cose sensibili. Perché noi conosciamo tramite le cose sensibili.

Pensate che noi non conosciamo nemmeno per bene la nostra anima. Magari la conoscessimo. La conosciamo solo indirettamente, proprio tramite i sensibili, per analogia con i sensibili. Quindi bisogna partire dalle cose materiali sensibili. Se volete, per risalire al sommo, al divino, bisogna partire dal più umile e più semplice, da quello che è più evidente.

Quindi questa prova tomistica cosmologica ha delle basi solidissime incontrovertibili, perché poggia sulla evidenza del dato sensibile. Naturalmente la filosofia moderna cosiddetta critica che ha compiuto la svolta antropocentrica soggettivistica, la rivoluzione copernicana come la chiama Kant, questa filosofia moderna certamente non ammetterebbe il punto di partenza. Perché? Perché nega l’evidenza dello stesso dato obiettivo, sia quanto ai sensi e sia quanto alla ragione.

Quindi di questo bisogna tener conto: che queste prove, che noi ammettiamo volentieri, non sono però ammesse da molti dei nostri contemporanei. Perché? Perché loro capovolgono il rapporto, che esiste tra oggetto e soggetto. Esiste questa convinzione, ovviamente sbagliata, solipsistica, che chiude l’uomo in sé stesso, che dice che noi non conosciamo la realtà delle cose, ma conosciamo solo le apparenze, ta fainomena, le cose che appaiono, in quanto appaiono. E quindi l’apparire delle cose.

Perciò, per questi, ovviamente non c’è[1]. Vedete il soggettivismo. Questo vorrei che sia chiaro. Perché? Perché al giorno di oggi è il pericolo numero uno. Cioè il soggettivismo, il soggettivismo non può che essere ateismo. Se ci prova a non essere ateismo, diventa fideismo, ma il fideismo non è un superamento, come abbiamo spiegato, vero dell’ateismo.

Quindi il soggettivismo, quello che si chiama immanentismo soggettivistico, cioè il permanere della nostra mente nel soggetto, negando l’evidenza dell’essere, ebbene questa chiusura dell’uomo in sé stesso lo rende ateo. Lo pone quasi al posto di Dio: “Non ho bisogno di Dio, basto a me stesso, sono sufficiente a me stesso”.

Invece bisogna partire da questa convinzione, che non è l’uomo, miei cari, non è l’uomo che impone le leggi del suo conoscere all’essere, ma è l’essere che impone le leggi dell’essere al nostro conoscere. Naturalmente per questo non c’è bisogno di dimostrazione, che poi non è neanche possibile. Questa è una evidenza. Purtroppo a parole anche le evidenze si possono negare.

Quindi partiamo da questa evidenza, che non è il nostro pensiero che crea le cose. Non sono io che mi sono inventato il libro che ho dinanzi, il tavolino e tutto il resto. Al contrario, è l’esistenza di questo oggetto che si imprime nella mia mente. Partendo da questa evidenza si risale sino alla esistenza di Dio. Quindi punto di partenza è il semplice esistere delle cose materiali e sensibili.  

In che modo però le cose così piccole, così povere e così umili consentano alla intelligenza umana di elevarsi fino al sommo essere, cioè sino all’essere divino.  È una cosa interessante. Potremmo dire questo, che le cose evidenti, quelle che abbiamo attorno, quelle semplici e più limitate, più finite e più ovvie, tutte queste cose esprimono, manifestano Dio. Pensate a Sant’Agostino. L’intervista, la chiamo io quella pagina delle Confessioni, l’intervista alle creature

Quando chiede alle creature chi le ha create, cioè da dove vengono. E le creature dicono: “Non siamo noi che ci siamo fatte, è qualcun altro”. Tutte le creature rinviano all’altro. Tutte le creature enarrant gloriam Dei, cioè raccontano le opere magnifiche del Signore, del Creatore.? Scoto Eriugena quindi vedeva in una prospettiva un po’ platoneggiante ogni creatura come una teofania, come un’apparizione di Dio.

Bisogna avere proprio questa mentalità, cioè vedere come ogni cosa, la più piccola, un atomo di materia, una particella subatomica, la più piccola cosa, purché esista, manifesta l’infinità dell’atto creatore e la stessa essenza del Creatore, che è Dio.

