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Lutero e Cartesio - I motivi di un’alleanza - Terza Parte (3/3)

 

Lutero e Cartesio

I motivi di un’alleanza

 Terza Parte (3/3)

 Dio in me

La modernità ci propone un approfondimento di come ognuno di noi si rapporta con Dio nella sua coscienza. Chi è Dio per me? Come so che esiste in me? Come mi appare? Come Lo vedo? Come mi comporto con Lui? Sono in pace con Lui? Che cosa ha fatto per me? Sono sincero con Lui? Ho peccato o sono in grazia?

Ma il dramma, del quale ancora Lutero e Cartesio allora non erano consapevoli, dramma gravido di conseguenze nefaste, è stato che questa presa di coscienza, quest’operazione di scavo in se stessi, di guardarsi dentro, questo interrogarsi sul valore della propria esistenza, del proprio agire e pensare  si sono attuati in una forma non sempre umile e sincera, ma anche un una forma chiusa, autoreferenziale, soggettivistica e autarchica, alla fine asfissiante, tale per cui l’immanenza di Dio nell’io, separandosi dalla precedente impostazione cristiana realista e creazionista, nei secoli successivi fino ad oggi, si è mutata, per logica conseguenza, nell’io che ha preso il posto di Dio, sicchè il Tu divino è scomparso[1] ed è rimasto solo l’io, la cosiddetta «soggettività» o «io trascendentale» degli idealisti, che vorrebbe avocare a sé l’immane compito  di fondare l’essere col suo pensare, col risultato tragico che tutti conosciamo, ma che non tutti riconosciamo perché ad alcuni  va bene così, mentre vedono gli effetti nefasti, ma non sanno risalire alle cause. 

Prima con Lutero e poi con Cartesio il pensiero europeo si ripiega su se stesso; benchè si registri uno sviluppo prodigioso delle scienze sperimentali, l’attenzione dei filosofi e dei teologi si sposta dalle cose e dalla realtà all’io, dalla trascendenza all’immanenza, dall’oggettivo al soggettivo, dal bene comune al bene privato, dall’universale al singolare. Il bisogno di libertà si oppone all’obbedienza. Il desiderio di affermarsi conduce alla violenza e alla prepotenza.

Tutto dev’essere nell’io e niente fuori dell’io. Ciò fa ovviamente scomparire il senso sociale, il servizio al prossimo, la coscienza di esser parte di una comunità sotto un’autorità che la governa, onde la necessità della reciproca fiducia e della fiducia nell’autorità.

Come mai questo rinchiudersi dell’io in se stesso? Si tratta spesso di un rifugiarsi in sé stessi come reazione di difesa ad una vita sociale infida, indisciplinata e conflittuale. Questo sprofondarsi nel proprio io di per sé non è male, perché effettivamente il nostro io è una grande e misteriosa ricchezza ontologica e intenzionale, nasconde quello che Freud nel sec. XX avrebbe chiamato «subconscio». Nasconde un preconscio istintivo[2] dove giacciono le inclinazioni fondamentali dello spirito, della psiche e della vita del soggetto. Questo fondo misterioso, centro propulsore di tutte le nostre attività vitali è ciò che la tradizione biblica, letteraria e popolare chiama «cuore»[3].

Occorre tuttavia non sopravvalutarne l’importanza ontologica, la portata dei suoi poteri, l’ampiezza delle sue dimensioni e la sublimità dei suoi fini, perché tutto ciò resta pur sempre un qualcosa di limitato, di contingente, di mutevole, di fragile e di creato. Occorre quindi stare attenti ad evitare il narcisismo, a non gonfiarci di superbia, a non fare gli spacconi, a non perder di vista la trascendenza di Dio rispetto al nostro io, alla nostra coscienza, al nostro cuore.  

