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Dialettica e diabolica - Il progetto di Hegel - Prima Parte (1/4)

 

Dialettica e diabolica

Il progetto di Hegel

Prima Parte (1/4)

 Il vostro parlare sia sì, sì, no, no.

Il resto appartiene al diavolo

Mt 5,37

Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore

Sap 13,5

 La strana corrispondenza fra due parole

Nessuno pensa ad accostare la dialettica al diavolo. In un trattato sul diavolo non troverete mai un capitolo dedicato alla dialettica. Così per converso i filosofi che trattano di dialettica facilmente non credono neppure all’esistenza del demonio.

Eppure l’etimologia delle due parole, estremamente significativa, ci mette sulla strada per scoprire il nesso che esiste tra l’attività dialettica, in particolare quella hegeliana e l’attività del diavolo.

Il significato delle due parole si arricchisce e s’illumina accostandole ad una terza, di simile etimologia: analogia, da cui il termine analettica.  In due di esse è presente la particella dià che comporta divisione; in una la particella anà che dice congiunzione; in due è presente il logos, la ragione; in una è presente il verbo diaballo, verbo composto da dià e ballo, dove ballo vuol dire: lancio, colpisco, getto addosso, mentre dià fà da rafforzativo, sicchè diaballo vuol dire: metto male tra due persone; disunisco; calunnio; scredito; rendo odioso. Diabolè è la falsa accusa, la calunnia, la denigrazione. Si tratta di tutte attività proprie del diavolo E si capisce allora perché lo si chiami così. E la Scrittura, del resto, lo chiama l’Accusatore. Gesù lo chiama il Menzognero.

Si potrebbe citare una quarta parola, oggi usatissima: dialogo, parola molto bella che implica amicizia, fiducia reciproca, umiltà, lealtà, ascolto, scambio, conversazione, discussione, dibattito, confronto, reciprocità. Il dialogo non disciplinato può degenerare nella sofisticheria, nella tergiversazione, nella frode, nella disputa, nella controversia, nel litigio. Abbiamo allora qui un aggancio con quella dialettica della quale vorrei parlare.

Ma il dialogo come tale, nella sua indifferenza all’incontro e allo scontro, presenta minore interesse  per il nostro scopo, perché quello che qui vorrei mettere in luce è quella forma di dialettica malsana e capziosa, che già Aristotele,  a proposito di Protagora, chiamava sofistica, come arte di presentarsi superintelligente e supercritico, svelatore di inveteratissimi errori, capace di aprire gli occhi agli ingenui e guida alla somma sapienza,  come arte di far credere quello che non è, di far apparire vero il falso, di dare false dimostrazioni, come arte di far dubitare di ciò che è certo e di chiudere gli occhi all’evidenza.

Come è noto, per Protagora l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono, in quanto non sono. Già Platone gli obiettò che in realtà non l’uomo ma Dio è la misura delle cose e l’uomo per conoscere la verità, deve attenersi a questa misura divina, giacchè non è lui ma Dio l’autore delle cose.

Aristotele concordò in sostanza con Platone, ma, più magnanimo di lui, ammise che se per «misurare» si intende «calcolare», così come un geometra misura le dimensioni di una casa, allora, in questo senso, si può dire che l’uomo misura le cose.

Tuttavia Aristotele si accorse della disonestà che si nascondeva dietro il principio di Protagora, che era quello di negare il principio di non-contraddizione, verità evidente, che non può essere negata, per Aristotele, se non per una forma di indocilità (apaideusìa). San Tommaso, nel commentare Aristotele, rincara la dose parlando di «protervia».

La dialettica, di per sé, come spiega San Tommaso nel suo commento ad Aristotele, è un normale procedimento della ragione usata o nella conversazione con un interlocutore o nella ricerca personale  della verità.

Così Tommaso definisce la dialettica messa a confronto con la filosofia e la sofistica:

 

«I dialettici e i sofisti assumono la medesima sembianza del filosofo, quasi abbiano una somiglianza con lui. … Dialettici e filosofi convengono nel fatto che considerano tutte le cose … Ora, se tutte le cose convengono nell’essere ente, è chiaro che la materia della dialettica è l’ente e le proprietà dell’ente. … Differiscono tuttavia tra loro: il filosofo dal dialettico secondo il loro potere. Richiede infatti maggior virtù la considerazione del filosofo rispetto a quella del dialettico. Il filosofo infatti nei valori comuni procede dimostrativamente. E quindi gli appartiene conoscere quei valori scientificamente e li conosce con certezza. Infatti la conoscenza certa, ossia la scienza è effetto della dimostrazione.

