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Tu che sei uomo ti fai Dio - Il mistero della divinità di Cristo - Parte Terza (3/3)

 

Tu che sei uomo ti fai Dio

Il mistero della divinità di Cristo

 
Parte Terza (3/3)
 
 Come Hegel concepiva la divinità di Cristo

Hegel affronta il mistero trinitario e dell’incarnazione e pretende di darne la spiegazione razionale, logica e dialettica. Quello che secondo la fede Dio Padre ha fatto liberamente incarnando suo Figlio, egli lo vede come un processo logico necessario che costituisce la stessa essenza di Dio.

Per spiegare l’Incarnazione egli parte dall’affermazione di San Giovanni: «il Verbo si fece carne». In tedesco incarnazione si dice Menschwerdung=divenire uomo. Hegel notava che il nostro intelletto, per poter capire la realtà, ha bisogno di distinguere e determinare, stabilire l’identità di ogni cosa: questo non è quello; questo è differente da quello.

Hegel dice che l’intelletto, nel distinguere, astraendo, separa, per cui per riunire bisogna poi per trovare il concreto, e questo secondo lui è il compito della ragione. Per questo, l’unità, totalità e assolutezza del reale non sono colte dall’intelletto, ma dalla ragione, perché si tratta dell’unità sintetica dialettica, il sillogismo, che è opera della ragione.

Così secondo lui l’intelletto forma dei concetti che sono fissi e immutabili inadatti a comprendere il divenire, il fluire dell’essere, il progresso e la storia. L’essenza delle cose appare all’intelletto fissa, è quella e non è altra. L’intelletto, infatti – dice Hegel -, per capire la realtà, ha bisogno di trovare in essa qualcosa di fisso, identico e immutabile. L’intelletto ferma il movimento della realtà. Dove c’è un continuo, esso divide in due rappresentazioni, in due concetti. Questo immutabile dovrebbero essere le essenze delle cose. Ma è proprio vero che le essenze non mutano?

L’intelletto, per esempio, ci dà sì il concetto della natura umana e della natura divina tra di loro distinte in modo tale che l’una non è l’altra. Tuttavia, come fa San Giovanni a dire che il Verbo divenne carne, se non è perchè l’una natura può mutarsi nell’altra?

Tuttavia Hegel, troppo preoccupato del problema del divenire, cadde in un gravissimo errore, che toglie senso al valore stesso del pensiero: non si accorse che l’intelletto si comporta nel suddetto modo per un’esigenza del tutto legittima. Esso, perchè richiede univocità, precisione e distinzione, perché rifugge dall’ambiguità, dalla doppiezza e dalla confusione, nelle quali fraintende o non vede niente o cade nell’equivoco o scambia una cosa per un’altra. È vero che esiste l’analogia, la somiglianza di significati. Ma anche qui, se questi significati non potessero essere condotti in qualche modo ad un’unità, l’intelletto rimarrebbe al buio.

Non bisogna pertanto confondere l’una cosa con l’altra, col pretesto del divenire o del progresso, non bisogna identificare tra loro due cose che sono distinte, ma fare molta attenzione a ben distinguere, senza tuttavia separare e contrapporre ma nell’intento di unire ciò che nella realtà è unito.

Quando abbiamo capito l’essenza di una cosa, astraendo l’universale dal particolare concreto, comprendiamo che questa essenza che abbiamo in mente non può mutare, non può divenire un’altra essenza o divenire altra, perché noi concepiamo l’essenza specifica astraendo dalle condizioni spaziotemporali delle quali l’essenza è rivestita in quanto essenza individuale.  

Hegel tuttavia era molto interessato al problema dell’essenza della vita, e in particolare dell’attività dello spirito umano, realtà nella quale notava il divenire, il mutamento, il movimento, il contrastante, il conflittuale. Sentiva tuttavia forte l’esigenza del semplice, dell’uno, dell’universale, dell’eterno e dell’assoluto. Come accordare questi valori? Aveva ben chiaro che la realtà soprattutto quella umana ha una storia. Le cose nel tempo mutano. Come faccio io con i miei concetti fissi a pensare ciò che muta? A lui pareva che ciò che muta sia e non sia simultaneamente.

