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Il serpente mi ha ingannata. La questione dell’errore in metafisica - Seconda Parte (2/2)

 

Il serpente mi ha ingannata

La questione dell’errore in metafisica

Seconda Parte (2/2)

Il fondamento e l’inizio del sapere

Aristotele fa notare che il punto di partenza del nostro sapere non coincide con la base o fondamento del nostro sapere. Infatti il nostro sapere comincia con l’esperienza sensibile e culmina con l’attività intellettuale che giunge fino all’autocoscienza. Solo a questo punto il sapere è fondato.

All’inizio funzionano i sensi, mentre il fondamento del sapere è la certezza del principio d’identità. Una volta che l’intelletto è giunto all’essere, evita di ingannarsi, e su questa base costruisce tutto il sapere ed è in grado di correggere i suoi errori.

Un conto è la base intellettuale sulla quale si costruisce il sapere e un conto è il cammino graduale prima verso il fondamento e poi verso la vetta. Un conto è ciò su cui spiritualmente mi appoggio (Grund), per concludere o per trovare; e un conto è ciò da cui inizio o devo iniziare, cioè con i sensi (Anfang), per arrivare alla certezza e alla verità intellegibili e metafisiche. Hegel, nella linea di Cartesio, confonde l’Anfang col Grund e invece di partire dai sensi per arrivare a Dio, parte da Dio per arrivare ai sensi, come se fosse egli stesso Dio creatore dei sensi.

Un conto dunque per noi è il fondamento del sapere e un conto è l’inizio o punto di partenza del sapere. In entrambi i casi abbiamo un principio che comporta conseguenze, ma lo svolgimento del pensiero è ben diverso nei due casi: nel primo caso si tratta dell’inizio umile, sensibile e temporale, per il quale cominciando già nell’infanzia dalla conoscenza dalle cose sensibili esterne, ci eleviamo per processi astrattivi a quelle spirituali fino a Dio. Nel secondo caso si tratta di trovare e chiarire qual è la nostra certezza intellettuale fondamentale, base e garanzia di tutte le altre, implicitamente e virtualmente contenute in quella, fino alla massima, che è la certezza dell’esistenza di Dio e della sua bontà.  

Nel problema della certezza ci chiediamo allora, con Aristotele e con Cartesio: di che cosa possiamo essere assolutamente certi? E potremmo aggiungere anche con Lutero: possiamo essere certi di aver preso una decisione giusta? Esser certi di aver peccato o di essere innocenti o perdonati? Torneremo a vedere questi problemi più avanti.

Intanto chiediamoci: esiste una base del pensiero originaria e incontrovertibile, evidente e non bisognosa di essere dimostrata, alla quale posso ricondurre tutte le dimostrazioni e le mie convinzioni? Esiste una prima verità evidente, indubitabile e inconfutabile, dalla quale posso ricavare con certezza tutte le altre?

Aristotele cita un principio: è il principio di non contraddizione. Cartesio cita un fatto: io esisto. Esiste un principio del sapere partendo dal quale posso aumentare indefinitamente il sapere? C’è un oggetto del sapere di tale vastità, che possa includere tutti gli altri? Aristotele e Cartesio si rifanno all’essere e per questo entrambi parlano di metafisica.

Solo che mentre per Aristotele questo oggetto è l’ente (on), un oggetto universale, per Cartesio è la mia coscienza di pensare e quindi di esistere: io sono, un oggetto singolare.  Così mentre per Aristotele esiste l’ente, ente che sono anch’io, ente fuori e al di sopra di me, e dal quale io stesso dipendo, ente che tutto include e del quale posso ricavare tutto, nel quale trovo tutto, per Cartesio esisto solo io come effetto del mio pensarmi, per cui sono obbligato, per trovare tutto il resto, ammesso che esista, a trovarlo dentro di ne.

Aristotele distingue il pensiero dall’essere. In Cartesio invece sembra che il pensiero s’identifichi con l’essere, per cui l’io sono che per Cartesio riferisco a me stesso sembra il biblico Io Sono di Es 3,14. San Tommaso alla luce di Es 3,14 scopre l’essere (esse) al di là dell’ente (ens) come atto dell’ente o atto d’essere e quindi il puro essere, l’Esse subsistens. Quindi la metafisica tomista non è metafisica dell’ente, ma dell’essere.

