Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant
Alle origini del modernismo
Quinta Parte (5/5)
Quale concetto di Dio si deduce dal cogito cartesiano?
Bontadini delinea bene la conseguenza ultima del cogito cartesiano che si manifesta in pienezza nella filosofia di Hegel e di Gentile, per la quale io non mi trovo davanti a un tu altro da me indipendente da me, al di sopra di me, un Tu divino che mi ha creato, dal quale quindi dipende la mia esistenza, un Tu col quale posso dialogare, al quale parlo e che mi parla, un Tu che posso amare e che mi ama.
Né mi trovo davanti a persone simili a me, pur esse indipendenti da me, non prodotte da me, ma creature di Dio come me, con le quali pure posso entrare in una relazione di dialogo, di amore e di collaborazione. Niente di tutto questo, perché Bontadini ci ricorda che nella visione dell’idealismo assoluto da lui condiviso:[1]
«il pensiero non ha bisogno di garanzie; esso è già per se stesso garanzia del proprio valore, la propria misura, la propria fondazione. È una verità, questa, senza della quale non si entra nel sacrario della filosofia, verità fondamentale e pregiudiziale a ogni altra e, nello stesso tempo, come è ben confacente, semplice e irriducibile»[2].
Che cosa è questo «pensiero che non ha bisogno di garanzie» e che è già «per se stesso garanzia del proprio valore, la propria misura, la propria fondazione»? Lo abbiamo visto quando abbiamo trattato dell’esito e del significato ultimo dell’io sono cartesiano spiegato da Fichte: è il mio pensiero, il mio atto di pensare coincidente col mio io, pensiero che coincide col mio essere, col mio atto d’essere, cosicchè io sono il pensiero e identicamente io sono l’essere. Io non sono posto o creato da nessuno, perché sono io a porre col mio pensiero il mio essere e lo stesso essere di ogni essere. Questa è la metafisica che viene fuori da Cartesio attraverso Kant ed Hegel.
A questo punto ci chiediamo: se il pensiero è identico all’essere, se io sono l’essere e sono il pensiero, che ne è del problema dell’esistenza di Dio? Tutti gli idealisti, da Cartesio a Kant ad Hegel a Gentile a Bontadini parlano di Dio e sono convinti dell’esistenza di Dio, anzi credono di conoscerlo meglio dei realisti, accusati di averne una visione ingenua, arcaica, grossolana e antropomorfica.
Di fatti l’idealista ammette l’esistenza di Dio, però con questa differenza dal realista: che per questi Dio è un Tu personale distinto da lui e suo creatore, un essere trascendente ed esterno al suo pensiero, mentre per l’idealista, dato che per lui l’essere è immanente al suo pensiero, Dio sono io, non nel senso empirico, ma in senso ultimo, trascendentale ed assoluto.
Allora io mi domando: come fa l’idealista ad entrare in relazione con Dio e con gli altri? Come imposta questo rapporto? Se Dio e gli altri sono una proiezione del suo io, una sua idea, se sono posti da lui, in lui e per lui, se tutto è fondato sul suo io, se tutto parte dal suo io e torna al suo io, come va concepito, che senso ha il rapporto con Dio?
Chiaramente, dato che Dio è tutto e tutto dev’essere ordinato a Dio, tutti e tutto dev’essere ordinato all’idealista, perché egli è il principio di tutto, il vertice, il centro di tutto. Da qui il tipico egoismo ed egocentrismo dell’idealista. Tutti devono essere al suo servizio e servire ai suoi interessi, perchè tutti trovano in lui lo scopo della loro vita e della loro felicità.
Realismo e idealismo, tranne il fatto dell’intenzionalità, che poi l’idealista confonde con l’essere, e siamo daccapo, non si può dare sintesi o armonia. Realismo e idealismo non sono affatto due modi diversi e reciprocamente complementari di affrontare la realtà. Non si tratta di recitare due parti diverse come se si fosse attori di teatro o di parlare due lingue diverse come le guide turistiche. Filosofare non è, come diceva incautamente un mio confratello filosofo, un «suonare su due registri», ora quello del realismo, ora quello dell’idealismo.
