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Lo sbaglio di Cartesio - Prima Parte (1/2)

 

Lo sbaglio di Cartesio

Prima Parte (1/2)

La loro stessa lingua li farà cadere

Sal 64,9

O realismo o idealismo: tertium non datur

È conforme a Cristo Aristotele o Cartesio? Questo è il nodo da sciogliere se noi cattolici vogliamo obbedire a Cristo nella concordia e nella pace, finalmente liberi dalla maledetta e scandalosa lacerazione tra rahneriani e lefevriani nata col postconcilio sessant’anni fa che ci porta all’odio reciproco e ci fa dare un pessimo esempio agli occhi di quel mondo al quale pretendiamo di portare la pace e che invece giustamente si fà beffe di noi nel constatare che siamo noi i primi ad essere in discordia fra di noi.

Questa alternativa corrisponde al confronto fra realismo e idealismo: il realismo, che, come ci ha ricordato più volte Papa Francesco, dà il primato della realtà sull’idea e l’idealismo, che dà il primato dell’idea sulla realtà; il realismo, per il quale l’idea è rappresentazione della realtà; l’idealismo per il quale la realtà è l’idea che l’idealista ha nella sua mente; il realismo, per  il quale il pensiero è distinto dall’essere; l’idealismo, per il quale il pensiero s’identifica con l’essere; il realismo, per il quale il vero è il pensare adeguato all’essere o l’idea adeguata al reale; l’idealismo per il quale la verità è il contenuto del pensiero dell’idealista.

È vero che nel panorama delle filosofie sono tante le concezioni della conoscenza. Ma tutte, se facciamo attenzione, si riducono a queste due, ossia questa alternativa: o i concetti rappresentano le cose o le cose sono i nostri stessi concetti. Con la prima posizione abbiamo il realismo e la verità; con la seconda abbiamo l’idealismo e il falso, e tra vero e falso non c’è via di mezzo.

L’idealista per antonomasia, nella sua massima espressione che appare in Hegel, discepolo di Cartesio, ritiene di essersi elevato al livello della scienza e della filosofia, mentre considera il realista come una mente arretrata, chiusa e rozza, prigioniera della rappresentazione e dell’immaginazione (Vorstellung), non purificata e assurta al livello del puro pensiero (denken).

Gli aristotelici, secondo l’idealista, sono degli ingenui, nutriti di astrazioni, estranei alla realtà (senti chi parla!) , che non hanno attuato il cogito cartesiano, non sanno che cosa è l’autocoscienza, e quindi difettano di quell’acume critico che Cartesio e Kant hanno introdotto nella filosofia moderna. I realisti, secondo gl’idealisti, reificano le idee, ne fanno un dato cosale presupposto, mentre invece le cose sono prodotte dal nostro pensiero.

L’idealista non disdegna di abbassarsi al livello del realista e di utilizzare il realismo quando gli fa comodo o nel disbrigo degli affari quotidiani. Il docente idealista che va a ritirare lo stipendio, è chiaro che non considera il denaro come qualcosa di semplicemente pensato, ma un vero ente o una cosa reale fuori di lui.

Ma nel momento in cui l’idealista insegna all’Università Cattolica, il prof. Bontadini considera sé stesso come il Pensiero identico all’Essere, per cui non è più il prof. Bontadini, ma è il Pensiero identico all’Essere che semplicemente pensa e parla nel e per il tramite empirico del prof. Bontadini.

È noto come gli idealisti nati da Cartesio ritengono sé stessi come gli alfieri della «filosofia moderna», che supera e lascia indietro, con la novità senza precedenti del cogito cartesiano, la precedente filosofia medioevale realista, scolastica ed aristotelica. 

