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La rivoluzione copernicana di Kant e il cogito di Cartesio - Seconda Parte (2/3)

 

La rivoluzione copernicana di Kant

e il cogito di Cartesio

Seconda Parte (2/3) 

  Dal sensibile all’intellegibile o dall’intellegibile al sensibile?

Per Aristotele la certezza iniziale, originaria e fondamentale non è, come per Cartesio la certezza di esistere, ma la certezza sensibile. Per Aristotele io so di esistere perché ho conosciuto cose che ho attorno a me e davanti a me. Ma chi ha ragione?

Aristotele è ben consapevole che la veracità del senso rende poi possibile la veracità dell’intelletto, non nel senso che il vero intellettuale non sia più certo del vero sensibile, ma nel senso che la veracità dei sensi condiziona e permette all’intelletto di esercitare il suo superiore potere veritativo. Se il senso ingannasse, la verità intellettuale sarebbe impossibile. Se io mi sbagliassi nel giudicare bianca la neve non potrei neppure con l’intelletto conoscere la verità circa la neve e farmi un concetto di neve come sostanza dal colore bianco.

Cartesio, fattosi irragionevolmente la convinzione che i sensi ingannano se usati da soli, crede di poter risolvere il problema del fondamento della verità e della certezza ricorrendo alla coscienza del proprio io, come se fosse l’autocoscienza a dare garanzia e fondamento alla veracità dei sensi.

Aristotele dimostra invece che non è, come credeva Cartesio, l’autocoscienza che rende possibile l’esperienza, ma è l’esperienza che condiziona e consente l’esercizio dell’autocoscienza. Non è, come credeva Cartesio, la verità intellettuale che fonda quella sensibile, ma è questa che fonda e introduce a quella, benché l’oggetto dell’intelletto, la realtà intellegibile, dall’ente fino a Dio, sia molto più importante e certo dell’oggetto del senso.

Occorre conoscere Dio per giudicare delle cose del mondo o è partendo dalle cose del mondo che si arriva conoscere Dio? Questa domanda percorre tutta la storia della filosofia dall’antica Grecia ad oggi e distingue i due massimi filosofi pagani dell’antichità greca: Platone ed Aristotele.

Per Platone io devo guardare alle idee per poter giudicare delle cose sensibili, che ne sono un’immagine, un’imitazione, una partecipazione. Per Aristotele io inizio il conoscere con l’esperienza sensibile, scopro mediante l’astrazione l’essenza universale delle singole cose, mi accorgo che sono mosse e contingenti, per cui concludo che deve esistere un motore e una causa prima immobile e incausata, puro spirito.

Sia Platone che Aristotele ammettono un ente sovrasensibile e spirituale al di là del sensibile. Platone conosceva l’ente di Parmenide, e ne aveva venerazione perché aveva capito che Parmenide aveva scoperto l’ente uno ed eterno, quindi immutabile. Ma Platone, constatando il divenire delle cose sensibili, pensava che per riconoscere queste cose divenienti, apparentemente contradditorie, occorresse negare l’essere eterno di Parmenide. Tuttavia Platone non se la sentì e piuttosto che opporsi a Parmenide, preferì concepire le cose materiali dell’esperienza sensibile come vanità, mere apparenze e intralcio alla libertà dello spirito.

Ci mancava poco che Platone fondasse la metafisica come scienza dell’ente. Occorreva collegare l’ente uno al molteplice, l’immutabile al mutevole, l’eterno al temporale, il contingente al necessario, il sensibile all’intellegibile, il materiale allo spirituale. Ci riuscì Aristotele con la sua concezione analogica dell’ente. Gli sfuggì invece l’essere, l’einai, del quale aveva parlato Parmenide.