Se è vero, come riferisce Virgilio Melchiorre[3], che l’Università Cattolica di Milano ha voluto essere «sin dall’inizio un luogo per un’originale coniugazione dell’antico» (San Tommaso) «col moderno» (Kant ); se è vero che essa è partita da Joseph Maréchal che «cercò di mediare il trascendentalismo tomistico con quello kantiano», bisogna dire che è partita col piede sbagliato e i frutti più cospicui di tale infausta operazione abbiamo potuto vederli nel monismo eternalista di Emanuele Severino.
Aveva invece ragione Maritain quando disse che occorre scegliere fra realismo ed idealismo come si sceglie tra il vero e il falso[4]. Ciò non vuol dire che non occorra mediante un serio vaglio critico alla luce del tomismo, mettere in luce l’aspetto valido del pensiero kantiano. La pista giusta per tale lavoro non è il trascendentale come io penso, ma la cosa come noùmeno. Da qui la chiave di volta offerta da Italo Mancini[5], che ci consente di parlare di una teologia kantiana, il detto kantiano che egli ha giustamente messo all’inizio del suo libro: «Gott ist kein Apprehensibler, sondern nur denkbarer Gegenstand»[6].
Purtroppo Maréchal non fa questa distinzione, sicchè, invece di ricondurre Kant al realismo tomista, fa di Tommaso un idealista. Su questa linea, che è quella di Maréchal, è Rahner, per cui il suo trascendentale non è quello tomista, ma quello cartesiano e addirittura hegeliano, che identifica il pensiero con l’essere.
Dal trascendentale kantiano Heidegger ha preso spunto per sostenere la presenza nel pensiero di Kant di una «precomprensione dell’essere» (Vorverständnis des seins)[7]. L’interpretazione vale interpretando la «cosa kantiana» come essere (sein). Ma non so quanto tale interpretazione sia attendibile. Kant non parla mai dell’essere (esse).
Rahner riprende Heidegger col suo concetto del Vorgriff, ma finisce per interpretare l’essere in senso hegeliano come identità di pensiero ed essere. In quanto invece Heidegger interpreta il trascendentale kantiano in senso di oggetto trascendentale, allora è possibile un accostamento del sein all’essere trascendentale tomistico ed è possibile un incontro fra San Tommaso e Kant.
Occorre ad ogni modo ricordare che tra il primato dell’idea sulla realtà e il primato della realtà sull’idea, si deve scegliere questo, come asserì Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato[8]. Identificare il pensiero con l’essere, il reale con l’ideale vuol dire identificare l’uomo con Dio.
Credere che il pensiero possa porre l’essere è credere che l’uomo possa produrre Dio col solo pensarlo, in quanto Dio non è che un-pensato-dall’uomo, per cui Dio diventa, per usare il linguaggio biblico, un idolo, «opera delle mani dell’uomo». Dio diventa un prodotto dell’immaginazione umana. Allora ha ragione Feuerbach a dire che Dio non esiste e che è solo un prodotto dell’immaginazione umana.
Il solo errore di Feuerbach è che questo Dio, semplice idea della ragione, non è il vero Dio, l’ipsum Esse per se subsistens, ma è appunto una finzione della mente, «ha la bocca e non parla, ha gli occhi e non vede, ha orecchi e non ode, ha narici e non odora, ha mani e non palpa, ha piedi e non cammina, dalla gola non emette suoni. Sia come lui chi lo fabbrica e chiunque in esso confida» (Sal 115, 4-8).
Realismo e idealismo
La differenza fra realismo e idealismo è molto semplice ed è insinuata nei termini stessi che li designano. Posta l’esistenza dell’intelletto, dell’idea e della realtà, mentre il realista sostiene che l’intelletto coglie il reale mediante l’idea, l’idealista crede che il reale coincida con l’idea e che quindi dire che oggetto dell’intelletto è l’idea o la realtà, è la stessa cosa. Così, mentre per il realista la verità sta nell’adeguarsi al reale, per il realista sta nell’adeguarsi all’idea.