Perché le cose piccole manifestano la cosa grande, che è Dio? Ebbene, cari, possiamo dire questo: proprio per la loro piccolezza. È una cosa curiosissima.  Cioè si potrebbe veramente dire Deus in minimis maximus, Dio nelle cose più piccole si rivela il più grande. Perché? Perché più una cosa si rivela inconsistente, più ha bisogno di ricevere l’essere. Ma da dove lo riceve, dato che non se lo dà  a se stessa ? Da un altro. Da chi, in ultima analisi? Da Colui che non solo ha l’essere, ma da Colui che essere è. Cioè da Dio.

Quindi il modo di procedere è questo. Partire dalle cose più evidenti, quelle che abbiamo dinanzi a noi, quelle cose che proprio sotto i nostri occhi si muovono, camminano, diventano, eccetera. Da queste cose noi risaliamo, tramite la insufficienza ontologica che si chiama quella piccolezza delle cose. Cioè vedendo che le cose non bastano a sé stesse, cioè dalla loro piccolezza, limitatezza, finitezza, dalla loro insufficienza ontologica risaliamo al Datore di essere.

Cioè ci accorgiamo che le cose non sono per la loro essenza, ma sono per partecipazione, ossia perché hanno parte in un essere che le supera. Quindi ricevono l’essere non da sè, ma da un altro, che dà a loro l’essere e che in ultima analisi non può che essere Dio. Vedete quindi come bisogna vedere nelle cose anzitutto la loro limitatezza e quindi il loro grido quasi rivolto verso l’alto, il grido che chiama il Datore dell’essere alla donazione dell’essere stesso.

È molto bello. S. Tommaso proprio quando parla della misericordia, dice che essa, che è una grande virtù collegata con la carità nella vita morale dell’uomo, è anzitutto l’attributo per eccellenza di Dio[2]. In quanto Dio, essendo l’essere puro, colma ogni insufficienza, ogni finitezza, con l’actus essendi.

Dio, dando l’esistenza a ogni anche più piccola essenza, Dio si rivela misericordioso in tutte le sue opere. Colma con l’abisso della sua misericordia, l’abisso della miseria delle cose. Anche a livello proprio ontologico. Quindi bisogna analizzare bene la finitezza delle cose. Questa finitezza delle cose, miei cari, appare anzitutto nel loro essere causate. Cioè le cose sono effetti di altre cose.

Soprattutto si manifesta questa finitezza in modo più apparente e più appariscente, proprio nel divenire. Le cose sensibili, che abbiamo dinanzi a noi, sono delle cose che si muovono, che divengono, che non sono[3]. Cioè sono e non sono. Perché il divenire è come uno spostarsi dal non-essere verso l’essere o da un essere verso un altro essere.

Ora, questo divenire, questo spostarsi, che è come una mistura di non-essere e di essere, questo spostarsi dal non-essere all’essere avviene sempre sotto la guida di una causa datrice dell’essere. Cioè ciò che non è, non può dare l’essere, che non ha[4]. Nessuno può dare ciò che non ha.

Quindi solo ciò che ha l’essere, può dare l’essere. Perciò chi non ha l’essere, lo riceve, non lo dà. Non lo dà a se stesso, non lo dà ad altri, lo riceve da altri. Pensate al processo della generazione. I genitori che danno la vita al loro bambino. Il bambino non se la prende da sé la vita, la riceve da qualcun altro. Da chi? Da uno, anzi da due, che hanno già la vita. Quindi nessuno dà ciò che non possiede.

Perciò Aristotele e San Tommaso che lo segue in questo, dicono che bisogna che la attuazione, cioè il divenire, avvenga in maniera tale che ciò che è in atto dia il suo atto, la sua realtà, il suo essere, a ciò che è ancora in potenza, a ciò che ancora non è pienamente.

La causalità significa questo.

Che nessuno dia a se stesso il suo essere, ma lo riceva, è cosa evidente. Infatti questo essere che non ha in partenza, ma diventa in vista di attuarsi, lo riceve da qualcos’altro, cioè dalla sua causa.