Il Dio in me di Lutero non è lo stesso del Dio in me di Cartesio. Lutero si pone su di un piano emotivo e distingue un Deus absconditus, il Padre nascosto nei cieli, terribile, adirato, spaventoso, accusatore e dispotico, da un Deus revelatus, misericordioso, perdonante, affidabile, dolcissimo, consolatore. È il Dio incarnato, il Dio-con-noi, Gesù Cristo.

Appare in croce «sub contraria specie», condannato mentre il giudice è Lui, reietto mentre è glorioso, perduto mentre è il Salvatore, peccatore mentre è innocente, sconfitto mentre è vincitore, abbandonato da Dio mentre è unito al Padre. Il Dio di Cartesio invece è un Dio puro spirito e volontarista, ma Cartesio non conosce i toni tragici e disperati della teologia luterana.

Nel soggettivismo luterano e in quello cartesiano viene meno la percezione e il rispetto del passato, del lascito delle generazioni che ci hanno preceduto e il senso della tradizione, perché anche il passato deve essere nell’io. Il futuro non è più un al di là dell’io, ma anch’esso dev’essere nell’io. Si tratta di un fenomeno ambivalente, che per un verso costituisce un progresso culturale, filosofico e morale, che fa conoscere meglio il valore della persona, della coscienza e dello spirito; ma per un altro verso, avviene una retrocessione perché si ritorna all’antico soggettivismo ed egoismo greco protagoreo: è vero ciò che sembra a me; è bene ciò che è utile a me. 

C’è però un punto circa il quale Lutero e Cartesio si distanziano profondamente, ed è circa il senso cristiano della storia. Lutero, profondamente nutrito di letture bibliche e del pensiero di Sant’Agostino, avverte come interesse personale la storicità del Dio che si è fatto carne per la nostra salvezza, anche se poi dimentica il contesto storico che lo aveva fatto appartenere alla Chiesa e si separa da essa per un’alzata di testa del suo io soggettivista, che lo conduce a quel dramma per cui venne scomunicato.

L’io di Cartesio, viceversa, si pone come un assoluto autosufficiente astratto fuori del tempo e della storia, sicchè, benché sia restato cattolico, offre a Lutero un ottimo spunto teoretico per sottrarsi alla comunione con la Tradizione, col Papa e con la Chiesa.

Scopriamo il nostro io solo dopo il contatto con la realtà esterna

L’interesse dell’io per sé stesso e la cura della propria volontà, nella concezione realistica del conoscere, avviene solo in seconda battuta, allorchè l’intelletto riflette sui propri concetti e sull’io che li ha prodotti. A questo punto entra in campo la volontà, perché il pensiero, avendo scoperto l’entità delle cose e dell’io, queste realtà gli appaiono nella loro bontà e quindi diventano amabili e oggetto del volere, fino alla causa prima del reale che è Dio.

Opposta è la posizione di Lutero e di Cartesio. Nella questione della verità essi non si affidano e non si fidano di ciò che dice l’intelletto, il quale mediante i sensi dice all’io qual è la verità sulle cose, sugli altri, sull’io e su Dio. Per loro il bisogno di verità non è come in Aristotele un bisogno assoluto e incondizionato, ma è connesso con la propria volontà.

L’interesse fondamentale è l’interesse per il proprio io e per la propria volontà. Per questo in questa questione non vogliono lasciar decidere all’intelletto, ma vogliono decidere loro secondo il loro interesse personale. L’intelletto dice le cose come sono, cose che non dipendono da lui ma sono quello che sono, per cui chiede alla volontà di adeguarsi alle cose e all’autore delle cose che è Dio.

Ebbene, Lutero e Cartesio non sopportano questa sottomissione alla realtà, all’oggetto. Per loro la verità non viene dalla conoscenza di una realtà fuori di me indipendente da me, non viene dalla coscienza, ma dalla mia coscienza, sicchè può esser vero per me ciò che è falso per te. Questa sarebbe la libertà di coscienza, ognuno decide ciò che è bene non in base a una norma morale universale, ma secondo ciò che decide lui esser bene e vuole lui come bene per lui. Il che fonda in Lutero il libero esame della Scrittura e in Cartesio la libertà dell’agire morale.