Il realista ritiene che l’intelletto coglie immediatamente la realtà e per rappresentarla forma l’dea o concetto del reale. La coscienza successivamente coglie, con un atto riflesso, come suo oggetto, il concetto stesso formato dall’intelletto. L’idealista invece crede di poter partire immediatamente dalla coscienza avente per oggetto l’idea del reale e crede poi di ricavare dall’idea il reale.
L’idealismo in generale è certamente un valore che segnala la sensibilità per il pensiero e per lo spirito. Ma occorre distinguere due tipi fondamentali di idealismo, uno certamente nobile e lodevole, principio di virtù e perfezione morale; l’altro, fallace e biasimevole, principio di doppiezza e dissoluzione morale.
Il primo è l’idealismo platonico, per il quale l’idea è divina, sussistente, oggettiva e trascendente, regola di verità e modello della realtà e del retto agire. Questo idealismo si sposa perfettamente col realismo, perché l’idea non è la mia idea, non è una rappresentazione, ma l’idea divina assoluta e sussistente.
Invece nell’idealismo cartesiano l’idea è la mia idea, idea a priori ovvero originario contenuto della mia coscienza per la quale io faccio coincidere l’essere con l’essere pensato e non ammetto un essere fuori del mio pensiero. In tal modo l’idealista fa coincidere il pensiero umano con quello divino e cade nello gnosticismo.
Per l’idealista cartesiano oggetto della metafisica non è l’ente ma l’io, non è l’ens ma il cogito-sum. Dunque la realtà, la cosa in sé, l’ente non stanno davanti a me, prima di me indipendenti da me, al di sopra di me. La realtà è ciò che penso io, è la mia idea della realtà. Ciò che io penso è ciò che è non perché mi sono adeguato a ciò che è, ma perché ciò che è, è ciò che io penso. Non sono io che dipendo dalla realtà, ma è la realtà che dipende da me. Se dunque Dio esiste non esiste come mio creatore, ma esiste perché lo penso io.
Per l’idealista il trascendentale non è l’ente, ma sono io. È questa la rivoluzione copernicana di Kant. Kant chiama «trascendentale» non la conoscenza dell’ente, ma l’autocoscienza cartesiana, che in lui prende la forma di quella che lui chiama «critica della ragion pura», per la quale io prendo in esame le mie idee a priori che sono ad un tempo oggetto del mio sapere e modo col quale dò forma a tale oggetto, come dice Kant:
«Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti», ossia di cose materiali, dei fenomeni, «ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori». Ora Kant, per «modo» del conoscere intende appunto i contenuti della «pura ragione», le idee a priori e i «concetti puri a priori», che per lui danno forma all’oggetto ossia al fenomeno. «Un sistema di siffatti concetti si chiamerebbe filosofia trascendentale»[9].
Kant presenta questa scienza come una semplice «propedeutica al sistema della ragion pura. Una tale scienza non si dovrebbe ancora chiamare dottrina, ma solo critica della ragion pura». Essa avrebbe solo il compito, secondo Kant, di «epurare la nostra ragione e di liberarla dagli errori», in particolare, come dirà poi Kant, quelli del realismo, che crede che le cose in sé siano conoscibili, che la verità consista nell’adeguarsi all’oggetto, anzichè adeguare l’oggetto al soggetto, il realismo che pensa di ottenere una metafisica partendo dall’esperienza e crede che la ragione speculativa possa dimostrare l’esistenza di Dio.
Tuttavia Kant non ha edificato quella «dottrina», ossia quella metafisica come scienza, che avrebbe dovuto essere possibile sulla base di quella «propedeutica». Questa, come ebbe a dire anche nei Prolegomeni[10], doveva solo porre le condizioni di possibilità della metafisica come scienza. Invece Fichte e Schelling interpretarono la filosofia trascendentale kantiana come vera e propria scienza fondante in sostituzione della metafisica realista.