Ora, nell’ordine delle cause che si condizionano a vicenda, che dipendono l’una dall’altra, in ultima analisi si arriva a quella causa, che non riceve più il suo essere da nessun’altra, ma che è solo datrice dell’essere[5], cioè a quella causa, che causa soltanto senza essere effetto. Quindi, pensate. Noi partiamo da quelle cose, che sono effetti, sono dei causati, sono dei dipendenti. Queste cose ci richiamano a qualcosa da cui dipendono. Poi noi scopriamo che c’è tutta una serie di dipendenti e di cose da cui dipendono, cioè di cause e di effetti. Però in ultima analisi, dietro a tutto quel dipendere reciproco, vediamo come una chiave di volta, intravediamo con la nostra intelligenza come una chiave di volta a cui tutto è sospeso. Ebbene, quella causa, che è solo causa e che non è più causata[6].

Quella causa, che è solo causa e che non è più causata, è Dio. È la causa prima incausata, è l’atto puro di essere. Dio non riceve l’essere, ma è l’essere ed è datore di essere, in quanto è essere. Allora, abbiamo spiegato un pochino quello che può essere il cammino della intelligenza umana verso Dio, partendo dalle cose di questo mondo.

Ve lo ripeto adesso, facendovi quasi una specie di schemino. Tutte le prove cosmologiche hanno in comune questa struttura. Primo momento. C’è anzitutto il punto di partenza, ossia il dato evidente di cose ontologicamente insufficienti, cioè di cose causate, di cose dipendenti nell’essere da altre cose. Questo è il punto di partenza: l’evidenza della dipendenza dell’effetto da una causa. Ci sono delle cose causate, perciò ci sono delle cause di quelle cose che sono causate. Questo è il punto di partenza.

Vedete come è evidente. È una cosa estremamente solida. Infatti, per dimostrare l’esistenza di Dio non è facile, arrivare fino in cima. Quindi il fondamento deve essere bene impostato,.

Poi il secondo momento è, chiamiamolo, la salita. Il movimento in alto, no? In che modo avviene questo movimento? In due tappe. Una tappa è la serie causale. La prima tappa è la constatazione della serie causale. Cioè, come l’effetto rinvia a una causa, così una causa parziale rinvia a una causa più universale, da cui ancora dipende. E così l’altra causa ha un’altra causa ancora e così via. Quindi si apre come una serie di causati e di cause.

Secondo momento della seconda tappa. Quindi il primo momento della seconda tappa, di questa salita a Dio, è appunto la serie causale. Il secondo momento della seconda tappa è quello che io chiamo il principio di freno. Perché a un certo punto questa serie causale sembra essere infinita[7]. Allora Dio non ci sarebbe a questo punto. Perché si passerebbe da causa in causa e così all’infinito.

Come la serie numerica è una serie potenzialmente infinita Non esiste un sommo numero. Ad ogni dato numero, se uno avesse pazienza se uno vivesse per sempre, si potrebbe calcolando aggiungere sempre un altro numero. Quindi se la serie causale fosse infinita, fosse indefinita, a Dio non si arriverebbe[8].

Quindi bisogna pensare, che la serie causale anziché essere potenzialmente infinita, è invece finita. Cioè c’è un primo, da cui ogni altra causa dipende. C’è un primo incausato, da cui ogni altra causa dipende. Come si dimostra questo? È molto semplice. Non si dimostra. Perché? Si spiega soltanto. Perché è evidente. in quanto non è altro che un corollario, per così dire, allo stesso principio della causalità.

Se volete, ve lo metto in questi termini. Non è una cosa esatta ma sapete anche che in metafisica bisogna barcamenarsi un po’ usando un linguaggio fin troppo umano insomma. Allora, potremmo dire così, che una distanza infinita non è percorribile in tempo finito. Quindi non è possibile, pensare a una causa infinitamente distante. La causa prima sarebbe infinitamente distante. Ciò vuol dire che l’effetto di quella causa infinitamente distante non arriverebbe mai all’effetto. Cioè l’agire di quella causa non arriverebbe mai a destinazione[9].

È come un treno che partisse dall’infinito, non arriverebbe mai in nessuna stazione. Come temo che accadrà adesso durante gli scioperi. Comunque, insomma il treno che parte dall’infinito non arriva, non arriva mai. Perché la distanza infinita non è percorribile, infinitum non est per transire dicevano gli Antichi molto giustamente.

