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Logica binaria e logica ternaria - Logica aristotelica e logica farisaica - Terza Parte (3/4)

 

Logica binaria e logica ternaria

Logica aristotelica e logica farisaica

Terza Parte (3/4)

 

Sempre seguendo Dionigi, Tommaso presenta una serie di valori che appartengono a Dio in modo sommo, ma che nel contempo possono essere negati nel significato che noi ad essi diamo in rapporto alle creature:

 

«Come i nomi da noi imposti si possono dire di Dio secondo una qualche somiglianza che le creature hanno con Dio, così in quanto le creature sono inadeguate a rappresentare Dio, si possono negare e si può predicare il loro contrario. Per cui Dionigi dice che Dio si può chiamare Ragione come pure Irrazionalità; si dice Intelletto, ma si può dire anche Inintellegibilità; si può chiamare Parola, ma anche Innominabile; non certo nel senso che Egli sia privo di queste cose, ma per il fatto che Egli è Esistente  secondo nulla di ciò che sono gli esistenti, ossia non esiste secondo il modo di nessuno degli esistenti; ed Egli certamente è Causa dell’esistenza di tutte le cose, trasfondendo in qualche modo la sua somiglianza in tutte le cose, così da poter essere nominato a partire dai nomi di tutte le cose; Egli stesso è non-esistente, non nel senso che difetti di esistenza,  ma in quanto esiste al di sopra di ogni sostanza; ed è innominabile, così che Egli stesso propriamente e scientemente nomina Se stesso, ossia secondo la proprietà del suo essere e secondo la perfetta scienza di Se stesso, nel qual modo nessuno lo può nominare» (Comm. al De div. Nominibus, c. I, lect. I, n.30).

La teologia negativa suppone tuttavia quella positiva o affermativa, la quale ci fa conoscere chi è Dio e quali sono gli attributi che gli convengono, in modo tale da conoscere qual è il soggetto dal quale escludiamo certi predicati, altrimenti, se non conoscessimo di chi stiamo parlando, il negare non avrebbe alcun significato, perché non capiremmo a che cosa esso si riferisce. Se nego una cosa di tal cosa, devo conoscere positivamente quella cosa dalla quale rimuovo quella cosa, altrimenti non sapremmo di che cosa stiamo parlando.

La teologia negativa fa quindi seguito all’elaborazione della teologia affermativa, che si basa sull’applicazione del principio di causalità, partendo dalla constatazione delle cose visibili, come è detto in Rm 1,20. Ecco allora apparire il concetto della causa prima e di tutti quegli attributi che troviamo nelle famose cinque vie di San Tommaso: il motore primo, il fondamento del mondo e la causa efficiente prima, creatore del cielo e della terra, l’ente eterno assolutamente necessario, il sommo e primo ente, l’ente altissimo, infinito e perfettissimo, il sommo bene, fine ultimo, reggitore ed ordinatore sapientissimo, onnipotente e provvidentissimo del mondo, giusto e misericordioso. Continua San Tommaso


«Il metodo della negazione si fonda sempre su qualche affermazione: il che appare evidente dal fatto che ogni proposizione negativa è dimostrata da una affermativa; per cui, se l’intelletto umano non conoscesse di Dio qualcosa affermativamente, non potrebbe di Lui nulla negare. Infatti, non potrebbe avere alcuna conoscenza, se nulla di ciò che predica di Dio si verificasse in modo affermativo» (De potentia, q.7, a.5).

Così l’Aquinate descrive la via negativa:


«Quando procediamo verso Dio per via di rimozione, innanzitutto neghiamo di Lui le realtà corporali, e in secondo luogo anche le realtà intellettuali così come si trovano nelle creature, come la bontà e la sapienza; e resta nel nostro intelletto soltanto che Egli è e nulla più; per questo si trova in una certa confusione.