Per la verità il cogito non è niente affatto una novità, ma è la ripresa del vecchio relativismo protagoreo antropocentrico già confutato da Aristotele. Infatti è noto che Cartesio, allo stesso modo di Protagora, ritiene che l’atto del sentire sia una opinione soggettiva scambiata per la verità. Vale allora per Cartesio quanto Aristotele dice per Protagora:

«Se tutte le opinioni e tutte le parvenze sensoriali sono vere, esse dovranno, necessariamente, essere tutte vere e tutte false nello stesso tempo. Infatti, molti uomini hanno convinzioni opposte e tutti ritengono che coloro che non condividono le proprie opinioni siano in errore; e da questo scaturisce, come necessaria conseguenza, che la stessa cosa sia e anche non sia; e se è così, segue anche come necessaria conseguenza che tutte le opinioni sono vere. Infatti, coloro che sono nel vero e coloro che sono nel falso hanno opinioni fra loro opposte; ma se le cose stanno in questo modo, tutti saranno nel vero»[1].

La realtà è che il conflitto tra idealismo e realismo percorre tutta la storia del pensiero umano, sempre segnato da chi cerca sinceramente la verità con atteggiamento realistico e chi vuole darla ad intendere con i sofismi dell’idealismo.

È dunque falsa l’affermazione degli idealisti che con Cartesio il filosofare sarebbe passato dall’ingenuo, credulone, superstizioso e puerile realismo medioevale al rigore critico, razionale e scientifico della modernità. Gli impostori esistono anche oggi e i pensatori rigorosi esistevano anche nel medioevo.

Ci sono poi oggi dei teologi modernisti, come per esempio Rahner, i quali ci assicurano di aver capito, dopo secoli di aridi commentatori aristotelici precartesiani, la vera concezione tomistica dell’essere, che non ha niente a che vedere con la concezione aristotelica dell’essere, ma semmai con quella di Parmenide, che comporta quel monismo che non è altro che quell’identità di pensiero ed essere che Hegel aveva inventato sul solco di Cartesio[2].

Ora, bisogna dire che il problema metafisico implica effettivamente la questione dell’essere, del primo principio e della verità. Cartesio, volendo trattare di queste questioni, non ha sbagliato nel farle oggetto delle sue Meditazioni metafisiche. Il suo errore è stato quello della pretesa di invalidare la fondazione storica della metafisica ad opera di Aristotele e e quindi di confutare Aristotele fondando la vera metafisica.

 Il risultato è stato che Cartesio, con la sua stolta impresa di pareggiare il pensiero umano al pensiero divino, ha finito, come recita un detto popolare, col «darsi la zappa sui piedi», ossia negare il principio aristotelico di verità ricorrendo al principio aristotelico di verità.

Confutazione dell’idealismo e apologia del realismo

Cartesio non si accorse che il principio primo e fondamentale del sapere posto da Aristotele, il principio di non contraddizione, è il fondamento primo, la base evidente di ogni dimostrazione, per cui è impossibile sbagliare o ingannarsi circa questa verità primaria del pensiero, che rende possibile lo stesso pensiero.

Il realismo è strutturale al pensiero umano non nel senso che di fatto siamo tutti realisti, giacchè, se così fosse, non esisterebbero gli idealisti, ma nel senso che   quello che diamo per vero lo diamo per vero in quanto lo giudichiamo conforme alla realtà, il che è esattamente l’esigenza del realismo. L’idealismo, al contrario del realismo, non è la virtù ma il vizio del pensiero. L’idealismo è un morbo del pensiero. Il realismo è il pensare umano sano, normale e veritiero.

Quindi anche l’idealista, per sostenere il suo idealismo, è costretto a ricorrere al realismo. Il realista, invece, ha un compito molto semplice e lineare, che gli evita di autoconfutarsi come succede all’idealista: semplicemente riconoscere che il suo pensiero è fatto per adeguarsi alla realtà, per riconoscere le cose, intellegibili o sensibili, così come sono in sé stesse fuori di lui e indipendentemente da lui. Infatti, dipendono da lui non le cose, ma le idee che egli si fa delle cose.

Osserviamo dunque che anche l’idealista, per sostenere la sua concezione, è costretto a fare appello al realismo. L’idealismo invece non è strutturale al pensiero, ma è accidentale; è un mancare del pensiero al suo compito di adeguarsi al reale volendo far dipendere il reale dalle nostre idee. Viceversa, sopprimere il realismo vuol dire sopprimere il pensiero. Invece sopprimere l’idealismo vuol dire liberare il pensiero dalla falsità; l’idealismo si può eliminare senza che la conoscenza patisca alcun danno, anzi essa diventa normale e veritiera.