Di esso, togliendogli la connotazione monistica, idealista e panteista parmenidea, parla la rivelazione biblica in Es 3,14. E per questo la metafisica di San Tommaso è più elevata e profonda di quella di Aristotele, perché è metafisica dell’essere al di là e al di sopra dell’ente. Ora questa intuizione è del tutto assente nella metafisica di Cartesio e di Kant, che girano tutt’al più nell’orizzonte dell’essenza e non dell’essere, e quindi non si aprono né all’ente né tanto meno all’essere, ma si chiudono nell’autocoscienza, benché si debba comunque ammettere che Cartesio riconosce il sé e Kant ha riconosciuto l’esistenza della cosa in sé.  

L’atteggiamento di Kant nei confronti di Cartesio

 

Il cielo stellato sopra di me.

     La legge morale in me.

                                                                                                                                     Iscrizione sul sepolcro di Kant

L’atteggiamento di Kant nei confronti di Cartesio lascia perplessi ed appare contradditorio. Da una parte infatti è evidente l’influsso di Cartesio su Kant: è chiaro che Kant accetta sostanzialmente la riforma cartesiana della metafisica. Ma dall’altra parte afferma che fino ai suoi tempi la metafisica non era ancora riuscita a costituirsi come scienza.

Ma allora Cartesio che cosa aveva fatto? Si potrà dire che Kant non accetta la riforma cartesiana esattamente così com’è, ma apporta delle modifiche. È possibile che egli abbia voluto migliorarla e rafforzarla. Certamente tutti gli storici della filosofia sanno che l’idealismo kantiano si allontana ancor di più dal realismo aristotelico e prepara la fase piena  dell’idealismo che sarà raggiunta da Hegel.

Il cammino dell’idealismo consiste infatti in un progressivo spostamento degli attributi dell’oggetto (l’ente) a proprietà del soggetto (l’io), sicchè alla fine l’oggetto scompare e resta solo il soggetto che ha ingoiato (l’«immanenza») tutti gli attributi dell’oggetto. È per questo che l’idealismo conclude o nell’ateismo o nel panteismo, o attribuendo all’uomo ciò che appartiene a Dio e rendendo quindi Dio inutile o identificando l’uomo con Dio.

Cartesio rimane impegolato nelle idee confuse di Suarez

Cartesio, sulla scorta della distinzione suareziana fra conceptus formalis e conceptus obiectivus distingue una «realtà formale» delle idee da una «realtà oggettiva» delle idee[1]; ma così succede come in Suarez, che l’intelletto coglie il concetto oggettivo della cosa, il contenuto del concetto, che però resta distinto dal concetto formale della cosa, sicchè resta il problema di come l’intelletto raggiunge la cosa, il problema, cioè, di come fa il concetto formale, atto dell’intelletto, a diventare oggettivo, se questo rappresenta l’oggetto ovvero la cosa?

Come passare dal primo al secondo? Suarez sembra non vedere che non si tratta di due concetti, che finiscono per sdoppiare l’oggetto del conoscere, ma è il medesimo concetto che è formale in dipendenza dall’intelletto ed è oggettivo in dipendenza dalla cosa.

Manca cioè in Suarez l’intenzionalità del concetto per la quale l’intelletto coglie la cosa, sia pur per mezzo del concetto. Questo problema non c’è nella gnoseologia aristotelica, perché qui è vero che il concetto è prodotto dall’intelletto, ma il concetto è similitudine della cosa, per cui nell’atto dell’intelligere l’intelletto in atto s’identifica intenzionalmente (non realmente) con l’atto stesso dell’ente conosciuto.

Dice Suarez: «si dice concetto oggettivo quella cosa (res illa) o ragione che viene conosciuta o rappresentata – propriamente o immediatamente – per mezzo del concetto formale», Disputationes metaphysicae,, disp. II, sectio I. Dunque il concetto oggettivo o oggetto o contenuto del concetto è una res interna che rappresenta una res esterna.

Ma come passiamo dalla res interna all’esterna? Se il concetto oggettivo è «res illa vel ratio quae proprie et immediate cognoscitur», se già lui rappresenta immediatamente il concetto oggettivo, cioè l’oggetto del conoscere, come può dire Suarez nel contempo che il «conceptus formalis repraesentat rem cognitam»? Che bisogno c’è di ammettere una cosa fuori della mente come oggetto della conoscenza? Oggetto del sapere sono le cose o sono le idee?