 

Ma alla fine rimuoviamo da Lui anche lo stesso essere, così come si trova nelle creature, e allora l’intelletto rimane in una certa tenebra di ignoranza, secondo la quale ignoranza, per quanto riguarda lo stato presente, ottimamente ci congiungiamo a Dio, come dice Dionigi nel De divinis Nominibus, c. VII: questa è una certa quale caligine, nella quale si dice che Dio abita» (Comm. a I Sent., D.8, q.1, a.1, 4m).

Da notare due cose: prima, non si tratta di negare l’essere sic et simpliciter, se no cadremmo nell’ateismo, ma l’essere limitato delle creature, per affermare quindi l’essere illimitato. Seconda: la tenebra divina non è il buio assoluto del «mistero assoluto», del quale parla Rahner, tenebra assoluta priva di qualunque rappresentazione concettuale razionale o di fede, tenebra nella quale non si capisce assolutamente niente, perché questa non è la tenebra mistica, ma quella della falsità e della perdizione[1].

La tenebra divina vuol dire che il mistero divino è luce fulgidissima per i nostri concetti, per quanto ne possiamo capire, ma nel contempo è per noi tenebra nel senso che il contenuto intellegibile infinito del mistero possiede per la nostra mente limitata, un’ulteriorità, della quale non possiamo conoscere assolutamente nulla né possiamo vederne i confini. Essere consapevoli di questa ulteriorità o trascendenza è umiltà e saggezza teologiche. Ancora sulla negazione:

 

«Di negazione in negazione l’anima si solleva più in alto delle più eccellenti creature e si unisce a Dio in proporzione a quanto essa può quaggiù, perché durante la vita presente la nostra intelligenza non arriva mai a vedere la divina Essenza, ma solo a conoscere quello che non è. L’unione del nostro spirito a Dio, come è possibile quaggiù, si compie dunque quando conosciamo che Dio supera le più eccellenti creature» (Comm. al De div. Nominibus, c. XIII, lect. III).

 

«L’infinito di Dio non si predica secondo l’estensione come nella quantità continua, ma secondo la negazione, nel senso che non è finito né determinato da qualcosa; … non è determinato dal nostro intelletto: infatti è ineffabile e ignoto e tale da non poter essere pensata la virtù divina, essa che tutto comprende» (Comm. al De div. Nominibus, c. VIII, lect., n.750).

Allorchè siamo in cima alla scala di questo spogliamento e di questo saggio negare, non è che - come alcuni credono - la concettualizzazione venga superata o cessi di funzionare o diventi inutile o insufficiente a rappresentare quello che vediamo, tutt’altro! È più che mai utile e necessario, anzi è al vertice della sua utilità per il nostro intelletto, che non può fare a meno dei sensi e dell’immaginazione, anche quando li trascende.

Infatti l’intelletto, al vertice dell’ascesa metafisica, inaugura certo il puro pensiero, che però nella vita presente, è metaconcettuale solo in Dio e non nell’uomo. Se invece a questo punto la mente abolisce la concettualizzazione,  essa non è pervasa dalla calma e pacificante luce dell’assoluto, ma avviene  un corto circuito psichico per il fatto che tutta l’energia psichica impiegata nello sforzo ascetico e che doveva essere incanalata e moderata dalla concettualizzazione, priva di questo guard-rail, si volge e si scarica violentemente su se stessa, sicchè la mente, per questa improvvisa vampata di bruniano eroico furore, prende fuoco e resta totalmente bruciata ed esausta.

Si tratta di una parodia dell’esaltazione mistica, che in realtà è un’eccitazione irrazionale psicoemotiva, uno stato alterato della mente assimilabile all’entusiasmo derviscico o al trance sciamanistico, che sembra lasciare aperto nella mente l’ingresso a forze istrionesche preternaturali.

Pretendere di comprendere esaustivamente e totalmente, di togliere o ignorare o disprezzare tale trascendenza in nome del potere del pensiero o dell’immanenza in noi del mistero divino o della nostra autocoscienza, pareggiando il nostro pensiero al pensiero divino, è superbia diabolica, è gnosticismo, è somma stoltezza e causa di perdizione eterna.