L’idealismo viene confutato in base a quello stesso realismo al quale l’idealismo è obbligato ad appoggiarsi per sostenere di essere vero. Non è vero, quindi, che, come sostiene Bontadini, l’idealismo è inconfutabile. Inconfutabile è il realismo, per il quale l’idealista non ha bisogno di essere confutato dal realista, perché è lo stesso idealista, che, nel momento in cui crede di essere nel vero, confuta sé stesso nel credere che il suo pensiero sia adeguato alla realtà, ossia nel credere che sia vero.

Per il realista il pensiero non si identifica con l’essere, ma è una perfezione spirituale analogica e gerarchica soggetta a gradi di perfezione, che, partendo dal minimo, il pensiero umano, sale al medio, il pensare angelico, per salire al grado massimo, che è quello divino.

La nozione metafisica di pensiero, come quella dell’essere, comporta un arco di possibilità: pensiero umano, pensiero angelico e pensiero divino. La semplice nozione di pensiero non dice, di per sé, come credono gli idealisti, pensiero attuale, ma può comportare anche il pensiero potenziale, il pensiero come facoltà di pensare: non è solo il pensiero che s’identifica con l’essere, ma è anche il pensiero distinto dall’essere e subordinato all’essere. Insomma, non c’è solo il pensiero divino, ma anche quello creato, sia esso quello dell’angelo o quello dell’uomo.

Non c’è solo il pensiero come forza del puro spirito, come in Dio e nell’angelo; ma è pensiero, benché di livello inferiore, anche il pensiero umano, che emana da uno spirito che dà forma a un corpo. 

Il pensiero creato, umano ed angelico, ha le cose nel suo intimo, in quanto da lui pensate e rappresentate nelle idee, ma nel contempo sono fuori di lui in se stesse, come misura del suo pensarle. Il pensiero divino, invece, ideatore e creatore delle cose, creando le cose, certamente le pone al di fuori di Lui, ma nel contempo Egli, essendo l’Essere assoluto, ha virtualmente nella sua essenza e nel suo pensiero in atto tutto ciò che Egli ha posto al di fuori di Lui.

Quindi in tal senso, mentre si deve ammettere che c’è un reale esterno al pensare creato, nulla di esterno esiste al pensare divino che possa fare da regola al suo pensare, quasi non dipendesse da Lui, se non ciò che Dio ha posto liberamente fuori di Sé col suo stesso atto creativo.

In tal modo l’idealismo, confondendo il pensare umano col pensare divino, conduce al panteismo. Invece è il realismo che fonda il teismo. Il cogito ergo sum di Cartesio, per la sua pretesa fondativa assoluta, suggerisce di superare la condizione dell’umano pensare ed essere, e spinge a sentirsi avvolti in qualcosa di intrascendibile come Dio è intrascendibile.

Questo tipo di esperienza è la metafisica cartesiana, esperienza fondamentale, incondizionata e condizionante, possibile solo nella visione cartesiana dell’introspezione. Così Cartesio viene a dire che, nel guardare dentro noi stessi, scopriamo la dimensione solitaria, onninclusiva ed assoluta del pensiero, che in realtà è solo quella del pensiero divino; ma Cartesio crede di aver scoperto solo il segreto potere del pensare umano.

È chiaro che in questa concezione del pensiero non c’è nulla fuori del pensiero, ma tutto è nel pensiero, tutto è pensato. L’essere è l’essere pensato. Come affermerà Berkeley pochi decenni dopo, la materia è pensiero. Non c’è un ente pensabile, ma l’ente è pensato in atto e ciò perché non si tratta di un pensiero come il nostro che passa dalla potenza all’atto, ma puro atto di pensiero, come è suggerito dal concetto cartesiano di res cogitans: ente pensante per essenza. Dunque non si dà una realtà esterna al pensiero, ma solo perché questo non è altro che il pensiero divino.