È successo così che gli idealisti kantiani hanno cominciato a parlare, con Schelling, di «idealismo trascendentale», prendendo il termine dalla metafisica realista, ma falsificandone il significato, giacchè propriamente il vero trascendentale non è l’io o il sum, ma l’ente. La vera filosofia trascendentale non è quindi la filosofia trascendentale kantiana, ma è la metafisica tomista.
Per quanto riguarda il realista, l’oggetto del pensiero è l’ente o essere o la realtà extramentale. Per l’idealista è l’io, l’essere di coscienza, ossia il pensato. Per il realista esiste l’essere pensabile, fuori del pensiero; per l’idealista non c’è un pensabile, ma solo il pensato; tutto l’essere è immanente al pensiero.
Per il realista il pensiero raggiunge l’ente che è fuori restando atto immanente allo spirito; per l’idealista non c’è un ente fuori del pensiero, per cui anche lui riconosce l’immanenza dell’atto conoscitivo, ma per lui l’oggetto di questo atto è lo stesso pensiero perché identifica il pensare con l’essere. Per il primo l’essere trascende il pensiero; per l’idealista il pensiero, come dice Bontadini, è intrascendibile, perché non pensa un essere esterno e trascendente, ma pensa il pensato, come dice Husserl, anche se pensato come trascendente.
Per il realista l’intelletto produce il concetto della cosa, ma non la cosa. La cosa la trova davanti a sè nell’esperienza. La cosa è creata da Dio. Per l’idealista il pensiero produce la cosa stessa, perché per lui il concetto della cosa è la cosa, come sostiene Hegel. Per questo, mentre il realista riconosce Dio come creatore, l’idealista si pone al posto di Dio considerandosi creatore delle cose. Anzi, come dice Gentile, al seguito di Fichte, che dice che l’io pone sé e il non-io, l’io crea se stesso («autoctisi»).
Per il realista la realtà sono le cose che si trovano davanti e attorno a lui, o il suo stesso io, il suo corpo e la sua anima, cose che vede, tocca, sente e intende, cose presupposte al suo conoscerle, cose esistenti prima di lui e indipendentemente da lui, per cui si domanda chi le ha fatte, chi le ha causate, da dove vengono, a che cosa servono e per qual fine agiscono o a qual fine tendono.
Io mi accorgo di avere in mente le cose che conosco; mi accorgo, di averne l’idea o una rappresentazione mentale. Se la cosa che conosco o alla quale penso è nella mia mente, devo dedurre che ne ho nella mia mente l’idea o la rappresentazione, giacchè, come già osservava Aristotele, non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra.
Se quindi io ho in mente quella cosa che è fuori di me nel suo concreto essere ed esistere, non posso ammettere l’assurdo che quella cosa sia nella mia mente con la sua materialità che essa possiede fuori di me, ma devo ammettere che essa è presente in me in qualche modo smaterializzata. Da qui l’immaterialità e la spiritualità dell’atto conoscitivo.
Allora ciò vuol dire che nel conoscere io avendo contattata la cosa per mezzo dei sensi, ho presente immaterialmente la cosa in un’idea che mi sono fatta della cosa stessa. In tal modo mi ritrovo la cosa in mente, e constato che ciò che di essa ho in mente corrisponde a ciò che la cosa è fuori di me.
Oggi l’illustre scienziato Federico Faggin esprime le seguenti importanti considerazioni: “Per anni ho inutilmente cercato di capire come la coscienza potesse sorgere da segnali elettrici o biochimici e ho constatato che, invariabilmente, i segnali elettrici possono solo produrre altri segnali elettrici o altre conseguenze fisiche come forza o movimento, ma mai sensazioni e sentimenti, che sono qualitativamente diversi. È la coscienza che capisce la situazione e che fa la differenza tra un robot e un essere umano. In una macchina non c'è alcuna 'pausa di riflessione' tra i simboli e l'azione, perché il significato dei simboli, il dubbio e il libero arbitrio esistono solo nella coscienza di un sé, ma non in un meccanismo"[11].