Bisogna scegliere. Invece Suarez vuol mettere d’accordo due cose che si escludono a vicenda. Infatti o il concetto rappresenta la cosa o il concetto (formale) rappresenta il concetto (oggettivo). Se la cosa immediatamente rappresentata dal concetto è ancora un concetto, un’entità mentale, nascono tre false possibilità i cui termini sono assurdi: 1) o l’oggetto del sapere è semplicemente il concetto (o idea) 2) o non abbiamo il modo di rappresentare e raggiungere cose fuori della mente 3) oppure non sappiamo se esistono cose fuori della mente e allora bisogna dimostrarlo.

Già San Tommaso[2] aveva evitato questo pasticcio ponendo, come suo solito, con chiarezza i termini del problema: o l’oggetto del conoscere è la realtà (res) o sono le idee (species). Non c’è alternativa o terza possibilità tra realismo e idealismo, ed è doppiezza volerli tenere assieme. Tommaso dimostra, allora, seguendo la critica di Aristotele a Protagora, che è assurdo pensare che oggetto di conoscenza siano le idee (species). Invece sono le cose fuori della mente. Le idee possono e debbono, nella scienza logica, diventare oggetto di conoscenza, ma solo dopo che per mezzo di esse abbiamo conosciuto le cose.

Tutta la artificiosa problematica di Cartesio è già posta. Egli ha tanti dubbi perché è rimasto confuso dalla gnoseologia di Suarez e pretende di venirne fuori con quella stessa gnoseologia che lo ha messo nei guai. In tal modo per gli idealisti Cartesio è diventato il fondatore della «filosofia moderna», per cui secondo loro o si pensa come Cartesio o non si pensa.

C’è da dire invece che il contenuto del concetto non è una res che rappresenta un’altra res, non è un segno strumentale, ma è, come dice Giovanni di San Tommaso, un segno formale intenzionale della res fuori dell’anima. Così non c’è da chiedersi se e come il concetto la raggiunge e la concepisce, perché il concetto è la cosa stessa, come diceva Hegel, «nell’elemento del pensiero», la cosa in quanto conosciuta. È solo con una riflessine successiva (secunda intentio) che l’intelletto fa oggetto del suo sapere il concetto della cosa (prima intentio). E allora abbiamo la logica. In Kant a questa separazione fra il conceptus formalis («realtà formale», idea come rappresentazione) e conceptus obiectivus («realtà oggettiva», idea come oggetto) corrisponde rispettivamente la forma a priori e il fenomeno.

Giovanni di San Tommaso, tomista del sec. XVII, spiega, contro la teoria cartesiana delle idee che, sulla scorta di Suarez, separa l’idea (concetto) dalla cosa[3],  che il concetto è un segno formale[4] della cosa stessa, vale a dire che tutto l’essere del concetto si esaurisce nel significare o rappresentare; esso non ha un essere e un significato per conto proprio come il segno strumentale, che viene concepito a parte per primo e poi rimanda alla cosa  significata, così come il fumo è il segno del fuoco. 

Invece nella conoscenza le cose non stano così: noi conosciamo la cosa nell’atto stesso di formare il concetto della cosa, per mezzo del concetto (quo) noi conosciamo la cosa non dopo aver conosciuto il concetto, ma nel concetto stesso (in quo) vediamo la cosa, anche se è vero che il concetto è un prodotto dell’intelligere e che conoscere non è esattamente la stessa cosa che concepire, anche perché può esistere una conoscenza non mediata dal concetto, come è la conoscenza che l’anima ha di se stessa[5]. Per questo il concetto stesso (quod), nella logica, diventa a sua volta, come ente di ragione, oggetto del sapere.