Per Hegel esiste un unico ente, un unico soggetto, che è l’essere-divenire, la storia, l’io, il concetto o l’Idea: ampliato all’infinito è Dio; racchiuso nel finito è l’uomo. La materia che diventa spirito è Dio. Lo spirito che diventa materia è l’uomo. Il singolo che diventa universale è Dio: l’universale che si individualizza nel concreto è l’uomo; la parte che diventa tutto è Dio; il tutto che diventa parte è l’uomo. La negazione del finito è Dio, La negazione dell’infinito è l’uomo. Qualcosa del genere lo troviamo anche in Rahner e Teilhard de Chardin, il primo con impostazione spiritualistica, il secondo con impostazione materialistica.

Come già in Fichte, uomo e Dio non sono due sostanze o persone distinte, l’una umana e l’altra divina, una creata e l’altra increata, che comunicano, interloquiscono e interagiscono, ma è sempre lo stesso io, che negando se stesso pone Dio come non-io; ed è l’Io come Dio che negando se stesso pone il non-io come uomo. L’essere non è uno o monadico, ma polare e antinomico ovvero dialettico: essere e non-essere, uno e due, finito e infinito, vero e falso, vita e morte, gioia e dolore, bene e male, sì e no.

Hegel non capisce che cosa è l’altro, il diverso. Per il fatto che io non sono te, tu mi neghi, mi diventi nemico. Mi escludi. A meno che tu non ti identifichi con me e con le mie idee e faccia quello che voglio io. Se invece tu vuoi restare altro da me, né io voglio identificarmi a te, mi restano due possibilità: o escludere me, suicidarmi o farmi ammazzare da te per essere te.

Oppure, se io voglio essere io, se tengo alla mia identità, sono obbligato a negarti, ossia ad eliminare te. Hegel non capisce che, se è vero che io non sono te e tu non sei me, non per questo ci escludiamo a vicenda. Infatti il tuo non essere me non è un negare me, ma semplicemente essere altro da me. Per questo c’è spazio per entrambi, è possibile un accordo, un’unione.

Ma qui è il tragico: a Hegel manca il concetto dell’unione, quindi dell’amore, dell’amicizia e della convivenza pacifica. Per lui le due nature di Cristo non sono unite, ma sono un’unità, una sola cosa. Si confondono. L’uomo è Dio e Dio è l’uomo. Ecco l’uomo che si fa Dio!

Per questi motivi la sintesi hegeliana è una falsa sintesi. E così pure la sua riconciliazione è una falsa riconciliazione. Esse non tolgono il conflitto, l’opposizione dell’essere al non-essere, ma li lasciano intatti, perché per lui sono essenziali alla realtà. Semplicemente li coprono, così come il Dio luterano non toglie il peccato, ma lo copre. La vera sintesi, ossia l’unione, salva entrambe le nature nella loro identità e diversità, come dice il dogma calcedonese, le unisce nell’unità della persona di Cristo.

Noi vediamo che cosa diventano la vita sociale e la convivenza umana con questi presupposti. La guerra diventa cosa normale per poter vivere. E di fatti Hegel, seguito poi da Marx, giustifica la guerra come la molla del progresso umano.

Hegel si sbaglia nell’uso della negazione. Essa serve per includere e serve per escludere. Un conto infatti è dire questo non è quello e un conto è dire il bene non è il male. Nel primo caso io includo l’altro, pongo il diverso o differente e li unisco all’interno dell’affermazione. Questo è il principio dell’et-et.

Nel secondo caso io escludo l’altro per evitare la contraddizione, perché qui non posso dire questo è così e non è così. Non posso infatti dire che il bene non è bene. Infatti il male si oppone al bene. Questo si potrebbe chiamare il principio dell’aut-aut.

Per capire qualcosa devo identificare, distinguere ed unire. Se non riesco a compiere queste operazioni, non capisco, perché incontro la confusione e la contraddizione. Non bisogna confondere i due suddetti modi di negare. Essi servono per identificare, per distinguere e per unire. L’unione non toglie la differenza. La negazione genera la differenza ed esclude la contraddizione.  