Quindi in qualche modo il numero di cause dipendenti l’una dall’altra deve essere sempre finito e al vertice della serie causale. Questa è la terza tappa. È il punto di arrivo. Al vertice della serie causale noi troviamo una causa, che è solo causa e in nessun modo effetto, è solo datrice di essere, perché è essere per essenza[10], è actus purus essendi, come dice San Tommaso, ossia è ciò che tutti chiamano Dio.

Vedete come San Tommaso molto opportunamente, siccome si tratta di conoscere l’esistenza di Dio e non la sua essenza, dice che però per conoscere l’esistenza di Dio bisogna avere una qualche nozione di ciò che Dio è. Però, trattandosi di sola esistenza e non di essenza, basta sapere e avere solo la definizione nominale. Cioè basta avere una proprietà di Dio, su cui tutti sono d’accordo che è Dio, o meglio che spetta a Dio.

Ora, circa la proprietà di essere solo causa e in nessun modo effetto, tutti, anche gli atei, sono d’accordo che è una proprietà che conviene a ciò che si chiama Dio. Adesso proviamo con il nostro caro Dottore Angelico a percorrere le singole tappe o vie per così dire, per dimostrare l’esistenza di Dio.

San Tommaso nella Summa Theologiae subito nella seconda Questione, imposta questo discorso della salita a Dio in una quintuplice serie causale possibile. Possiamo dividere quindi le prove o le vie per dimostrare l’esistenza di Dio secondo i diversi tipi di causalità. Dio non può non essere. Voi sapete che Aristotele distingueva quattro cause: la causa efficiente, la causa finale, la causa materiale e la causa formale.

Ora, Dio non può essere nè causa materiale nè causa formale. Non è possibile. Perché Dio non è un composto di materia e di forma. Dio invece può essere ed è di fatto sia causa efficiente che causa finale. Infine può in qualche modo essere causa formale, ma non intrinseca bensì estrinseca, quella che si dice causa esemplare.

Ora, notate bene, San Tommaso imposta il suo discorso in questo modo. Anzitutto noi vediamo la causalità efficiente nel suo effetto in fieri e in facto esse, cioè nel divenire e nell’essere divenuto. Nel divenire noi ci accorgiamo anzitutto che l’effetto è il muoversi delle cose. E questo è il punto di partenza della prima prova. La prima prova parte da questo. Ci sono delle cose che si muovono.

Poi ci accorgiamo che non solo le cose si muovono, ma che le cose muovono altre cose. Quindi esercitano attivamente, sempre però in fieri, la causalità efficiente. Questa è la seconda prova, l’inizio della seconda prova. Ci sono delle cause che esercitano la causalità, però dipendendo nel loro operare, nel loro agire, da altre cause, che le condizionano.

Poi terzo punto di partenza è la causalità efficiente in facto esse, cioè nell’effetto già divenuto. Cioè Dio è istitutore di un ordine naturale che comprende in sè della contingenza, cioè la capacità di non essere[11]. Le cose del mondo, le cose materiali, sono destinate a sprofondare nel nulla, sono cose mortali[12]. Allora, la mortalità dei viventi, la temporalità delle cose, la loro corruttibilità manifesta in qualche modo  e  richiama di nuovo alla necessità, che in ultima analisi sarà la necessità di Dio. Questo il punto di partenza della terza prova.

Poi esistono nelle cose delle perfezioni. Ecco la causalità esemplare[13]. Abbiamo qui delle perfezioni che sono come delle limitazioni o partecipazioni di una perfezione infinita esemplare ideale ed essenziale[14].

Quindi da perfezioni limitate si arriva a quella perfezione, che è infinita e di cui ogni perfezione limitata è solo una partecipazione, una delimitazione. È quella che potrebbe chiamarsi la prova in base alla causalità esemplare. O meglio, perché ci sia  la causalità efficiente esemplare, occorre la causalità efficiente. Qui Perché Dio appare come Colui che dà alle cose la loro perfezione nel grado di limitatezza, che ogni cosa possiede.