L’idealista – tipico esempio è quello di Bontadini – non spiega mai che cosa intende per essere e per pensiero. Ne parla sempre in un senso indeterminato, assoluto, gioca sempre sull’equivoco, senza mai chiarirne e precisarne il senso analogico, ossia la differenza fra il pensare umano e il pensare divino, fra l’essere umano e l’essere divino. Così, senza dirlo apertamente e in modo furbesco e sleale, favorisce lo gnosticismo e il panteismo, confondendo il sapere umano con quello divino e l’essere umano con quello divino.
L’idealista sa che cosa è lo spirito. Si muove a suo agio nella tematica della verità, della scienza, della conoscenza, dell’oggettività, della persona, della ragione, dell’io, del pensiero, dell’immanenza, della logica, della libertà, della coscienza, dell’universale, della concettualità, dell’ideale, della dialettica.
Usa volentieri nozioni metafisiche come quella dell’identità, del trascendentale, della trascendenza, dell’essere, dell’essenza, dell’individualità, dell’esistenza, della necessità, della relazione, della forma, dell’unità, della totalità, dell’assoluto.
Mostra invece carenza speculativa nei temi dell’ente, della sostanza, dell’accidente, dell’analogia, dell’anima, dell’intelletto, della causalità e della materia. Non disdegna di parlare di Dio, dell’eterno, dell’immutabile, del semplice, del Tutto, dell’infinito. Anzi, è certo di sapere chi è Dio meglio di quanto ne sappiano il realista, la Chiesa e Gesù Cristo.
L’idealista crede di essere lui e non il realista a fornire la prova dell’esistenza di Dio. Egli pensa che se l’idea di Dio non è nella sua coscienza originariamente, partendo dall’esperienza delle cose esterne, la ragione non arriva a dimostrarne l’esistenza, ciò è perchè crede che in questo modo la ragione si muova solo tra i fenomeni, mentre Dio è tra le cose in sè, come l’incondizionato che chiude la serie delle cose condizionate. Questo discorso emerge chiaramente da quanto Kant dice nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura[12].
È evidente che qui Kant riprende l’impresa di Cartesio, anche se non lo nomina. Ma fa la stessa cosa che Cartesio fa nei confronti della metafisica realista. La rivoluzione copernicana di Kant, per la quale gli oggetti si regolano sul soggetto, è quello stesso che aveva fatto Cartesio, quando, mettendo in dubbio la veracità dei sensi, non parte da loro per fondare la metafisica e per dimostrare l’esistenza di Dio, ma parte dal cogito contenente con la coscienza originaria dell’idea di Dio.
E Kant fonda la metafisica allo stesso modo: respinge la metafisica realista che conosce l’essenza della cosa in sé e da essa parte come effetto e come prova per mezzo della quale la ragione dimostra, applicando il principio di causalità, l’esistenza di Dio, ma come ha fatto Cartesio fonda la metafisica sull’«io penso»[13] ovvero sull’«appercezione trascendentale», che è lo «stesso intelletto»[14].
Come Dio è all’inizio dell’essere e le cose provengono da Lui e non è dalle cose che procede Dio, così Kant, confondendo come ogni idealista l’ordine dell’essere con l’ordine del conoscere, non parte dalle cose, come fa il realista, per arrivare a Dio, ma parte dall’idea di Dio per condizionare e fondare la conoscenza delle cose. L’unica forma di causalità che egli ammette è il passaggio dalla causa all’effetto, che corrisponde alla deduzione, mentre non ammette il passaggio dall’effetto alla causa, che comporta l’induzione. Per Kant la fisica parte dai sensi per arrivare ai fenomeni, mentre la conoscenza metafisica, parte dall’intelletto come autocoscienza e idea di Dio, per arrivare alle cose e al mondo.
L’idealista invece ci vuol convincere, col tono oracolare di chi ci svela la nostra vera dignità, che il nostro vero essere non è affatto il nostro io empirico, che noi quindi non siamo affatto creati da un Dio distinto da noi che sta lassù in cielo fuori di noi e al di sopra di noi, ma che noi stessi, nella sostanza profonda, ultima e reale del nostro io, l’io trascendentale o assoluto, siamo Dio, quel Dio che il realista si immagina come un ente supremo abitante in cielo, quel Dio lì siamo noi.