Hegel, col suo congiungere affermazione e negazione, col suo dire questo è così e non è così, impedisce all’intelletto di identificare la cosa, cioè di capire e quindi lo blocca nella sua funzion e gli impedisce di raggiungere il suo scopo che è la conoscenza della realtà. Invano Hegel invoca la funzione della ragione, la quale è solo al servizio dell’intelletto, per farlo procedere e progredire, ma non ha affatto la funzione conclusiva e visiva, che è propria ed esclusiva dell’intelletto.

E se io non vedo, non identifico l’oggetto, con capisco e non conosco. È impossibile identificare un oggetto che simultaneamente è così e non è così. Io conosco solo se capisco che quella cosa è così e non altro. Un oggetto senza carta d’identità è respinto dall’intelletto, così come una persona senza carta di identità è respinta alla frontiera.

Per questo, il Concilio di Calcedonia raccomanda di non fare confusione fra le due nature di Cristo: la natura divina è semplice, increata, immutabile, infinita, immortale, eterna, innocente; quella umana è composta, creata, mutevole, finita, mortale, temporale.

Nel contempo il Concilio insegna che Cristo è uno e il medesimo; ha una sua ben precisa identità: è quella data persona e non altra, inconfondibile, riconoscibile e distinguibile da ogni altra. Una persona vuol dire un solo ente, un solo sussistente, un solo soggetto. Due nature invece equivalgono a due sostanze.  Bisogna distinguere la sussistenza dalla sostanza. Gesù come persona fruisce di un’unica sussistenza, ma possiede due sostanze o nature, quella umana e quella divina,

Una domanda che si pose il Card. Pietro Parente fu: Cristo ha un solo io o il suo io è duplice, umano e divino? La risposta la dette nel suo importante libro L’Io di Cristo[1]: Gesù, come ha due nature, due intelletti e due volontà, così ha due io, due autocoscienze: una umana e l’altra divina.

Il Card. Parente osserva che nella sua vita terrena, Gesù a volte guarda al suo io umano, per cui entra in rapporto col Padre rivolgendosi a Lui come facciamo noi, col tu. A volte invece volge la sua coscienza verso il suo Io divino, come quando per esempio dice Io Sono o Io sono la via, la verità e la vita.

La confusione fra l’io umano e quello divino è evidente nell’Io di Fichte, a proposito del quale non si capisce di quale io parli, per cui egli favorisce l’equivoco, cosicchè sembra che l’io umano si innalzi alla pari dell’Io divino. Da questo equivoco nasce l’impostura idealistica del cosiddetto «Io trascendentale».

È chiaro, che gli idealisti, che risolvono la persona umana nell’autocoscienza, confondendola con la natura umana, dovendo affrontare la questione dell’identità di Cristo, non riescono a capire come Cristo possa essere una sola persona, se ha due autocoscienze; oppure applicano a Cristo la loro antropologia che comporta il fatto che il mio io umano, l’io «empirico» o «psicologico»,  come lo chiamano, è solo l’apparire fenomenico e temporale del mio Io assoluto, radicale ed originario, che è Dio stesso.

In questo modo per l’idealista non fà nessun problema che Gesù sia Dio, perché secondo lui ogni uomo è sostanzialmente e virtualmente Dio, solo che non sempre ne ha coscienza. Non tutti lo sanno. Compito nobilissimo che l’idealista si assume, simile a quello dello yoghi bramanico, è quello di aprire gli occhi e suscitare acume critico agli ingenui sprovveduti, che sarebbero i realisti e i tomisti, compreso il magistero della Chiesa.

Non tutti sanno di queste loro potenzialità divine. Cristo, per il cristologo idealista[2],  è quell’uomo che ha saputo fra tutti prender piena coscienza di questa infinita e insospettata dignità divina dell’uomo, sviluppando in modo pieno le potenzialità nascoste nell’io profondo dell’uomo.

Cristo avrebbe fatto capire all’umanità che io, anche quando mi rivolgo a Dio, non è che in realtà io parli con una persona trascendente, altra da me e al di sopra di me, ma sono sempre io che parlo col mio io superiore (il superego, direbbe Freud) trattandolo come se fosse un tu. Ma sono sempre io, sia al livello umano che al livello divino.