Ultima prova. La prova della causalità efficiente e finale. Il punto di partenza è l’ordine finalistico delle cose. Le cose nel loro agire sono rapportate a dei fini, agiscono per dei fini, sono determinate ad agire in quel modo e non già in un altro. Questa determinatezza nell’agire si chiama finalità.

Ora, ci sono delle cose così determinate, che però non sanno di essere così determinate. Cioè per l’uomo discorso è facile. Uno può dire: “Io mi determino, ordino dei mezzi a un determinato fine”. E allora a un certo punto si potrebbe dire: “Sei tu che ti dai il tuo fine”, E invece nelle cose, che non sanno niente del fatto di essere così ordinate a dei fini, non è possibile che diano a sé stesse quel fine.

Quindi bisogna pure che ci sia Qualcuno che dia quella finalità dall’alto per così dire. E questo è Dio, ordinatore di tutte le cose. Ma, notate, non solo architetto del mondo, come dice Kant nella sua critica di questa prova, bensì Dio ancora creatore, Dio causa efficiente dello stesso ordine naturale, delle stesse finalità naturali.

La pianta che si nutre, che cresce, riceve da Dio questa tendenza a nutrirsi, a crescere, e via dicendo. Questa è la prova appunto per causalità efficiente e finale. Quindi quinque sunt viae, dice San Tommaso. Cinque sono le vie. La via del movimento, la via della causalità presa attivamente[15], la via della contingenza delle cose materiali, mortalità delle cose materiali, la via delle perfezioni limitate che rinviano a una perfezione infinita e la via della causalità finale indita alle cose dall’alto.

Fine Seconda Parte (2/3)

Audio: http://youtu.be/GM5xcy5WQv0

Registrazione e/o custodia degli audio a cura di Amelia Monesi e/o Altri

Trascrizione da registrazione su nastro di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 16 maggio 2015

Testo rivisto con note da Padre Giovanni Cavalcoli, OP - Fontanellato, 18 marzo 2022 e 14 maggio 2024

Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP

Pensate che noi non conosciamo nemmeno per bene la nostra anima. Magari la conoscessimo. La conosciamo solo indirettamente, proprio tramite i sensibili, per analogia con i sensibili. Quindi bisogna partire dalle cose materiali sensibili. Se volete, per risalire al sommo, al divino, bisogna partire dal più umile e più semplice, da quello che è più evidente.

Queste prove, che noi ammettiamo volentieri, non sono però ammesse da molti dei nostri contemporanei. Perché? Perché loro capovolgono il rapporto, che esiste tra oggetto e soggetto. Esiste questa convinzione, ovviamente sbagliata, solipsistica, che chiude l’uomo in sé stesso, che dice che noi non conosciamo la realtà delle cose, ma conosciamo solo le apparenze, ta fainomena, le cose che appaiono, in quanto appaiono. E quindi l’apparire delle cose.

Al giorno di oggi è il pericolo numero uno. Cioè il soggettivismo non può che essere ateismo. Se ci prova a non essere ateismo, diventa fideismo, ma il fideismo non è un superamento, come abbiamo spiegato, vero dell’ateismo. Quindi il soggettivismo, quello che si chiama immanentismo soggettivistico, cioè il permanere della nostra mente nel soggetto, negando l’evidenza dell’essere, ebbene questa chiusura dell’uomo in sé stesso lo rende ateo. Lo pone quasi al posto di Dio: “Non ho bisogno di Dio, basto a me stesso, sono sufficiente a me stesso”.

Invece bisogna partire da questa convinzione, che non è l’uomo, miei cari, non è l’uomo che impone le leggi del suo conoscere all’essere, ma è l’essere che impone le leggi dell’essere al nostro conoscere. Naturalmente per questo non c’è bisogno di dimostrazione, che poi non è neanche possibile. Questa è una evidenza. Purtroppo a parole anche le evidenze si possono negare.

Quindi partiamo da questa evidenza, che non è il nostro pensiero che crea le cose. Non sono io che mi sono inventato il libro che ho dinanzi, il tavolino e tutto il resto. Al contrario, è l’esistenza di questo oggetto che si imprime nella mia mente. Partendo da questa evidenza si risale sino alla esistenza di Dio. Quindi punto di partenza è il semplice esistere delle cose materiali e sensibili.  

