La rivoluzione copernicana di Kant
e il cogito di Cartesio
Terza Parte (3/3)
L’oggetto della metafisica
Cartesio ha ristretto l’oggetto della metafisica dall’ente nelle sua infinita vastità e varietà, come aveva fatto Aristotele, al mio esistere, cosicchè adesso bisognava trovare tutto nel mio io, mentre con Aristotele la realtà va ben al di là del mio io.
Kant da una parte recupera il valore della cosa in sè extramentale, ma nel contempo, accettando l’io penso cartesiano, chiude l’intelletto nell’io in modo tale che non riesce più ad uscire per cogliere l’ente, e allora a Kant resta come oggetto della metafisica soltanto l’autoanalisi della ragione da parte di se stessa.
Il pregio di Kant, comunque, è che sa che la ragione è spirito, ma a causa della autochiusura nell’io, resta bloccato per quanto riguarda il problema dell’esistenza di Dio, per cui egli riduce Dio a un’Idea della ragione. Invece Cartesio, che pretende di fondare ed estrarre il realismo dall’idealismo, con prodigiosa mossa rocambolesca e sorpresa consolante di tutti[1], tira fuori la colomba del realismo dal cappello dell’idealismo. Per questo alla fine Cartesio conclude con Aristotele che Dio esiste veramente fuori dell’anima.
Osserviamo inoltre che per quanto riguarda l’oggetto della metafisica, mentre Cartesio mantiene come oggetti l’anima, il mondo e Dio, Kant fa di questi tre interessi delle Idee della ragione.
Quanto all’anima umana, mentre Cartesio mantiene l’immortalità dell’anima, Kant parla di «spirito», principio dell’intelletto, della ragione, dell’autocoscienza, del sapere e della volontà. Invece intende l’anima in un senso fenomenico, per cui sostiene che non se ne può dimostrare l’immortalità. In tal senso per Kant l’anima non può essere oggetto della metafisica, mentre intesa come spirito, essa resta anche in lui oggetto della metafisica, che è la scienza per la quale la ragione conosce sé stessa.
Invece Cartesio mantiene il concetto di anima intesa come spirito, ma, come è noto, neppure per Cartesio l’anima è forma sostanziale del corpo, bensì è sostanza, ossia come res cogitans. Egli parla solo della forma dei corpi, che poi si risolve ad essere la loro figura o sagoma visibile, misurabile estesa e tridimensionale, meccanicamente interpretabile.
Quanto al mondo, in Cartesio, come è noto, diventa la res extensa, per cui la sostanza materiale perde la materia sensibile e la sua finalità, diventa un corpo matematico meccanizzato; da ente reale passa ad ente di ragione, preparando così l’idealismo immaterialista di Berkeley. In Kant il mondo è visto con gli occhi di Newton, per cui in linea con Cartesio, manca anche in lui del suo valore ontologico, per cui il mondo viene espulso dalla metafisica e relegato al solo ambito della fisico-matematica.
Quanto alla cosa, il trascendentale della res, come oggetto dell’intelletto, per Kant, come nel realismo, essa esiste in sé data a me, davanti a me e non prodotta da me, ma, come è noto, la sua essenza mi è sconosciuta, per cui non posso farne oggetto della metafisica. Fichte, come si sa, propose a Kant di concentrare l’attenzione soltanto sull’io, e di eliminare la cosa in sé, la quale, essendo sconosciuta, appariva un’assurdità. Per Fichte la cosa in sé doveva essere inserita nell’orizzonte dell’io come «posta», ossia prodotto dell’io. Invece Kant si oppose nettamente a questa proposta, il che mostra come egli, benché considerasse la cosa inconoscibile, restava ancora fedele al realismo.
Tuttavia, come si sa – e qui vien meno il realismo - per lui la cosa, in quanto inconoscibile, non serve affatto per dimostrare l’esistenza di Dio. Per questo, benché essa sia reale ed offra ai sensi la materia del fenomeno, noi sappiamo se essa è creata.