Per l’idealista non sono in gioco due persone differenti, due soggetti personali, io e Dio, ma si tratta solo di due livelli, uno basso («terreno») e l’altro alto («celeste») del medesimo unico Soggetto assoluto «Io trascendentale» o «Soggettività», che non è altro che l’uomo-Dio. E in tal modo a loro pare di aver capito l’unità della persona di Cristo, per cui l’essere o diventar uomo (l’«Incarnazione») diventa una proprietà essenziale di Dio; diventa inconcepibile un Dio che non sia uomo, così come per converso diventa inconcepibile un uomo, che quanto meno non possa raggiungere il suo vertice divino.

Un’altra domanda che potremmo porci è: Gesù è un unico individuo? Bisogna vedere che cosa intendiamo per «individuo»: se intendiamo una natura individuale, l’individuo di una specie, allora possiamo dire che in Gesù ci sono due individui: una natura umana individuale e la natura divina, che ha di per sé un carattere individuale non perché sia l’individuo della specie «Dio» (Dio è già specie per se stesso, Egli coincide con la sua essenza), ma perché, come insegna il Concilio Vaticano I, Dio è «una singularis  substantia spiritualis».

Se invece per individuo intendiamo un ente singolo sussistente, un soggetto concreto esistente, una persona, un personaggio storico, esistito o esistente, allora certamente in questo senso Gesù è un individuo come ogni singolo ente reale attualmente esistente, benché adesso sia in cielo e non in terra.

Altra questione che potremmo porre è: qual è l’essenza di Gesù? Qui dobbiamo ricordare che un singolo ente, un questo qui, un ente individuale, una persona, un soggetto storico concreto quale è Gesù, non può propriamente essere da noi definito nella sua essenza, per genere e differenza, considerando l’essenza della natura umana, perché i nostri concetti sono degli universali astratti, che vanno sempre oltre l’individuale e non riescono a stringerlo in se stesso, nella sua originalità irripetibile, nella sua ecceità, come vorrebbe il Beato Duns Scoto; per cui il concetto non riesce a distinguere, definendolo, un individuo da un altro, ma occorre l’intuizione e l’esperienza e ricorrere o all’immagine o alla descrizione o narrazione o, se è possibile, indicarlo a dito. Chi è Gesù? Vieni e vedi!  Gesù si conosce per esperienza.

Come per qualunque altro personaggio della storia, possiamo informarci sul personaggio o l’individuo Gesù seguendo la narrazione storica fornitaci dai Vangeli, ma tenendo però presente che Gesù è un individuo specialissimo, unico in tutta l’umanità, un uomo che non è solo uomo ma anche Dio, senza che ciò supponga in noi la dabbenaggine di credere a un uomo che si è fatto Dio o che è stato mitizzato o ingigantito dai suoi seguaci e discepoli a scopo di propaganda e per renderlo accettabile dai creduloni e dagli ingenui.

La cristologia di Rahner

Per Rahner ogni uomo è, secondo la sua nota espressione, un «cristiano anonimo», ossia è sostenuto dalla grazia perdonante di Dio, è essenzialmente, necessariamente e liberamente orientato a Dio, senza che il peccato frustri il raggiungimento del vertice ultimo od orizzonte infinito dell’autotrascendenza umana, che è Dio stesso come Mistero ineffabile e «senza nome».

In base a ciò ogni uomo sperimenta almeno inconsciamente in modo trascendentale ed atematico, preconcettuale, il mistero di Cristo salvatore, prima di un eventuale apprendimento conscio e concettuale del mistero di Cristo nell’interpretazione dogmatica della Chiesa. Nel primo caso, secondo Rahner, è in atto quella che egli chiama «cristologia trascendentale», già salvifica perché Dio vuol salvi tutti e a tutti dà la grazia, mentre tutti corrispondono, perché appunto per salvarsi occorre la risposta positiva, che Dio stesso suscita.