Inoltre, mentre Cartesio pensa che il nostro sapere e la metafisica abbiano un un’unica base sicura originaria e apriorica nell’autocoscienza, Aristotele ci fa presente invece che il nostro sapere parte da dati minimi modestissimi di notizie materiali, per passare alle certezze logiche e matematiche, alla conoscenza dei  princìpi della natura e alla metafisica: l’esistenza dell’ente, i princìpi d’identità, di causalità e di finalità, e infine la scienza morale, la conoscenza della legge morale naturale, il bene dell’uomo e i fini dell’agire umano.

Inoltre occorre osservare a Cartesio che nel prender coscienza di me stesso, io dovrei dire: io esisto e non io sono. Perché io sono è un nome divino. Solo Dio può dire «Io sono», ossia io sono in modo assoluto e infinito, senza predicati nominali. Io invece devo dire: io sono un uomo, un domenicano, un italiano, ecc.

Se invece io dico a me stesso: io esisto, ecco che non mi passa per l’anticamera del cervello di credere di esistere da me e in forza di me stesso o di pensare che posso ricavare tutto il mio sapere da questa mia autocoscienza, né questa autocoscienza esclude affatto la coscienza di trovarmi davanti a un mondo di cose e di persone fuori di me e attorno a me. Semmai mi verrà spontanea la domanda: considerando me stesso, le cose e le persone, finiti, fragili, contingenti, mutevoli come siamo, chi ci ha tratti dal nulla?

Ma la cosa tremenda di Cartesio è l’equivoco del suo io penso, che in realtà è un io dubito. Infatti l’io penso cartesiano non ha un oggetto. Cartesio non dice: penso qualcosa, ma si ferma a dire: io penso. Come mai? Perchè non si tratta di un vero pensare, ma è il suo dubbio universale gratuito e forzato. Cartesio non è certo oggettivante di niente, non «per ragioni fortissime», come egli dice ipocritamente, ma semplicemente perché così vuole lui; è certo solo di dubitare volontariamente e gratuitamente di tutto.

E questa sarebbe la grande scoperta epocale di Cartesio, la «melodia iniziale del pensiero moderno», come la chiama Bontadini[1], meglio sarebbe chiamarla la grande impostura che è alla base delle tragedie della modernità. Chi si getta nel precipizio da sé non può poi pretendere di venirne fuori per l’intervento di un Dio o che venga a salvarlo.

Anche Satana si maschera da angelo della luce (II Cor 11,14).

Il problema dell’inganno e dell’errore nella decisione pratica

La famosa ipotesi cartesiana del genio maligno potrebbe avere l’apparenza  di un riferimento al rischio di essere ingannati dal demonio, ma in realtà è un’ipotesi assurda ed empia: assurda, perché non ha senso ipotizzare che il demonio possa ingannarci in tutto tranne che nella certezza del cogito, che poi, come ho dimostrato più volte nei miei scritti, non è neanche una vera  certezza; un’ipotesi empia, perchè del tutto contraria all’operare della divina provvidenza, la quale  , può permettere certo gli inganni del demonio, anche nei santi, ma solo in fatti particolari e per periodi limitati. Il demonio si può semmai considerare come ispiratore di false filosofie.

L’errore in campo metafisico non è possibile, data l’evidenza dei princìpi, dubitando dei quali, ci si confuta da sé, perchè essi sono necessari all’espressione del pensiero.  Ciò non impedisce che difatti nella storia del pensiero essi esistano. Ci si potrebbe chiedere: ma coloro che in essi cadono, lo fanno volontariamente o s’ingannano senza volere? Può darsi l’una e l’altra cosa.

Ora, devo dire che dopo una lunga esperienza di vita come domenicano, filosofo e teologo, mi sto accorgendo sempre di più che tutto il problema dell’esistenza, della verità, del destino umano, della morale, del senso della vita, dei valori,  della società, della felicità e della storia, ancor più che attorno alle questioni della metafisica, gira attorno ad un’alternativa o scelta di fondo, alla quale nessuno – lo voglia o non lo voglia – può sfuggire o dalla quale può tenersi fuori: o seguire Cristo o seguire Satana, o il vero Dio e il Dio falso. Molti usano la parola «Dio», ma ne hanno un concetto sbagliato. Molti viceversa non la usano; eppure vivono nel rispetto della legge divina.