 

Il dialettico invece riguardo a tutti quei valori procede per argomenti probabili, per cui non produce scienza, ma una certa opinione. E ciò avviene per il fatto che l’ente è duplice e cioè l’ente di ragione e l’ente di natura. Ente di ragione si dice propriamente di quelle intenzioni, che la ragione trova nelle cose considerate, come l’intenzione di genere, specie e cose simili, che certamente non si trovano nella natura delle cose, ma conseguono alla considerazione della ragione. E cose di questo genere, come l’ente di ragione, sono propriamente il soggetto della logica.

 

 Ora queste intenzioni intellegibili sono equiparate agli enti naturali per il fatto che tutti gli enti di natura cadono sotto la considerazione della ragione. E pertanto il soggetto della logica si estende a tutto ciò che è predicato degli enti natura. Per questo Aristotele conclude che il soggetto della logica è equiparato al soggetto della filosofia, che è l’ente.

 

Dunque il filosofo per mezzo dei suoi princìpi procede a dimostrare quelle che sono le proprietà dell’ente. Invece il dialettico procede a considerare le cose per mezzo di intenzioni di ragione, che sono estrinseche alla natura delle cose. Per questo si dice che la dialettica è approssimativa (tentativa), perché il tentare è proprio di chi procede in base a princìpi estranei»[1].

La dialettica hegeliana si discosta da quella aristotelica perché mentre questa fa riferimento al realismo, la dialettica hegeliana è idealista. Aristotele non disdegnava il valore dell’apparenza, la doxa, solo che sapeva che l’apparenza può essere vera ma anche falsa. Ecco perché per Aristotele la dialettica non dà un sapere certo ed oggettivo, ma solo opinioni che possono sempre essere mutate.

Ma proprio questo carattere ideologico della dialettica attira la stima dell’idealista, cosicchè presso di lui essa acquista un’importanza decisiva che non ha nell’aristotelismo per il fatto che nell’idealismo la dialettica fa capo non alla realtà ma all’apparenza. Essa sostituisce quella che nel realismo è la scienza, ossia pretende essa stessa di essere scienza al posto dell’impostazione realista.

Infatti per l’idealista l’idea come apparenza o come essere pensato è la stessa realtà, perchè per lui non c’è un essere oltre o al di là o al di fuori del pensiero, ma l’essere è la propria autocoscienza (Cartesio), è il fenomeno (Kant), è l’essere pensato (Berkeley), l’essere pensante (Hegel) o lo stesso atto del pensiero (Gentile), immanente al pensiero (Bontadini), o correlato del pensiero (Husserl). All’idealista poco interessa se dietro alle sue idee c’è o non c’è una realtà. A lui basta la sua esperienza soggettiva, quello che appare alla sua mente o alla sua coscienza, ossia i suoi concetti e le idee, sue e degli altri.

Ciò che invece interessa al realista è la realtà esterna o del proprio io o delle altre persone o di Dio, al di là del mutare e della fallibilità delle idee sue e degli altri.  Egli si attacca alle idee solo quando sono certe, ma è distaccato quando sono opinabili.

L’anima di Hegel

Chi per primo con poche parole mi fece capire chi è stato Hegel fu il mio amatissimo insegnante di religione al liceo classico nel lontano 1959, Don Giovanni Buzzoni, uomo di grande sapienza, tomista maritainiano, il quale introducendomi alla metafisica, pose in me il primo germe della vocazione domenicana, alla quale avrei corrisposto nel 1971.

Ebbene, Don Giovanni un giorno mi disse. «San Tommaso ed Hegel s’incontrano sulla questione dell’essere. Ma poi sorge tra loro un abisso, perché mentre Tommaso distingue l’essere dal pensiero, Hegel li identifica». Era detto tutto.  Mi pose in mano il bandolo della matassa che mi permise di orientarmi nell’affascinante e indisponente labirinto hegeliano e di scoprire l’anima di Hegel nei suoi più profondi intenti, perché il mio grande desiderio, oltre a quello di Dio, è sempre stato, ed oggi più che mai come sacerdote, quello di capire l’anima del mio prossimo. E ogni anima è un mistero diverso dall’altro. Ho sempre fatto mio il detto di San Giovanni Bosco: «da mihi animas, caetera tolle». E quale gusto più grande che capire l’anima dei filosofi?