Immagine da Internet: Biblioteca San Domenico, Bologna

[1] Si riferisce alla prova che parte dall’esperienza sensibile.

[2] È il massimo tra gli attributi operativi, non quelli ontologici. L’esercizio della divina misericordia suppone l’esistenza del mondo.  Ora, il mondo non è un attributo dell’essenza di Dio, come crede Hegel. Quindi Dio è Dio anche se il mondo non ci fosse. Connettere quindi la misericordia divina con l’essenza di Dio vuol dire confondere Dio col mondo e cadere la panteismo.

[3] Che cosa vuol dire qui Padre Tomas? In che senso non sono? Non sono da sé, ma sono create. Oppure si potrebbe dire: non sono in atto, ma sono in potenza.

[4] Queste parole di Padre Tomas corrispondono all’assioma greco «niente viene dal niente», il che suppone che se esiste qualcosa, questo è causato da un altro ente.

[5] Ossia la causa nel senso pieno del concetto di causa, la causa totalmente causa non può essere un effetto.

[6] Noi siamo abituati nella nostra vita quotidiana ad avere a che fare con cause causate. Ci sembra di essere soddisfatti di queste cause. Tuttavia queste cause esistono, ma potrebbero anche non esistere. Ossia non hanno in se stesse la ragione della propria esistenza. Dunque occorre ammettere una causa che abbia n sé stessa la ragione del proprio esistere. E questa causa è Dio.

[7] Siamo portati a credere che la serie sia infinita, perché ci fermiamo al concetto di causa causata. Per dimostrare che invece c’è una causa prima incausata, per cui la serie termina o comincia con lei, non si tratta tanto di immaginare una serie infinita di cause successive per affermare poi che essa è impossibile. Si tratta invece di stare sul piano dei fatti e della realtà e di applicare seriamente il principio di causalità in tutta la sua potenza e consequenzialità cognitiva senza sconti e senza riserve onde attuare in pienezza il funzionamento della ragione senza frustrarla o bloccandola a metà strada. Si tratta cioè di capire che un ente contingente sarebbe contradditorio se non fosse causato da un ente necessario. La dimostrazione è tutta qui, senza che occorra immaginare processi all’infinito per poi escluderli. È il semplice e corretto ragionamento per analogia che ci propone la Bibbia (Sp 13,5): se c’è l’opera, c’è l’artefice. 

[8] Uno potrebbe dire: tu parti dal bisogno che esista Dio. Ma è proprio quello che devi dimostrare. Vediamo come Padre Tomas risponde a questa obiezione.

[9] Si potrebbe anche dire che il problema della causa, se questa è solo una causa causata, non è risolto, ma si ripropone. Se dunque vogliamo veramente risolvere la questione della causa, occorre, come dice Aristotele, fermarsi e ammettere una causa non causata.

[10] L’impossibilità del retrocesso all’infinito per dimostrare l’esistenza di Dio appare chiara se noi sottintendiamo il riferimento all’essere, ossia alla realtà, cioè al fatto che noi prendiamo in considerazione come punto di partenza l’ente contingente. Occorre tuttavia essere prudenti nell’uso della categoria dell’infinito e della distanza, perché di per sé si tratta di concetti della matematica, per cui, se non facciamo riferimento all’essere contingente e necessario, rischiamo di restare solo sul piano dell’immaginazione.

[11] Padre Tomas non intende dire che le cose cadano nel nulla, quasicchè Dio non conservi le cose nell’esistenza. Certamente, se io mangio una mela, posso dire che la mela non c’è’ più. Ma se voglio parlare con precisione, devo dire che la materia della mela diventa materia del mio corpo. Questo fatto fu riconosciuto dal Lavoisier, il quale affermò che «nulla si distrugge», per dire che nulla si annulla.

[12] Che cosa intende dire qui Padre Tomas? Intende riferirsi alla corruttibilità delle cose materiali trattandole come se fossero tutte viventi. Infatti si dice è  morto un soggetto che prima era vivo.

[13] Questa è la quarta prova.

[14] La causa esemplare o paradigmatica è un modello ideale per la produzione di enti modellati in base a quel paradigma ed è causa perchè ha come effetto il prodotto composto di materia modellata su quell’idea.

[15] La via del divenire, ossia del passaggio dalla potenza all’atto.

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