Quando Cartesio dice: ego sum, io sono, il significato ultimo e profondo di questo io sono lo ha capito Fichte, quando ha detto che l’io, pensandosi, pone se stesso e il non-io. Fichte ha capito che il cartesiano penso dunque sono, non vuol dire: dal fatto che penso deduco o mi accorgo che sono[15], ma nel momento in cui pongo il mio pensiero, pongo il mio essere. Noi esistiamo da noi stessi. Nessuno pone il nostro essere, ma ce lo poniamo da noi stessi. E come poniamo noi stessi, così poniamo ciò che è altro da noi. Questo altro non è creato da un Dio altro da noi, ma lo poniamo noi col nostro pensarlo. Il Dio del realista non esiste; è una sua immaginazione. L’uomo, come diceva Marx, è Dio per l’uomo. E qui l’idealista si incontra col materialista, Hegel con Marx.
Dalle precedenti considerazioni si capisce facilmente che il confronto fra realismo e idealismo non è un confronto fra antico o classico e moderno col vantaggio del moderno (a chi non piace il moderno?), ma è il confronto tra due atteggiamenti del nostro intelletto, che durano e dureranno per tutto il corso della storia, a partire dell’infausto evento del peccato originale: la prospettiva dell’uomo di sostituirsi a Dio nel decidere della verità e su ciò che è bene e ciò che è male.
L’idealismo non nasce con Cartesio e Kant, ma è già presente in Occidente con Parmenide[16] e Protagora, e in Oriente con l’induismo. D’altra parte, il realismo non è un atteggiamento «precritico» e sorpassato, perché corrisponde al funzionamento normale della ragione umana. Chi vuol essere moderno, ed è una giusta esigenza, dev’essere un realista moderno, che ha raccolto quanto di buono c’è nell’idealismo respingendone gli errori, mentre nel realismo non ci sono errori perché è il criterio della verità, che è obbligato ad usare lo stesso idealista nel momento in cui egli crede esser vero cioè adeguato al reale ciò che dice, confutandosi pertanto da sé.
Il rifiuto idealistico del pensiero di adeguarsi all’oggetto e la pretesa di regolare l’oggetto sul soggetto non è altro, sul piano intellettuale, che la pretesa dell’uomo di fare non la volontà di Dio ma la propria. Mentre infatti il realismo è l’apologia dell’umiltà e dell’obbedienza a Dio, l’idealismo è l’apologia del proprio io, della superbia e della disobbedienza. Abbiamo finalmente il coraggio di dire le cose come stanno, senza tanti giri di valzer, infingimenti, pretesti, ipocrisie e coperture. Sarà solo a nostro vantaggio.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 8 aprile 2024 - 7 maggio 2024
Occorre ricordare che tra il primato dell’idea sulla realtà e il primato della realtà sull’idea, si deve scegliere questo, come asserì Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato. Identificare il pensiero con l’essere, il reale con l’ideale vuol dire identificare l’uomo con Dio.
L’idealista reifica l’idea e derealizza l’ente, come fa Berkeley. Smaterializza la materia e materializza il pensiero. Per questo Locke ammette la possibilità della materia pensante. Dall’uomo res cogitans di Cartesio salta fuori l’uomo-macchina, la res extensa di La Mettrie; Darwin confonde l’uomo con l’animale.
Oggi l’illustre scienziato Federico Faggin esprime le seguenti importanti considerazioni: “È la coscienza che capisce la situazione e che fa la differenza tra un robot e un essere umano".
Che differenza c’è tra la mira del realista e quella dell’idealista? In base a quanto ho detto, la risposta non è difficile: il realista ci vuol convincere che noi siamo creature di Dio, di un Dio che in sé esiste fuori di noi, davanti a noi, al di sopra di noi, indipendentemente da noi, prima di noi e in noi.