Da Cartesio a Kant

L’«io penso» (Ich denke überhaupt) di Kant, prodotto dell’«appercezione originaria»[6] o «autocoscienza»[7] è certamente un lascito cartesiano, anche se Kant non lo dice. Tuttavia non so fino a che punto questa autocoscienza coincide veramente con l’io penso cartesiano, che, come ho dimostrato nei miei studi, è un «io dubito», perché, come il dubbio, non ha oggetto, cioè non è un «penso qualcosa», ma semplicemente penso; ora è proprio del dubbio un pensare senza oggetto, perché il dubitare è l’oscillazione fra due oggetti contrari, il sì e il no, sicchè il pensiero, non fissandosi né sull’uno né sull’altro, viene a mancare dell’oggetto. Cartesio infatti non risolve i dubbi artificiosi che egli pone come introduzione e giustificazione del cogito, quindi essi restano tutti in atto nel cogito e celati sotto il cogito.

Quindi la certezza cartesiana non è una certezza accettata, ma una certezza voluta, quindi forzata. L’intelletto non è necessitato, perché il dubbio resta. Allora la volontà lo risolve per forza decidendosi per una delle due alternative, ma lasciando aperta l’altra. Di fatto, poi, come può Cartesio mostrarsi così certo nelle sue teorie fisiche e matematiche e nelle sue stesse affermazioni filosofiche? Semplicemente perché mette da parte l’idealismo, che gli serve per respingere la fondazione realista del sapere, ed usa il realismo che gli serve per ottenere successo nelle scienze.

Niente di tutto questo nell’io penso kantiano, il cui oggetto è semplicemente l’io o spirito che pensa se stesso o la ragione che pensa se stessa, perché tale per Kant è l’oggetto della metafisica, come egli dichiara nella solenne conclusione dei Prolegomeni[8], che si possono considerare il messaggio conclusivo e la chiave di lettura di tutto il lungo travaglio della Critica della ragion pura.

I Prolegomaeni sono un libretto di piccola mole a confronto del grosso volume della Critica, ma che si può considerare la parola finale di Kant sul gravissimo problema della metafisica, una parola che, lungi dal voler affossare ls metafisica, come taluni lo accusano di fare, la afferma più che mai, certo non più in chiave aristotelica ma cartesiana, destinata a un disastro, come apparirà nei secoli seguenti, eppure non priva qui di un patetico afflato spirituale. Dice Kant:

 

«per mezzo della critica si fornisce al nostro spirito un’unità di misura con la quale si può distinguere con sicurezza il vero sapere dall’apparente; e questa, raggiungendo nella metafisica il suo pieno uso che estende poi il suo benefico effetto su ogn’altro campo della ragione e ispira ora il vero spirito filosofico. Ma anche il servizio che essa presta alla teologia rendendola indipendente dal dalla speculazione dogmatica e mettendola perciò affatto al sicuro dagli attacchi di tali avversari, non è certamente disprezzabile»[9].

Inoltre l’io kantiano ha ancora alla maniera realistica davanti a sé la cosa in sé sperimentabile come fenomeno ed indipendente da lui e deride la pretesa di dimostrare l’esistenza delle cose esterne, evidente allusione a Cartesio, benché poi, come sappiamo, egli dichiari bensì pensabile ma inconoscibile l’essenza della cosa in sé, mentre il realismo tomista pone ad oggetto proprio dell’intelletto umano proprio la qiuidditas rei materialis.

In Cartesio non c’è ancora il concetto kantiano del fenomeno, ma la sua teoria delle idee innate lo prepara. Esse, è vero, sono rappresentazioni delle cose, ma non sono tratte dalle cose secondo il metodo aristotelico: sono donate da Dio alla nostra mente sin dalla nostra nascita, come avviene negli angeli.