Essendo l’io, il soggetto, la coscienza l’interesse supremo di Lutero e Cartesio, per loro la verità non sarà più la verità della realtà, la verità oggettiva, il lumen publicum di Sant’Agostino, una per tutti, ma ciò che appare al soggetto, l’idea della realtà prodotta dal soggetto  individuale, la verità così come appare alla singola coscienza, all’io.

Perché i luterani hanno assunto la filosofia di Cartesio?

I luterani si accorsero dell’utilità che poteva offrire la filosofia di Cartesio per dare una spiegazione razionale delle idee di Lutero. Ciò può apparire a tutta prima molto strano, attesa la polemica feroce di Lutero contro la ragione nemica della fede e l’apologia della fede che distrugge la ragione. Ma dobbiamo tener conto di due fatti.

Primo, che per quanto possiamo accettare una dottrina che mette in luce la corruzione, la doppiezza e la superbia della nostra ragione, ci è impossibile rinunciare al suo bisogno di verità, per cui, per quanto siamo disponibili ad accettare che il dato di fede crei difficoltà alla nostra ragione, non siamo disponibili a rinunciare del tutto alla ragione.

I luterani pensarono allora di risolvere questo problema facendo in modo che lo stesso dato di fede diventi razionale, senza tuttavia rinnegare la polemica di Lutero contro la ragione. Si trattò allora di modificare l’atto stesso di fede, così da mutarlo da conoscenza mediata dalla ragione, come abbiamo nella concezione cattolica, in esperienza immediata del dato rivelato.

In altre parole, la stessa Parola di Dio viene concepita come razionale, sicchè non si trattava più del mistero sovrarazionale in armonia con la nostra ragione, rivelato da Dio per mezzo della Scrittura e della Tradizione ed interpretato dal Magistero della Chiesa, ma di identificare lo stesso atto di fede con un atto della nostra ragione, che accoglie la verità divina, che a sua volta è razionale. Non occorre più, quindi, per Lutero, la mediazione dell’autorità del Magistero della Chiesa per conoscere la Parola di Dio e credere in essa, perché essa stessa appare e si rivela direttamente nella nostra ragione e nella Sacra Scrittura.

Questo cammino di identificazione della ragione con la rivelazione inizia con Kant e culmina con Hegel, sicchè in lui la ragione sostituisce la fede nel senso cattolico; non si dà una verità di fede sovrarazionale, perché non c’è nulla al di sopra della ragione.  Per questo, se si vuol parlare di fede, essa non è altro che una «figura della verità», una dimensione ingenua e popolare, precritica, del sapere razionale che è visione di Dio e che è la stessa filosofia.

Così gli hegeliani mostrarono che la polemica di Lutero contro la filosofia e la ragione nel senso aristotelico nascondeva il superamento hegeliano della religione da parte della filosofia: la vera fede cristiana è la fede razionale e filosofica, fede intesa non come mediazione concettuale o dottrinale fissata dall’autorità del Papa, alla maniera cattolica, ma come verità divina interiore, di coscienza, come intuizione immediata, sentimento ed esperienza atematica.

Stando così le cose, quale concetto di ragione, allora, migliore di quello cartesiano? Infatti la ragione cartesiana è concepita in modo che non ammette la possibilità di un sapere sovrarazionale di fede, perché essa non prende niente per vero che essa stessa non sia in grado o di vedere direttamente o dentro o fuori di sé o di verificare per esperienza o di calcolare esattamente o di dimostrare inconfutabilmente. Essa si fida solo di sé stessa e non accetta niente che le sia proposto a credere in base all’autorità rivelante.