L’idealista invece ci vuol convincere, col tono oracolare di chi ci svela la nostra vera dignità, che il nostro vero essere non è affatto il nostro io empirico, che noi quindi non siamo affatto creati da un Dio distinto da noi che sta lassù in cielo fuori di noi e al di sopra di noi, ma che noi stessi, nella sostanza profonda, ultima e reale del nostro io, l’io trascendentale o assoluto, siamo Dio, quel Dio che il realista si immagina come un ente supremo abitante in cielo, quel Dio lì siamo noi.
[1] Tuttavia Bontadini faceva professione di cattolicesimo ed insegnò all’Università Cattolica di Milano. Non è facile immaginare come riuscisse a mettere assieme due concezioni dell’esistenza e della vita così opposte. Purtroppo la doppiezza è un vizio che si riscontra anche fra noi cattolici.
[2] Introduzione al Discorso sul metodo, Editrice La Scuola, Brescia 1957, p. XVII.
[3] Autori Vari, Studi di filosofia trascendentale, Vita e Pensiero,Milano 1993, pp.VII-IX.
[4] Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges 1959, p.195.
[5] Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Assisi 1975.
[6] Dio non è apprensibile, ma solo pensabile.
[7] Kant et le problème de la métaphysique, Editions Gallimard, Paris 1953.
[8] Ho illustrato questo iunsegnamento pontificio nel mio articolo La dipendenza dell’idea dalla realtà nell’Evangelii gaudiuuim di papa Francesco, in PATH, 2014/2, pp287-316.
[9] Critica, op.cit., p.58.
[10] Vedi nota 28.
[11] https://www.youtube.com/watch?v=56qFwpRvIcQ
https://www.ansa.it/canale_tecnologia/notizie/tecnologia/2024/05/06/lectio-del-fisico-faggin-nessuna-ia-potra-mai-sostituire-luomo_f5c99e19-5c21-4aec-b124-fb6d7b868cf9.html : “Dopo aver ripercorso le tappe salienti della sua vita professionale, lo scienziato italo-americano - nato in provincia di Vicenza ma da tempo residente nella Silicon Valley - ha sottolineato: "Per anni ho inutilmente cercato di capire come la coscienza potesse sorgere da segnali elettrici o biochimici e ho constatato che, invariabilmente, i segnali elettrici possono solo produrre altri segnali elettrici o altre conseguenze fisiche come forza o movimento, ma mai sensazioni e sentimenti, che sono qualitativamente diversi. È la coscienza che capisce la situazione e che fa la differenza tra un robot e un essere umano. In una macchina non c'è alcuna 'pausa di riflessione' tra i simboli e l'azione, perché il significato dei simboli, il dubbio e il libero arbitrio esistono solo nella coscienza di un sé, ma non in un meccanismo". L'incontro è stato organizzato dall'Assemblea legislativa dell'Emilia-Romagna, rivolto a 35 scuole secondarie di secondo grado di tutte le province della Regione.”
[12] Op.cit., p.20.
[13] Ibid., p.141.
[14] Ibid., p.138.
[15] Questo lo ha spiegato lo stesso Cartesio e lo ha ben capito Hegel. Vedi Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, pp.72-73.
[16] Il detto parmenideo to autò to noein kai to einai, il pensare e l’essere sono lo stesso è l’identità del pensare ed essere che è il principio fondamentale dell’idealismo, che conduce al panteismo e al concetto di uomo come Io assoluto.
Le chiedo Padre: si potrebbe sostenere che il confronto realismo/idealismo non riguardi l’esistenza di Dio cioè il principio, l’origine del reale inteso sia come oggetto (il mondo) sia come soggetto (il pensiero umano), difatti sia realismo che idealismo ne riconoscono l’esistenza. Ma riguardi la natura di Dio. Per il realismo si tratta di un Soggetto individuale, personale, già perfetto di suo che pone il reale, costituito di una natura non divina, liberamente, senza dipendere da esso; per l’idealismo si tratta di una “Entità” non perfetta contenente in sé il reale (mondo e pensiero umano), costituiti quindi della medesima natura divina che con il loro sviluppo, concorrono alla perfezione di tale Entità originaria, per cui tale Entità verrebbe a dipendere dal mondo e dal pensiero umano?