Alle idee cartesiane corrispondono le «forme a priori» kantiane, che però non sono oggetti o contenuti mentali distinti dall’intelletto, come in Cartesio, ma forme appartenenti alla natura stessa dell’intelletto: non sono forme delle cose rappresentative delle cose, ma sono forme che danno forma all’oggetto, il fenomeno, la cui forma pertanto non rispecchia la forma della cosa, ma dell’intelletto, mentre il fenomeno trae la sua «materia» dal contatto sensibile con la cosa. Kant trasporta indebitamente nell’atto del conoscere la dualità materia  e forma che appartengono alla cosmologia. Niente di simile in Cartesio, il quale mantiene la concezione realistica del concetto (idea) come rappresentazione della cosa.

Kant ci tiene poi a dire che l’apparire non è il sembrare (Schein), e distingue il fenomeno (Erscheinung), che è apparire, manifestazione, rivelazione, quindi verità dalla semplice apparenza, il sembrare, legata all’opinione, la quale può essere falsa. Kant dice che il fenomeno, in quanto termina il nostro conoscere, ovvero l’apparire, è l’apparire di qualcosa. Se non ci fosse quel qualcosa non ci sarebbe neppure l’apparire.

Anche Kant parla di «idee», ma sono le «idee della ragione: l’idea di Dio, dell’anima e del mondo». Invece le idee per Cartesio riguardano tutte le cose e sono rappresentazioni delle cose.

Quelle che Cartesio chiama idee «innate» sono le categorie di Aristotele, che saranno poi riprese da Kant in chiave idealistica. Kant però – e qui egli si aggancia alla logica del realismo – distingue concetto da idea, cosa che Cartesio non fa, riducendo tutto ad idea, e in tal senso Cartesio è più idealista di Kant.

Kant non nega il valore rappresentativo del concetto, che Cartesio attribuisce alla «idea», solo che per Kant esistono – cosa del tutto assente in Cartesio - concetti «vuoti», che sarebbero le categorie e concetti pieni o empirici, che sarebbero i contenuti dei fenomeni come apparire della cosa o sarebbero gli stessi fenomeni in quanto modificazione del soggetto, ma aventi comunque valore oggettivo e scientifico. Come ciò è possibile? Qui abbiamo un’invenzione di Kant del tutto assente in Cartesio.

Kant non si ferma a dire che il concetto è una rappresentazione, ma parla anche del concetto come «forma a priori», che sarebbe il «concetto puro», che diventa «empirico», quando è «riempito» col materiale «a posteriori» proveniente dall’esperienza. Niente di tutto ciò troviamo in Cartesio.

Così pure Cartesio non parla dell’idea (concetto) come forma. Per Cartesio come per Kant è impossibile partendo da una conoscenza a posteriori arrivare alla conoscenza a priori. Invece per Aristotele è vero l’inverso: è basandosi su ciò che è «dopo» ossia partendo dall’esperienza e dalla fisica che l’intelletto arriva a ciò che sta «prima», alla metafisica. Chi ha ragione?

Anche questa volta la palma va ad Aristotele. Egli infatti dimostra che il sapere empirico, ossia il sapere fisico, che parte da ciò che è ontologicamente dopo, ossia che vale di meno, temporalmente, nello sviluppo del sapere, viene prima del sapere di ciò che è prima in senso ontologico o assiologico, cioè la metafisica. Solo il sapere divino parte da ciò che viene prima, lo Spirito assoluto, per sapere ciò che assiologicamente è dopo, il livello empirico dell’ente, oggetto del sapere fisico.

Sia Cartesio che Kant perdettero di vista il fatto che il sapere deduttivo, puramente razionale, a priori, è preparato e introdotto dal sapere induttivo, a posteriori, che parte dall’esperienza. È vero che io per giudicare del valore di una cosa dell’esperienza, devo prima (a priori) possedere l’ideale o il modello di quella cosa che conosco a posteriori, cioè per esperienza.

Aristotele aveva già dimostrato che il sapere deduttivo («a priori») è raggiunto a partire dal sapere induttivo («a posteriori», dall’effetto alla causa) e da esso è tratto e quindi è raggiunto temporalmente dopo il sapere induttivo, sicchè l’ordine dell’essere è per noi l’inverso dell’ordine del nostro sapere. Noi cominciamo col conoscere le cose meno importanti, quelle più basse, terrene, materiali (fisiche). Solo dopo un affinamento del nostro conoscere ci eleviamo alla conoscenza di quelle più alte, celesti, spirituali e divine (metafisica e teologia).