Nel contempo la ragione cartesiana funziona come se fosse una rivelazione divina. Per Cartesio è Dio stesso che ci assicura che quella sensazione di vedere un albero nel giardino corrisponde alla vera esistenza di quell’albero nel giardino. Quale migliore conciliazione della ragione con la fede, se già la ragione è fede? Il fideismo coincide col razionalismo.

Quando non si sa come armonizzare la ragione con la fede, ma le si vede l’una opposta all’altra, l’unica maniera è quella di confonderle o identificarle tra di loro. Ed è così che dall’irrazionalista fideista Lutero salta fuori il razionalista fideista Cartesio, a sua volta seguìto dal razionalista assoluto e panteista Hegel.

In fondo Lutero e Cartesio non fanno che riprendere l’opposizione dei primi secoli fra Pelagio e Tertulliano: Pelagio, che considera la grazia non come soprannaturale e gratuita, aggiunta alla natura, ma come una conquista e un premio della natura perché per lui la fede è una ragione pienamente sviluppata, un sapere non mediato ma immediato di Dio, e Tertulliano, precursore di Lutero, per il quale Tertulliano, in forza del suo odioso principio credo quia absurdum, la grazia non perfeziona la natura, ma ne suppone la negazione o distruzione. Sarà, questa la «natura totalmente corrotta», della quale parlerà Lutero.

Conseguenze sociali

In tal modo, se Lutero concepisce l’etica cristiana come soggezione alla grazia di una ragione irrazionale, Cartesio intende l’etica come la forza di una volontà razionale che assicura all’uomo la sua perfezione senza bisogno della grazia, che soccorra e guarisca la natura, innalzandola all’ordine divino soprannaturale.

Per Lutero è sufficiente la grazia senza la natura. Per Cartesio è sufficiente la natura senza la grazia. Ma siamo sempre lì. Come i due oppongono fede e ragione, natura e grazia, così le confondono, venendo a dire la stessa cosa: la ragione è la fede e la natura è grazia. 

Tanto in Lutero che in Cartesio esiste una volontà di potenza che si manifesterà pienamente solo nel sec. XIX con Nietzsche. Essendo centrati sul proprio io, c’è la volontà di imporre il proprio io e le proprie idee sugli altri. Cartesio argomenta, ma in modo capzioso, volendoci convincere che non troviamo Dio come causa delle cose e del nostro stesso io percepiti dai sensi, ma come idea innata nella nostra autocoscienza. Lutero vuol darci ad intendere, senza darci alcuna prova, di aver scoperto lui la verità del Vangelo contro il Papa, perché glie lo ha detto Gesù Cristo in persona.

Quello che ci attira nella nostra miseria di figli di Adamo peccatore è il fatto che Lutero, nella ricerca della salvezza e dei beni di lassù, ci propone una via larga e comoda, facendo leva sulla nostra tendenza ad evitare sforzi, fatiche e sacrifici, ad uscire da noi stessi per servire i fratelli, per far prevalere lo spirito sulla carne.

Lutero ci assicura che in una sua visione – ma come facciamo a credergli? –   Cristo gli ha promesso di salvare e che quindi si salveranno tutti coloro che crederanno di essere salvati, non importa se ho peccato. Cristo può ingannare? Ma su questa gravissima questione non sarebbe meglio fidarsi di quanto dice da sempre con molti argomenti ragionevoli la Chiesa cattolica e infinite prove di credibilità? Essa ci dice cioè che è vero che il paradiso è dono della grazia, ma essa ci dà appunto la grazia di potercelo guadagnare con le buone opere, senza le quali niente paradiso!

Sia in Lutero che in Cartesio la società non è un bene comune, ma una pluralità di io assoluti, quot capita, tot sententiae, senza che appaia più un principio di unità, senza valori comuni ed universali. Non c’è più il Papa, non c’è il Magistero della Chiesa, non c’è la Sacra Tradizione, ma, come dice Lutero, «ogni cristiano è Papa». E così per Cartesio: gli altri esistono come relativi all’io. Ma è ovvio che se tutti ragionano così, si può ben immaginare dove va a finire la convivenza umana.