Nel realismo, invece, il nostro limitato pensiero, è ben trasceso dal reale esterno. Per noi uomini non c’è solo l’essere pensato, ma anche l’essere non pensato.  Invece Cartesio sembra non accorgersi o sospettare o rendersi conto delle implicanze panteiste del suo cogito, implicanze che saranno esplicitate da Fichte nel sec. XIX.

Occorre tuttavia riconoscere che Cartesio non nega l’istanza realistica: anzi crede con la sua metafisica, di poterla fondare meglio di Aristotele. Infatti Cartesio distingue alla maniera realistica le cose nel pensiero dalle cose fuori del pensiero. Egli ammette le cose fuori del pensiero e quindi la trascendenza di Dio.

Il suo errore sta nel credere che sia necessario dimostrare l’esistenza delle cose partendo dal cogito, mentre tale esistenza è assolutamente evidente ed innegabile, pena l’autocontraddirsi, ed è precisamente ciò che costituisce l’oggetto iniziale del sapere metafisico e dello stesso sapere dell’uomo di buon senso, salvo finzione o disturbi mentali, principio primo oggettivo assolutamente certo e punto di partenza di tutto il sapere, da quello minimo dell’esperienza quotidiana fino a quello massimo dell’esperienza mistica e della stessa visione beatifica in cielo. E il cogito stesso vale in quanto presuppone il contatto previo con le cose esterne. L’idea di Husserl, di ispirazione cartesiana, circa l’epochè riguardante l’esistenza del reale esterno, è contraria alla veracità del senso. Anche gli animali sanno che esistono le cose materiali.  

Tuttavia, è innegabile che in fin dei conti, come hanno capito bene gli idealisti fino a Bontadini, ed Husserl, in sostanza, il cogito cartesiano implica la identificazione del pensare metafisico col pensare divino, implicanza esplicitata nell’idealismo tedesco con l’identità del pensare con l’essere.

Viceversa, è la percezione realistica dell’ente, quella che col metodo dell’analogia e l’applicazione del principio di causalità, porta all’affermazione di Dio come ipsum Esse per se subsistens, essere eterno, per essenza e necessario, distinto dal mondo creato da Dio dal nulla, il cui essere è contingente, in divenire e per partecipazione.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 9 settembre 2024


L’idealismo viene confutato in base a quello stesso realismo al quale l’idealismo è obbligato ad appoggiarsi per sostenere di essere vero. Non è vero, quindi, che, come sostiene Bontadini, l’idealismo è inconfutabile. Inconfutabile è il realismo, per il quale l’idealista non ha bisogno di essere confutato dal realista, perché è lo stesso idealista, che, nel momento in cui crede di essere nel vero, confuta sé stesso nel credere che il suo pensiero sia adeguato alla realtà, ossia nel credere che sia vero.

Per il realista il pensiero non si identifica con l’essere, ma è una perfezione spirituale analogica e gerarchica soggetta a gradi di perfezione, che, partendo dal minimo, il pensiero umano, sale al medio, il pensare angelico, per salire al grado massimo, che è quello divino.

La nozione metafisica di pensiero, come quella dell’essere, comporta un arco di possibilità: pensiero umano, pensiero angelico e pensiero divino. La semplice nozione di pensiero non dice, di per sé, come credono gli idealisti, pensiero attuale, ma può comportare anche il pensiero potenziale, il pensiero come facoltà di pensare: non è solo il pensiero che s’identifica con l’essere, ma è anche il pensiero distinto dall’essere e subordinato all’essere. Insomma, non c’è solo il pensiero divino, ma anche quello creato, sia esso quello dell’angelo o quello dell’uomo.

Immagine da Internet: Mercurio, Jean Baptiste Pigalle

[1] Libro Gamma, c.V. 1009 a 6-14.

[2] L’impostura di questa operazione disonesta fu smascherata dal Padre Fabro nel suo famosissimo libro La svolta antropologica di Karl Rahner, Edizioni Rusconi, Milano 1974.

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