Noi troviamo il fondo della realtà cominciando con lo scavare alla superficie (fisica), perché noi viviamo alla superficie, benché possediamo uno spirito capace di andare a fondo. Ma se non ci diamo da fare a scavare in profondità (metafisica), restiamo alla superficie credendo magari che tutta la realtà si esaurisca in ciò che vediamo alla superficie. Oppure, se sentiamo il bisogno di trovare il fondamento o il perchè di ciò che ci dicono i sensi, possiamo correre il rischio di rimanere al livello di una conoscenza puramente animale. Certamente la fisica è fondata sulla metafisica e in ciò Cartesio aveva ragione. Non però nel senso che per sapere che le cose esistono, dobbiamo esser consapevoli del nostro esistere.

Questa dottrina aristotelica viene ripresa da San Tommaso d’Aquino, il quale indica due modalità o metodi di giudicare o di arrivare alla verità: il iudicium inventionis o via inventionis e il iudicium resolutionis o via iudicii[10], corrispondenti rispettivamente all’induzione e alla deduzione della logica aristotelica. Col primo giudizio noi partendo dall’esperienza ci eleviamo alla conoscenza delle realtà superiori. Col secondo giudichiamo delle realtà inferiori in base a quelle superiori.

Kant inoltre, a differenza di Cartesio, affronta la questione della dialettica, opera propria della ragione, tema già affrontato da Aristotele. Ma Kant non la intende come Aristotele, che vedeva in essa l’arte di tentare soluzioni a un problema mediante discussione di due tesi contrarie – oggi diremmo il dialogo[11] -. Per cui sul momento si resta nel probabile od opinabile, ma non è escluso che proprio attraverso il confronto delle tesi contrarie la ragione possa giungere alla scienza certa ed oggettiva.

Kant invece intende la dialettica come apparenza illusoria indotta nella ragione da un ragionare apparentemente giusto ma in realtà fallace. La confonde con la sofistica. Ma poi non si ferma qui. Egli parla di un’dialettica trascendentale della ragione, un errore metafisico della ragione speculativa, che solo può essere svelato e confutato dalla sua critica della ragion pura. Arriva persino a parlare del «baratro della ragione»[12]. E quale sarebbe questa illusione? Appunto il metodo della metafisica di Aristotele di dimostrare l’immortalità dell’anima, l’eternità del mondo e l’esistenza di Dio partendo dall’esperienza sensibile ed applicando ol principio di causalità.

La teoria di Kant ricorda curiosamente la tesi luterana della corruzione radicale della ragione, che porta Lutero a rifiutare la metafisica di Aristotele. Che sia una traccia di Lutero nella mente di Kant? Non si può escludere. Tuttavia, egli, contro Lutero, vuol sostenere il valore della metafisica. Egli va incontro a Lutero nel senso che rifiuta la metafisica di Aristotele. Ma ecco la pretesa di accogliere la concezione cartesiana della metafisica come coscienza del proprio esistere. Non sembra di assistere alla elaborazione di una metafisica della coscienza che sarebbe piaciuta Lutero? Quale somiglianza col concetto luterano di coscienza!

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 novembre 2024

Il contenuto del concetto non è una res che rappresenta un’altra res, non è un segno strumentale, ma è, come dice Giovanni di San Tommaso, un segno formale intenzionale della res fuori dell’anima.

Per Cartesio come per Kant è impossibile partendo da una conoscenza a posteriori arrivare alla conoscenza a priori. Invece per Aristotele è vero l’inverso: è basandosi su ciò che è «dopo» ossia partendo dall’esperienza e dalla fisica che l’intelletto arriva a ciò che sta «prima», alla metafisica. Chi ha ragione?