Il vero metodo della metafisica
Disce elevare ingenium,
aliumque rerum ordinem ingredi
Card. Tommaso De Vio, detto Gaetano
Il puro ente, oggetto della metafisica, diventa per Tommaso oggetto dell’intelletto solo al terzo grado di astrazione, quello del sapere metafisico[2]. Occorre cioè che la mente, superando od oltrepassando in certo modo sé stessa e la sua finitezza, salga o si elevi o s’innalzi dalla considerazione delle cose sensibili, basse, minime, umili, terrene, materiali alla considerazione di quelle più importanti, massime, alte, sublimi, celesti, spirituali, divine, puramente intellegibili.
Come ciò è possibile e come va inteso? Come faccio a causare qualcosa che va oltre le mie forze e i miei limiti? Non è, questa, presunzione e superbia? Non si tratta di questo. Non deve aumentare il mio essere, ma il mio sapere. Non diventare ma conoscere ciò che mi supera. Così m’innalzo nel sapere non nel mio essere, che rimane sempre finito. Questa non è superbia ma umiltà, in quanto adeguo il mio intelletto alla realtà. Occorre tuttavia aggiungere, certamente, forza d’animo e coraggio, altrimenti, se amo le comodità e sono uno scansafatica, me ne resto a terra.
Se invece il soggetto decide di aquiistare la sapienza il suo intelletto inizia la sua scalata, ossia la sua’attività con l’astrarre l’essenza universale dal particolare o individuale empirico, per cui coglie l’ente esistente, mobile. quantitativo e sensibile, ossia la sostanza materiale. Questo è il grado del sapere fisico.
Nel secondo grado di astrazione l’intelletto astrae dal divenire e dall’empiricità dell’ente, per considerare l’ente solo sotto il profilo della quantità, dell’estensione o della tridimensionalità dei corpi. Abbiamo allora un ente puramente astratto, puramente ideale, privo dell’esistenza reale esterna alla mente, un ente ancora materiale ma di una materia solo immaginabile, non realmente esistente fuori della mente, un ente intellegibile intramentale, un ente di ragione. È questo l’ente matematico, oggetto della matematica.
Si tratta dell’ens quantum, oggetto di per sé della matematica, ma utilizzato metodologicamente anche dalla fisico-matematica, e qui Cartesio insegna. Alla fisico-matematica la materia appare formalizzata, determinata, strutturata, legalizzata, intellegibile, calcolabile e misurabile nelle sue proprietà legate alla quantità.
Al terzo grado di astrazione l’intelletto non si limita ad una semplice apprensione concettuale dell’ente comune o universale, che astrae da ogni materia, ma formula un giudizio esistenziale[3] per il quale distingue la sostanza materiale da quella spirituale e quindi formula un concetto analogico dell’ente esistente che abbraccia in sé sia la materia che lo spirito. Si tratta di cogliere l’essere come atto dell’ente. Ora né Cartesio né Kant sono giunti a tanto, ma si sono fermati: Cartesio al mio esistere e Kant all’io penso, il mio spirito o la mia ragione.
L’io trova il suo fondamento volgendosi non a se stesso, ma al tu divino.
Chi si esalta sarà umiliato
Lc 14,11
In questa duplice attività conoscitiva e morale l’uomo, come dice Sant’Agostino, «trascende se stesso», và, in certo modo, oltre se stesso, supera se stesso, tende verso l’alto, verso Dio, fino a raggiungerlo o possederLo nella visione beatifica.
Cartesio ammette con la teologia naturale, la trascendenza di Dio, Dio creatore del mondo ed esterno alla nostra anima; ma lo fa sulla base del cogito nel quale, come è noto, è contenuta l’idea innata di Dio. Egli così crede di poter recuperare e fondare il realismo sul cogito: un’operazione che rovescia il processo naturale del nostro conoscere, per il quale noi in realtà non partiamo dall’autocoscienza per fondare la conoscenza delle cose, ma partiamo dalla conoscenza sperimentale delle cose per giungere all’autocoscienza e da lì elevarci alla conoscenza di Dio come creatore delle cose e della nostra autocoscienza.