La teologia negativa è il modo filosofico migliore di parlare di Dio. Ancora Tommaso:

 

«Questo è l’ultimo termine al quale possiamo giungere circa la cognizione di Dio in questa vita: che Dio è al di sopra di tutto ciò che possiamo pensare e quindi il nominarLo per rimozione è il parlare di Lui nel modo più proprio; infatti, coloro che lodano Dio in tal modo per rimozione, per mezzo di un’illuminazione divina sono veramente e soprannaturalmente edotti di ciò grazie a una beatissima unione con Dio» (Comm. al De div. Nominibus, c. I, lect. III, n.83).

Esiste però un parlare superiore, che è quello della teologia rivelata, basata sulla divina Rivelazione, grazie alla quale il teologo parla facendo uso di parole non tratte dalla metafisica, ma dalla stessa Parola di Dio, come avviene anche nel Simbolo della Fede, nella Liturgia e nell’Ufficio divino. Infatti i predicati della teologia rivelata, che si riassumono nel Simbolo della Fede, sono soprattutto di carattere positivo. Essi si riassumono nella predicazione della Sacra Triade: di Dio come Padre, come Figlio e come Spirito Santo.

L’esigenza del silenzio si ripresenta tuttavia anche nella teologia rivelata e allora abbiamo la mistica cristiana o teologia mistica. Qui però, mentre l’apofatismo soggiace, come rivelazione privata, alla Parola di Dio, oggetto della rivelazione divina e della predicazione pubblica della Chiesa, l’apofatismo della mistica naturale ha maggior valore della teologia naturale, perché, come dice San Tommaso, meglio esprime la condizione della nostra ragione nei confronti del mistero di Dio.

Ciò che di Dio sappiamo e ciò che di Lui ignoriamo

Occorre tenersi in un punto di equilibrio fra il dire che di Dio non sappiamo nulla e il dire che il nostro pensiero autocosciente atematico coincide con l’essere assoluto. In realtà noi possiamo conoscere quaggiù nel concetto e anche vedere senza concetto in cielo l’essenza di Dio.

Non si tratta peraltro solo di negare ciò che a Dio non conviene, ma anche di confessare la nostra ignoranza. Dice San Tommaso:


«Dio ci è noto per mezzo della nostra conoscenza, perché tutto ciò che cade sotto la nostra conoscenza, lo accogliamo come proveniente da Lui» (per cui a Lui ci conduce e di Lui ci parla); «ed ancora ci è noto per mezzo della nostra ignoranza, in quanto cioè conoscere Dio è il fatto stesso di rendersi conto che noi ignoriamo di Lui chi Egli sia» (Comm. al De divinis Nominibus di Dionigi l’Areopagita, c.VII, lect.IV, n.371). Ignoriamo nel senso già visto di «non comprendere esaustivamente».

Dio si sottrae alla piena comprensione dei nostri concetti, senza tuttavia che ci sia impossibile rappresentare in qualche modo, molto imperfettamente ma veracemente la sua essenza. Dice San Tommaso:

 

«Qualunque forma il nostro intelletto concepisca, Dio sfugge (subterfugit) alla forma del nostro intelletto; non tuttavia così che il nostro intelletto non si assimili a Lui secondo alcuna forma» (De Potentia, q.7, a.5, 1m).

L’essenza divina è una forma, come il nostro concetto è una forma. Solo che la forma divina è come un cerchio dal raggio infinito, all’interno del quale è incluso il cerchio ovvero la forma del nostro concetto. In tal modo il raggio del nostro cerchio è superato all’infinito dal raggio del cerchio divino. In tal senso, per quanto ampliamo il raggio del nostro concetto, restiamo sempre ignoranti di ciò che sta oltre il raggio del nostro concetto. Dice San Tommaso:

 

«Dio supera sempre la nostra intelligenza e sempre resta ignorato da noi. Perciò il più alto punto a cui si solleva la cognizione umana a suo riguardo è di sapere che noi non lo conosciamo, è di capire che la sua Essenza supera tutto quello che noi possiamo pensare» (De Pot., q.7, a.5, 14m).