Dalla filosofia di Cartesio e dalla teologia di Lutero è impossibile ricavare un concetto di società o comunità, e quindi di Chiesa. Il rifiuto luterano del sacramento dell’Ordine e dell’ufficio di Pietro non nasce tanto da una sua falsa interpretazione del Nuovo Testamento, ma ha a monte una visione occamistica probabilmente inconscia, dell’organizzazione della convivenza umana, per cui, stante il fatto che il reale è il singolo,  e poiché la comunità è fatta di molti singoli, si ha sott’occhio solo il bene concreto, particolare e privato del singolo io e non si riesce a cogliere il valore del bene comune, del bene pubblico, perché manca la percezione dell’universale ossia dell’unum in multis, per cui diventa impossibile l’unificazione del molteplice. Abbiamo una collezione disordinata e casuale di singoli senza che si sappia perché la si dice «una» e che cos’è che la fa una.

Se si pensa che il molteplice si unifichi da solo, ciò è sbagliato. E ciò sembra essere proprio il pensiero di Lutero e Cartesio. Tutto attorno all’io? Ma con quale diritto l’io si arroga questo potere? Come già osservava Aristotele, se non c’è uno che comandi, non è possibile l’unità di una comunità e il soddisfacimento degli interessi comuni. Ma l’uno dev’essere prima dei molti; non può scaturire dai molti, perché essi di per sé dicono solo molti. Ora le Chiese non sono la Chiesa e la Chiesa non è semplicemente un insieme di Chiese particolari. È l’uno che produce l’unità del molteplice  e non viceversa. Sono le Chiese ad esser nate dalla Chiesa di Gerusalemme e non viceversa.

In Cartesio abbiamo la stessa cosa, con la differenza che qui il molteplice è una molteplicità di ego sum ossia di singoli io assoluti senza che vi sia possibilità di una natura umana universale creata da Dio, dove gli individui non sono che un’attuazione concreta della specie. Solo a questa condizione è concepibile la comunità umana. Ed anche qui si ripropone la necessità del fattore unificante, che non può che essere l’unicità del capo, il quale deve possedere l’autorità necessaria al suo ufficio. Ma per la ragione cartesiana è impossibile il concetto di autorità, per cui dalla visione cartesiana come non uscirà l’anarchia anziché l’ordine sociale?

L’abbattimento della monarchia nel corso della Rivoluzione Francese ebbe le sue ragioni ultime non tanto nella volontà popolare di cambiar regime, non fu tanto una questione di scelta di regime politico, quanto fu piuttosto effetto del cartesianismo sociale e quindi è l’esatto corrispettivo della concezione anarchica della società che condusse Lutero alla ribellione nei confronti del Papato.

Simili imprese rivoluzionarie non sono semplice frutto di idee politiche, ma suppongono una metafisica e una gnoseologia soggettiviste, una visione della realtà nella quale, per l’elefantiasi individualistica del singolo io, diventa impossibile la realtà sociale e la funzione del capo che la governa.

Il rapporto fra ragione e fede mette in gioco il concetto di autorità sia magisteriale che governativa. L’autorità è la qualità di una persona, la quale per la sua competenza in una data materia, merita di essere creduta ed obbedita. Il messaggio o il comando che essa comunica è oggetto di fede, ma ragionevole, ossia non razionalmente dimostrabile, eppure consono a ragione, ossia accompagnato e appoggiato da garanzie accettabili o prove di credibilità. 

Si suppone insomma l’armonia fra ragione e fede. A queste condizioni il maestro o il capo ha diritto di essere creduto, ascoltato ed obbedito. Se invece egli non assolve alle condizioni di cui sopra, il messaggio o il comando perde la sua credibilità per cui  il proporlo diventa violenza e abuso d’autorità, lesivo della libertà ed offensivo della ragione dell’ascoltatore o del suddito.