Anche questa volta la palma va ad Aristotele. Egli infatti dimostra che il sapere empirico, ossia il sapere fisico, che parte da ciò che è ontologicamente dopo, ossia che vale di meno, temporalmente, nello sviluppo del sapere, viene prima del sapere di ciò che è prima in senso ontologico o assiologico, cioè la metafisica. Solo il sapere divino parte da ciò che viene prima, lo Spirito assoluto, per sapere ciò che assiologicamente è dopo, il livello empirico dell’ente, oggetto del sapere fisico.

Noi troviamo il fondo della realtà cominciando con lo scavare alla superficie (fisica), perché noi viviamo alla superficie, benché possediamo uno spirito capace di andare a fondo.

Questa dottrina aristotelica viene ripresa da San Tommaso d’Aquino, il quale indica due modalità o metodi di giudicare o di arrivare alla verità: il iudicium inventionis o via inventionis e il iudicium resolutionis o via iudicii, corrispondenti rispettivamente all’induzione e alla deduzione della logica aristotelica. Col primo giudizio noi partendo dall’esperienza ci eleviamo alla conoscenza delle realtà superiori. Col secondo giudichiamo delle realtà inferiori in base a quelle superiori.

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[1] Meditazioni metafisiche, Edizioni Laterza, Barin 1968, pp.100-101.

[2] Sum. Theol., I, q.85, a.2.

[4] J.Maritain, Quattro saggi sullo spirito umano nella sua condizione d’incrnazione, .Morcelliana, Brescia 1978. C.II.

[5] S.Tommaso, Opusc.De Veritate, q.8,a,10.

[6] Critica della ragion pura, op.cit., p.137.

[7] Ibid.

[8] Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Carabba Editore, Lanciano 1924.

[9] Op. cit., Lanciano 1924, p.156.

[10] Vedi B. Garceau, Iudicium. Vocabulaire, sources, doctrine de Saint Thomas d’Aquino, Vrin, Paris 1968, pp.47-49.

[11] La cui etimologia dia-lego, «parlo-attraverso» è appunto la stessa di dialettica.

[12] Critica della ragion pura, op.cit., p.491.

1 commento:

  1. Per Kant la conoscenza è l’incontro tra il materiale empirico che proviene dall’esterno e le forme a priori dell’Io, dunque noi non potremmo mai conoscere la cosa in sé ma solo il suo apparire come fenomeno. La realtà in sé è pensabile, ma non conoscibile: noumeno.
    Kant contesta la metafisica tradizionale secondo la quale il soggetto doveva ruotare intorno all’oggetto egli ritiene che non sia il soggetto che conoscendo, scopre le leggi dell’oggetto, ma che viceversa, sia l’oggetto che si adatta, allorché viene conosciuto, alle leggi del soggetto che lo riceve conoscitivamente.
    Chi si rifà invece ad una concezione metafisica realista non può accettare questo tipo di approccio alla conoscenza in quanto l’intelletto umano per mezzo dell’apprensione, attraverso i sensi coglie per prima cosa la presenza degli enti, di una realtà esprimendo così il primo giudizio veritativo: le cose sono rendendo così esplicito ciò che è implicito nell’apprensione di una cosa. La conoscenza non è il risultato di una nostra rappresentazione di un mondo di fenomeni, come sostiene Kant, ma è l’emerge di un concreto esistente percepito dai sensi e appreso razionalmente dal nostro intelletto, che non rende intelligibile le cose, ma sono le cose che posseggono in se stesse, per loro essenza, per il loro atto di esistenza propria, l’intelligibilità necessaria per poter essere conosciute.
    Personalmente sono convinto che soltanto su una base metafisica realista l’intelligenza umana sia in grado di riconoscere ed accogliere una Verità trascendente, divina, una Parola di Verità che si fa carne, entra nella nostra realtà, assume e parla il linguaggio umano per farsi comprendere, per donarci la verità piena e definitiva sul senso e significato, sul destino e il compimento, dell’uomo, del mondo e dell’intero universo.
    Don Vincenzo

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