 

«Al termine della nostra conoscenza noi conosciamo Dio come un Ignoto, perché la mente si trova perfettissimamente nella conoscenza di Dio, allorquando sa che l’essenza di Lui è al di sopra di tutto ciò che può apprendere nello stato della vita presente; e così, sebbene rimanga ignoto chi Egli sia, resta tuttavia noto che Egli É» (Comm. a De Trinitate di Boezio, q.1, a.2, 1m). Dice San Tommaso:

 

«Partendo da tutti gli enti Dio è conosciuto e lodato in quanto essi hanno una proporzione con Lui, il Quale è la loro causa. Ma esiste ancora un’altra conoscenza perfettissima di Dio, cioè quella per rimozione, con la quale conosciamo Dio per mezzo dell’ignoranza, per mezzo di una certa unione con le cose divine al di sopra della mente, quando cioè la mente nostra, allontanandosi da tutte le altre cose e abbandonando persino se stessa, si unisce ai raggi soprasplendenti della Deità, in quanto cioè sa che Dio è al di sopra non solo di tutto ciò che è al di sotto di lei, ma anche al di sopra di lei e al di sopra di tutto ciò che può essere da lei compreso. E così, conoscendo Dio in questa forma di conoscenza, è illuminata dalla stessa profondità della divina sapienza, che non possiamo perscrutare» (Comm. al De div. Nominibus, c. VII, lect. IV, n.732).

 

«Nella vita presente noi conosciamo Dio per mezzo di una visione intellettuale non così da sapere chi Egli sia, ma che cosa non sia; e quanto a ciò noi conosciamo la sua essenza, intendendola posta al di sopra di tutte le cose, sebbene tale conoscenza avvenga per mezzo di alcune similitudini» (De veritate, q.10. a.11, 4m).

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 28 febbraio 2025

 

L’essenza divina è una forma, come il nostro concetto è una forma. Solo che la forma divina è come un cerchio dal raggio infinito, all’interno del quale è incluso il cerchio ovvero la forma del nostro concetto. In tal modo il raggio del nostro cerchio è superato all’infinito dal raggio del cerchio divino. In tal senso, per quanto ampliamo il raggio del nostro concetto, restiamo sempre ignoranti di ciò che sta oltre il raggio del nostro concetto. Dice San Tommaso:

«Dio supera sempre la nostra intelligenza e sempre resta ignorato da noi. Perciò il più alto punto a cui si solleva la cognizione umana a suo riguardo è di sapere che noi non lo conosciamo, è di capire che la sua Essenza supera tutto quello che noi possiamo pensare» (De Pot., q.7, a.5, 14m).

 

«Al termine della nostra conoscenza noi conosciamo Dio come un Ignoto, perché la mente si trova perfettissimamente nella conoscenza di Dio, allorquando sa che l’essenza di Lui è al di sopra di tutto ciò che può apprendere nello stato della vita presente; e così, sebbene rimanga ignoto chi Egli sia, resta tuttavia noto che Egli É» (Comm. a De Trinitate di Boezio, q.1, a.2, 1m).  

«Nella vita presente noi conosciamo Dio per mezzo di una visione intellettuale non così da sapere chi Egli sia, ma che cosa non sia; e quanto a ciò noi conosciamo la sua essenza, intendendola posta al di sopra di tutte le cose, sebbene tale conoscenza avvenga per mezzo di alcune similitudini» (De veritate, q.10. a.11, 4m).

Immagini da Internet 


[1] Cf II Cor 6,14; I Gv 1,5; 2,9.11; Sal 82,5; 88,7.19; Is 42,7; 50,10; Gv 8,12; 12,46; I Sam 2,9; Tb 14,10; Gb 15,30; Pr 20,20; Sap 17,2; 18,4;  Sir 11,16; Ger 23,12; Ef 6,12; Ap 16,10.

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