Gli inganni più impressionanti nella storia dello spirito umano avvengono in questo campo della scelta o per Dio o contro Dio. È su questo sfondo che si verificano gli errori nel campo delle eresie, gli errori morali, religiosi, metafisici e teologici. Essi si radicano profondamente nello spirito, animano interi popoli, e intere epoche storiche e vaste zone geografiche; sono difficilissimi da estirpare per il fascino quasi irresistibile esercitato dai loro inventori e diffusori.

A che cosa è servito aver confutato le obiezioni degli ebrei contro Cristo? A nulla. A che cosa è servito aver dimostrato agli scismatici orientali la validità del Filioque? A nulla. A che cosa è servito aver dimostrato ai musulmani gli errori di Maometto? A nulla. A che cosa è servito aver dimostrato ai luterani le eresie di Lutero? A nulla. A che cosa è servito aver dimostrato ai rahneriani le eresie di Rahner? A nulla.

I loro maestri riscuotono facile successo col solleticare ed accendere con sottile astuzia le basse passioni delle folle, mentre gli intellettuali si crogiolano nei preziosismi dei loro circoli ristretti ed esoterici, ma non meno invischiati nel vizio da abili sofismi e speciosi inganni che si costruiscono con le loro stesse mani. Questi errori sono durissimi a morire, per cui si trasmettono di generazione in generazione nei secoli e nei millenni.

Altra questione della certezza è quella del giudizio morale da dare agli atti morali da noi compiuti. Sono sicuro di aver peccato? Sono certo di essere innocente? Peccato veniale o peccato mortale?

Lutero si domanda altresì circa la conoscenza della nostra situazione davanti a Lui se possiamo essere illuminati direttamente da Lui e risponde di sì. Anzi egli stesso ci assicura che Cristo stesso gli rivelò che si sarebbe salvato, purchè avesse creduto che si sarebbe salvato indipendentemente dalle opere.

Possiamo comunque credere che Dio ci può parlare e dirci che siamo perdonati? E noi possiamo riconoscere la sua voce nella certezza che sia proprio la sua? O forse il demonio ci può ingannare e farci credere che abbiamo peccato mentre siamo innocenti o che siamo innocenti mentre abbiamo peccato? Siamo capaci veramente di buona volontà o siamo sempre falsi? Possiamo rispondere che non sempre si può giungere a un giudizio certo; bisogna a volte accontentarsi di un giudizio probabile. In altri casi si può restare nel dubbio.

Il Concilio di Trento è intervenuto contro Lutero a chiarire che la nostra volontà può essere buona, nonostante la sua fragilità del libero arbitrio e la sua tendenza al peccato[2]. Ma tendenza al peccato non vuol dire ancora peccare, per cui, se abbiamo peccato e ci pentiamo, la tendenza resta, ma il peccato è cancellato 

La gigantesca, poliedrica, fascinosa e attualissima figura di Lutero, come è noto, presenta molti aspetti interessanti come ingredienti della modernità: un animo vigoroso, caldo, passionale, intuitivo, operoso,  sottilmente superbo e insincero, la tormentata e orgogliosa autocoscienza, l’intensità straordinaria della sua emotività religiosa, il suo problema sessuale, il conflitto della carne  con lo spirito, la furbizia nell’interpretare la Scrittura a proprio vantaggio, la percezione della problematica del peccato e della colpa, la scrupolosità perfezionistica, il desiderio di essere scusato pur essendo in colpa, il desiderio di  pace con Dio, la volontà di annunciare un Vangelo di misericordia.

Ma tra tutte queste cose ciò che qui vorrei mettere in luce per il nostro argomento, è il fatto che Lutero, per sua stessa confessione, ha sentito angosciosamente il problema, che forse può sorprenderci, ma non è così assurdo come potrebbe sembrare, di come distinguere Cristo da Satana, salvo poi ad avere col demonio a volte uno strano rapporto, come di connivenza, come quando per esempio racconta che è stato il demonio a persuaderlo a cessare di dir Messa, o quando, tentati dalla passione, consiglia di commettere un bel peccato di lussuria «per far dispetto al demonio».

D’altra parte, ecco che per Lutero sulla croce Cristo appare in conflitto col Padre, o «sub contraria specie», come si è compiaciuto di evidenziare Bruno Forte. E in ciò Lutero mostra indubbiamente una certa qual grandezza d’animo, che ci spinge a scusare certi suoi eccessi e quasi ci commuove.