D’altra parte, secondo Rahner, la ragione umana forma concetti per esprimere l’esperienza atematica di Cristo. La produzione dei concetti, però, secondo Rahner, evolve nel corso della storia, in modo tale che i concetti moderni vengono a sostituire quelli antichi, pur sempre in grado, gli uni e gli altri, di esprimere il mistero di Cristo, di per sé non concettualizzabile, ma solo sperimentabile nella fede, che è dono che Dio concede a tutti, anche a coloro che si credono atei. Diversamente non potrebbero salvarsi, dato che la fede è necessaria alla salvezza e tutti si salvano.

Rahner nota che i concetti servono alla comunicazione umana. Per questo – avverte Rahner - per farsi capire dagli uomini di oggi occorre che la Chiesa usi i concetti della filosofia moderna, nata da Cartesio ed evolutasi attraverso Kant ed Hegel fino ad Heidegger. Ora, osserva Rahner, i concetti usati a Calcedonia per formulare il dogma cristologico, non sono quelli della filosofia moderna, ma della tarda grecità.

Egli si riferisce in particolare ai concetti di essere, natura, di persona, di coscienza, di Dio, di uomo. Per questo, secondo Rahner oggi conviene alla Chiesa, se vuol parlare agli uomini del nostro tempo, sostituire i concetti usati da Aristotele e San Tommaso con quelli di Hegel, Heidegger e Bultmann.

Rahner ha ragione nel dire che la Chiesa deve esprimere il contenuto del mistero di Cristo in termini e concetti comprensibili agli uomini del nostro tempo. Ma sbaglia nel credere che i termini e concetti usati a Calcedonia siano caduti in disuso, per cui oggi dovrebbero essere sostituiti da quelli delle filosofie contemporanee.  Un esame attento del dogma calcedonese, alla luce dell’alta sapienza del pensiero di San Tommaso, Dottore Universale della Chiesa e del Magistero e recente della Chiesa,  ci rende consapevoli e convinti che i concetti e i termini lì usati per il loro perenne ed universale valore dogmatico, valgono anche oggi per illuminare l’uomo moderno, anche nell’orizzonte delle filosofie contemporanee, sul mistero di Cristo e trovare in esso conforto e consolazione in vista dell’eterna beatitudine.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 26 novembre2024 


A Hegel manca il concetto dell’unione, quindi dell’amore, dell’amicizia e della convivenza pacifica. Per lui le due nature di Cristo non sono unite, ma sono un’unità, una sola cosa. Si confondono. L’uomo è Dio e Dio è l’uomo. Ecco l’uomo che si fa Dio!

La sintesi hegeliana è una falsa sintesi. La vera sintesi, ossia l’unione, salva entrambe le nature nella loro identità e diversità, come dice il dogma calcedonese, le unisce nell’unità della persona di Cristo.

Per questo, il Concilio di Calcedonia raccomanda di non fare confusione fra le due nature di Cristo: la natura divina è semplice, increata, immutabile, infinita, immortale, eterna, innocente; quella umana è composta, creata, mutevole, finita, mortale, temporale. Nel contempo il Concilio insegna che Cristo è uno e il medesimo; ha una sua ben precisa identità: è quella data persona e non altra, inconfondibile, riconoscibile e distinguibile da ogni altra.


Se per individuo intendiamo un ente singolo sussistente, un soggetto concreto esistente, una persona, un personaggio storico, esistito o esistente, allora certamente in questo senso Gesù è un individuo come ogni singolo ente reale attualmente esistente, benché adesso sia in cielo e non in terra.

Rahner nota che i concetti servono alla comunicazione umana. Ora, osserva Rahner, i concetti usati a Calcedonia per formulare il dogma cristologico, non sono quelli della filosofia moderna, ma della tarda grecità.

Rahner ha ragione nel dire che la Chiesa deve esprimere il contenuto del mistero di Cristo in termini e concetti comprensibili agli uomini del nostro tempo. Ma sbaglia nel credere che i termini e concetti usati a Calcedonia siano caduti in disuso, per cui oggi dovrebbero essere sostituiti da quelli delle filosofie contemporanee.

Immagini da Internet: Basilica di San Pietro, Roma

[1] Edizione dell’Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1981.

[2] Xavier Tilliette, La cristologia idealista, Editrice Queriniana, Brescia 1993; Il Cristo della filosofia. Prolegomeni a una cristologia filosofica, Morcelliana, Brescia 1997.

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