RispondiEliminaGrazie per ora Padre….Francesco Orsi
….se così fosse Le chiedo se si potrebbe usare questa considerazione per dimostrare l’inesistenza del Dio idealista: partendo dalla evidente distinzione tra un ente esistente realmente in quanto individuo, come l’individuo umano per esempio il sig. Mario, e l’esistenza solamente mentale del concetto di uomo, che ha un’esistenza puramente mentale ma diversa da quella concreta del singolo uomo. Il Dio dei realisti viene dimostrato come un “Tu personale” individualmente esistente, paragonabile all’individuo umano, il Dio concepito dagli idealisti come un ente di ragione non realmente esistente, ma esistente appunto come può essere esistente il concetto di uomo, cioè caratterizzato da un’esistenza solo mentale. Tra l’altro il Dio degli idealisti mi sembrerebbe anche una entità fantastica costituita dalla mescolanza di elementi tratti dal concetto di uomo, come il pensiero, ed elementi tratti dal mondo, come la materia: un concetto tipo la chimera. La conclusione sarebbe appunto la dimostrazione dell’inesistenza del Dio idealista in quanto concepito come un concetto (fantastico) e non come una esistenza singola, concreta. Grazie definitivo, Padre, per l’attenzione. Francesco Orsi
RispondiEliminaCaro Professore,
Eliminala sua esposizione, della concezione idealistica di Dio e di quella realista, mi sembra ben fatta.
Piuttosto, a mio parere, il confronto del realismo con l’idealismo non concerne solo la questione della natura divina, ma anche innanzitutto la questione dell’esistenza.
Infatti, mentre il realista considera la realtà come esterna al proprio spirito, l’idealista risolve il reale nell’orizzonte del suo pensiero. Per questo il primo passo da fare nei confronti dell’idealista è quello di richiamarlo a prendere in considerazione il fatto che le cose esistono indipendentemente da lui.
Infatti è solo questa consapevolezza che ci porta a porci il problema dell’esistenza di Dio, problema al quale rispondiamo affermando l’esistenza di una prima causa creatrice del mondo.
Il concetto di Dio lo formiamo solo dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio, come conseguenza di quanto è richiesto da questo concetto. Solo così possiamo stabilire i veri attributi di Dio, e in tal modo correggere i difetti presenti nel concetto idealistico di Dio.
Mi scusi padre se ritorno sull’argomento per un chiarimento: ma il mio ragionamento volto a provare l’inesistenza del Dio degli idealisti è valido? Grazie...anche per la pazienza. Saluti Francesco Orsi
RispondiEliminaCaro Professore,
Eliminacondivido in pieno il suo argomento contro la prova dell’esistenza di Dio data dagli idealisti. Essa infatti assomiglia a quella di Sant’Anselmo, senza tenere conto che Sant’Anselmo era un realista.
Però il discorso di Sant’Anselmo si presta al loro ragionamento sofistico, che parte dal cogito cartesiano, il quale, come mostrerà Hegel, riduce l’essere all’essere pensato, cosa che Anselmo era lontanissimo dal voler fare. Tuttavia, siccome Anselmo si confonde, affermando l’esistenza di Dio in base al semplice concetto, gli idealisti hanno approfittato di questa confusione a loro vantaggio.
Quindi, in conclusione, come ha fatto notare lei, gli idealisti non sono capaci di dimostrare veramente che Dio esiste. Hanno bensì il concetto di Dio, ma, come ben sappiamo, a cominciare da Kant fino ad Hegel, confondono Dio con l’idea di Dio, in modo tale che Dio diventa soltanto un’entità mentale.
A questo punto avrà buon gioco Feuerbach a dire che Dio non è altro che un ente immaginario, frutto della alienazione umana, tesi che sarà, come è noto, utilizzata da Marx per fondare il suo ateismo.