San Paolo ci consiglia di non pretendere di giudicare noi stessi in modo definitivo, ma di lasciare il giudizio a Dio (I Cor 4,4). Certo, nell’esame di coscienza dobbiamo dare una valutazione di responsabilità. Ero in buona fede o in mala fede? Sono stato spinto dalla passione oppure ho agito volontariamente? Sono colpevole o innocente? Dobbiamo esaminarci in maniera oggettiva, imparziale e prudente, senza rigorismi o lassismi, senza infierire e senza fare i furbi, con sincerità, onestà e amore per la verità, quale che essa sia, perché, fossimo anche in peccato mortale, un sincero e fiducioso atto di pentimento è sufficiente ad ottenere il perdono divino.

Col rimettersi al giudizio divino, Paolo non suppone che tale giudizio possa essere in contrasto col nostro. Se noi riteniamo in buona fede di essere pronti per il paradiso, Dio non ci fà l’amara sorpresa di mandarci all’inferno. Se lo amiamo sul serio Egli non ci respinge, perché non desidera altro che volerci con Sé. Il rimando di Paolo al giudizio divino vuol dire semplicemente che Dio, come dice San Giovanni, «è più grande del nostro cuore», ossia è più misericordioso di quanto noi possiamo immaginare e di quanto meritiamo.  

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 01 giugno 2025

Occorre osservare a Cartesio che nel prender coscienza di me stesso, io dovrei dire: io esisto e non io sono. Se invece io dico a me stesso: io esisto, ecco che non mi passa per l’anticamera del cervello di credere di esistere da me e in forza di me stesso o di pensare che posso ricavare tutto il mio sapere da questa mia autocoscienza.

La cosa tremenda di Cartesio è l’equivoco del suo io penso, che in realtà è un io dubito. Infatti l’io penso cartesiano non ha un oggetto. Cartesio non dice: penso qualcosa, ma si ferma a dire: io penso. Come mai? Perchè non si tratta di un vero pensare, ma è il suo dubbio universale gratuito e forzato.

E questa sarebbe la grande scoperta epocale di Cartesio, che è alla base delle tragedie della modernità. Chi si getta nel precipizio da sé non può poi pretendere di venirne fuori per l’intervento di un Dio o che venga a salvarlo.

L’errore in campo metafisico non è possibile, data l’evidenza dei princìpi, dubitando dei quali, ci si confuta da sé, perchè essi sono necessari all’espressione del pensiero. Ciò non impedisce che difatti nella storia del pensiero essi esistano. Ci si potrebbe chiedere: ma coloro che in essi cadono, lo fanno volontariamente o s’ingannano senza volere? Può darsi l’una e l’altra cosa.

Gli inganni più impressionanti nella storia dello spirito umano avvengono in questo campo della scelta o per Dio o contro Dio. È su questo sfondo che si verificano gli errori nel campo delle eresie, gli errori morali, religiosi, metafisici e teologici. Essi si radicano profondamente nello spirito, animano interi popoli, e intere epoche storiche e vaste zone geografiche; sono difficilissimi da estirpare per il fascino quasi irresistibile esercitato dai loro inventori e diffusori.


Immagine da Internet: Vecchio che soffre, Vincent Van Gogh


[1] Nell’Introduzione a Cartesio, Discorso sul metodo, La Scuola Editrice,Brescia 1957, p.XIV.

[2] Oggi esiste una tendenza buonistica che è tutto l’opposto della teoria luterana e tuttavia deriva logicamente da essa. Oggi infatti si ritiene che la volontà umana è sempre buona, per cui chi pecca non ha colpa e non è punibile. Ora, tanto la teoria di Lutero quanto quella di oggi nega che  il libero arbitrio possa ora agire bene ora agire male, ma agisce sempre in una direzione. Basta sostituire il peccato con la giustizia e abbiamo il passaggio dal pessimismo luterano all’attuale buonismo. Certo, Lutero ammetteva la doppia predestinazione (al paradiso e all’inferno), mentre oggi si dice che tutti si salvano. Ma anche qui basta cambiar di direzione o di segno al libero arbitrio, che dal pessimismo luterano viene fuori il buonismo di oggi. Solo ammettendo l’oscillazione del libero arbitrio tra atti buoni e atti cattivi, si evita sia il pessimismo luterano che il buonismo di oggi.

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