Ora che succede nella concezione luterana e cartesiana dell’autorità? Nel caso di Lutero e di Cartesio supponiamo rispettivamente il fideismo, che nega la ragione e il razionalismo, che nega la fede. Dunque è impossibile il rapporto fede-ragione necessario nella dinamica normale dell’autorità. Essa allora si guasta e diventa violenza ed imposizione perché Lutero non riconosce che il messaggio o comando dev’essere ragionevole, mentre Cartesio pretende che il messaggio o comando non sia credibile ma dimostrabile.

Il luterano obbedisce supinamente ad un messaggio irrazionale e ad un comando dispotico; il cartesiano obbedisce non perché si fida del maestro o del superiore, ma perchè gli è stato dimostrato razionalmente il valore del messaggio o del comando. Lutero, che credeva di liberare i cristiani dalla tirannide del Papa imponeva le sue dottrine in modo tirannico. I giacobini, nutriti del razionalismo cartesiano, pensarono nel corso della Rivoluzione francese di affermare la libertà dalla tirannide mediante il regime del terrore.

 P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 novembre 2024


Si trattò allora di modificare l’atto stesso di fede, così da mutarlo da conoscenza mediata dalla ragione, come abbiamo nella concezione cattolica, in esperienza immediata del dato rivelato.

In altre parole, la stessa Parola di Dio viene concepita come razionale, sicchè non si trattava più del mistero sovrarazionale in armonia con la nostra ragione, rivelato da Dio per mezzo della Scrittura e della Tradizione ed interpretato dal Magistero della Chiesa, ma di identificare lo stesso atto di fede con un atto della nostra ragione, che accoglie la verità divina, che a sua volta è razionale. Non occorre più, quindi, per Lutero, la mediazione dell’autorità del Magistero della Chiesa per conoscere la Parola di Dio e credere in essa, perché essa stessa appare e si rivela direttamente nella nostra ragione e nella Sacra Scrittura.

Quando non si sa come armonizzare la ragione con la fede, ma le si vede l’una opposta all’altra, l’unica maniera è quella di confonderle o identificarle tra di loro. Ed è così che dall’irrazionalista fideista Lutero salta fuori il razionalista fideista Cartesio, a sua volta seguìto dal razionalista assoluto e panteista Hegel.


In fondo Lutero e Cartesio non fanno che riprendere l’opposizione dei primi secoli fra Pelagio e Tertulliano: Pelagio, che considera la grazia non come soprannaturale e gratuita, aggiunta alla natura, ma come una conquista e un premio della natura perché per lui la fede è una ragione pienamente sviluppata, un sapere non mediato ma immediato di Dio, e Tertulliano, precursore di Lutero, per il quale Tertulliano, in forza del suo odioso principio credo quia absurdum, la grazia non perfeziona la natura, ma ne suppone la negazione o distruzione. Sarà, questa la «natura totalmente corrotta», della quale parlerà Lutero.

Per Lutero è sufficiente la grazia senza la natura. Per Cartesio è sufficiente la natura senza la grazia. Ma siamo sempre lì. Come i due oppongono fede e ragione, natura e grazia, così le confondono, venendo a dire la stessa cosa: la ragione è la fede e la natura è grazia. 

 Immagini da Internet: Tertulliano e Pelagio



[1] Nietzsche dice che Dio è morto, Heidegger dice che è «fuggito». Ma San Giovanni dice che il Logos è presente in ogni uomo. Tutto sta ad ascoltarLo.

[2] Studiato dal Maritain. Vedi per esempio il mio articolo IL PROBLEMA DEL “PRECONSCIO” IN MARITAIN, Divus Thomas, 7, 1994, pp.71-107.

[3] Vedi la recente enciclica che il Santo Padre ha dedicato al Sacro Cuore di Gesù.

 

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