Dunque, dopo sessant’anni di letture hegeliane seguendo il filo datomi da Don Buzzoni, sono giunto alla conclusione che l’anima di Hegel si trova in una pagina della Fenomenologia dello Spirito. Qui scopriamo come intende la filosofia, che cosa è la sua dialettica e in che senso egli nega il principio di non-contraddizione. Dice dunque Hegel:

 

«L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio, della potenza assoluta. Il circolo che riposa in sé chiuso e che tiene, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata, che non suscita, quindi, meraviglia alcuna.

 

Ma che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonchè reale solo nella sua connessione con altro, guadagni una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo, esso è l’energia del pensare, del puro io.

 

La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l’intelletto, perché questo le attribuisce dei compiti che essa non è in grado di assolvere. Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi, quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito.

 

Esso guadagna la sua verità solo a patto di trovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo, come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia al negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica[2] forza che volge il negativo nell’essere. …

 

Ora, quindi il compito non consiste tanto nel purificare l’individuo dal modo dell’immediata sensibilità per renderlo una sostanza pensata e pensante, quanto piuttosto nell’opposto: nell’attuare, cioè, l’universale e nell’infondergli spirito, togliendo i pensieri determinati e solidificati, che render fluida l’esistenza sensibile. … Mediante siffatto movimento i puri pensieri divengono concetti e soltanto allora sono ciò che veramente sono: automovimenti, circoli, sono ciò che la loro sostanza è, essenze spirituali.

 

Poiché dunque il sistema dell’esperienza dello Spirito ne comprende soltanto l’apparire, il processo che conduce da esso alla scienza del vero che è nella forma del vero, sembra meramente negativo e potrebbe darsi che volesse avere a che fare con il negativo inteso come falso e si pretendesse di venir condotti senz’altro alla verità; a che impicciarsi del falso? …

 

Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, vorrebbero valere come particolari essenze, delle quali una sta di qua e l’altra di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza. … C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Falso e cattivo non sono mica perfidi come il diavolo[3]; tanto è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolati; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura.

 

Il falso (ché solo di esso qui si vuol parlare) sarebbe l’altro, il negativo della sostanza, la quale, in quanto contenuto del sapere, è il vero. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, vuoi come distinzione e determinazione del contenuto, vuoi come semplice distinguere ossia come sé e sapere in genere»[4].

Di quale «spirito» parla Hegel? Sono io e al contempo è Dio. Tuttavia restiamo perplessi, perché questo «spirito», sembra solo; non parla mai di una molteplicità di spiriti; e poi questo spirito, che Hegel chiama «Spirito del mondo» (Weltgeist)[5], sembra essere tutto, sempre e solamente dedito ad una sistematica, metodica ed irresolubile conflittualità, col pretesto del «progresso» e nel nome stesso della «riconciliazione». È interessante che Hegel, che pur si diceva cristiano luterano, non dà mai allo Spirito l’attributo di «santo».

Ora, come sappiamo soprattutto noi cristiani, lo spirito come tale non è altro che una sostanza o forma immateriale sussistente dotata di intelletto e volontà. Ma esiste uno spirito buono, che è quello divino, dei santi angeli, delle anime beate in cielo e degli uomini e donne in grazia su questa terra, i figli di Dio; ed esiste uno spirito maligno o malvagio, che è il demonio o quello delle anime dannate dell’inferno o quello degli uomini e donne cattivi su questa terra, quelli che San Giovanni chiama «figli del diavolo» (I Gv 3,20).  

Secondo Hegel l’attività dialettica pone un positivo che non respinge il negativo, ma lo «tiene fermo», lo trattiene facendo così in modo che esso nel conflitto col positivo produca un positivo superiore a quello di partenza negato dal negativo. Il negativo non è produttivo da sé, ma solo in quanto è dominato dal positivo. Il positivo non deve ignorare il negativo ma unirlo a sé.

Allora in Hegel il negativo nega il negativo del positivo, supera il precedente positivo e lo conferma nella sua positività. Questo modo di procedere di Hegel non pare negare il principio aristotelico di non contraddizione, perchè questo esclude che di una cosa si possa affermare e negare simultaneamente la stessa cosa. Ma in Hegel la negazione non è negazione totale, ma solo di ciò che dev’esser negato affinchè si realizzi un progresso nel sapere. Questo punto non è male. Allora la contraddizione è risolta e avviene la conciliazione.

Se invece il positivo respinge il negativo, secondo Hegell, soccombe sotto  il negativo e la contraddizione resta. Ciò potrebbe voler dire che se si affronta il nemico, lo si vince, ma se si fugge si è vinti. Queste osservazioni sono giuste. Tuttavia Hegel confonde questo metodo per acquistare il sapere e la virtù con un procedimento che comporta doppiezza e servizio a due padroni. Egli infatti vorrebbe sostenere che la scienza nelle sue asserzioni su un dato tema non deve limitarsi ad affermare ciò che sembra vero, ma deve accogliere anche ciò che appare il falso perché la verità è la sintesi di queste due apparenze.

Tuttavia l’impressione che lascia la dialettica hegeliana è che essa resta dialettica con tutti i suoi limiti già riconosciuti da Aristotele, e fallisce nella sua pretesa di assurgere alla dignità di scienza, perché non è capace di darci una verità certa, dimostrata, inconfutabile, tale da saper ridurre all’assurdo la tesi dell’avversario. Essa si tiene solo sul piano delle apparenze e degli enti di ragione, per cui, dato il suo proclamato ridurre l’ontologico al logico, non sa lavorare sul piano della realtà.

Le tesi della scienza, secondo Hegel, sono sempre rivedibili, discutibili e mai definite, sono vere per alcuni e false per altri. Ora però queste cose sono indegne del vero sapere. Il vero progresso del sapere non è un mettere in discussione tutto e un ricominciare sempre daccapo, ma è sviluppo coerente su basi solide, immutabili ed evidenti nella continuità e nell’identità perenne del medesimo vero e del medesimo significato. I concetti non devono essere fluidificati ma consolidati. Questa è la vera scienza.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 novembre 2024

Don Giovanni un giorno mi disse. «San Tommaso ed Hegel s’incontrano sulla questione dell’essere. Ma poi sorge tra loro un abisso, perché mentre Tommaso distingue l’essere dal pensiero, Hegel li identifica». Era detto tutto.  Mi pose in mano il bandolo della matassa che mi permise di orientarmi nell’affascinante e indisponente labirinto hegeliano e di scoprire l’anima di Hegel nei suoi più profondi intenti, perché il mio grande desiderio, oltre a quello di Dio, è sempre stato, ed oggi più che mai come sacerdote, quello di capire l’anima del mio prossimo. E ogni anima è un mistero diverso dall’altro. Ho sempre fatto mio il detto di San Giovanni Bosco: «da mihi animas, caetera tolle». E quale gusto più grande che capire l’anima dei filosofi?

Dunque, dopo sessant’anni di letture hegeliane seguendo il filo datomi da Don Buzzoni, sono giunto alla conclusione che l’anima di Hegel si trova in una pagina della Fenomenologia dello Spirito. Qui scopriamo come intende la filosofia, che cosa è la sua dialettica e in che senso egli nega il principio di non-contraddizione.

Di quale «spirito» parla Hegel? Sono io e al contempo è Dio. Tuttavia restiamo perplessi, perché questo «spirito», sembra solo; non parla mai di una molteplicità di spiriti; e poi questo spirito, che Hegel chiama «Spirito del mondo» (Weltgeist), sembra essere tutto, sempre e solamente dedito ad una sistematica, metodica ed irresolubile conflittualità, col pretesto del «progresso» e nel nome stesso della «riconciliazione». È interessante che Hegel, che pur si diceva cristiano luterano, non dà mai allo Spirito l’attributo di «santo».

 
Immagini da Internet:
- San Giovanni Bosco


[1] In XII libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, Edizioni Marietti, Torino-Roma 1964, libro IV, cap. II, lect. IV, n.574, p.160-261.

[2] Parola molto significativa che Hegel si lascia sfuggire, che apre uno spiraglio su di uno sfondo che non può non destare preoccupazione.

[3] Interessante questo accenno al diavolo. Cristo ci dice invece che, a parte ciò che spetta alla nostra responsabilità, il falso e il maligno ci vengono proprio dal diavolo. Da quello che segue si vede poi come Hegel svii il discorso nel tentativo di non farci pensare al diavolo.

[4] Fenomenologia dello Spirito, I, Edizioni La Nuova Italia, Firenze 1989, pp.25-31.

[5] Ricordiamoci che San Paolo ci dice che noi non abbiamo lo spirito del mondo, ma lo Spirito Santo che Dio ci ha donato.

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