Kant accentua l’apriorismo idealista e immanentizzante cartesiano e non ha alcuna intenzione come fa Cartesio di recuperare il realismo metafisico, perché ritiene ciò un’impresa che dev’essere definitivamente abbandonata. Per Kant le cose esterne indubbiamente esistono ma non ha senso considerarle come prove dell’esistenza di Dio. Così in Kant Dio è una semplice Idea della Ragione speculativa e – come è noto - non è considerato realmente esistente come ente supremo personale, ma soltanto un postulato richiesto dalla ragion pratica non al fine di essere fondata, ma per consentirle di fondare sé stessa.
Il movimento agostiniano verso l’io, del quale ho parlato sopra, non ha nulla a che vedere col moto del cogito cartesiano, che chiude l’io talmente in se stesso che Cartesio si trova obbligato a dimostrare che esistono altre cose oltre a lui. Ad Agostino e allo stesso Kant questa ipotesi di Cartesio sarebbe apparsa semplicemente assurda.
Infatti, se io parto dalla convinzione che oggetto immediato e iniziale del mio sapere non sono le cose, ma idee che si spacciano per immagini di cose fuori di me, come faccio a sapere se queste idee sono veraci, se non so per ipotesi se ci sono o no cose al là di esse? Come faccio a sapere che le idee che ho di cose fuori di me e che si presentano come loro rappresentazioni corrispondono o no a ciò che dicono di rappresentare? Come faccio a saperlo, se non ho la possibilità di controllare e di confrontare quelle idee con le cose esterne?
Dunque, osserva giustamente il Gilson[4], o io contatto immediatamente le cose esterne come criterio di verità e inizio e fondamento di tutto il mio sapere, e allora posso riflessivamente riconoscere di conoscerle nei concetti che me ne sono fatto e sapere se le mie idee sono o non sono giuste, ossia aderenti alle cose.
Oppure io parto dal cogito cartesiano, considerando come oggetto immediato le idee innate di cose senza sapere se queste idee sono vere, cioè adeguate alle cose, delle quali non so nulla, e allora le cose non le raggiungerò mai, non conoscerò mai la verità, perché non ho modo di controllare la veracità delle mie idee, basandomi sulle cose delle quali per principio non so se esistono o non esistono.
In poche parole: o io so che quello che ho in me corrisponde a ciò che è fuori di me perché posso vedere e controllare ciò che è fuori di me, e allora posso verificare se le mie idee sono giuste o sbagliate. O io non so se ciò che ho in me corrisponde o no a qualcosa fuori di me, e allora non potrò mai uscire da me per conoscere la verità, sapere che cosa c’è fuori e se le mie idee rispecchiano o no ciò che c’è fuori.
Il tentativo di Cartesio di uscire dalla prigione dell’io ricorrendo al princìpio di causalità e alla veracità divina sono vani: il primo, perché io posso applicare questo principio solo se presuppongo che fuori d me c’è qualcosa, che possa essere la causa di ciò che avviene dentro di me. Ma è proprio questo che si tratta di dimostrare, per cui si cade in un circolo vizioso.
Quanto alla veracità divina, si pretende di dar per scontato proprio ciò che si vuol dimostrare e quindi siamo daccapo: posso ammettere certo che Dio mi assicuri della veracità del mio giudizio. Ma per poter ammettere questo, devo supporre al di fuori di me l’esistenza di Dio e per dimostrare tale esistenza devo partire dalle cose esterne: per ea quae facta sunt (Rm 1,20). Ma è proprio l’esistenza delle cose che si tratta di dimostrare.
Kant non cade in questa trappola perché egli, col buon senso comune, sa bene che la cosa in sé è fuori di me, per cui la sua teoria de fenomeno come oggetto del sapere, ricavato dall’esperienza della cosa in sé, ha una sua relativa attendibilità, anche se Kant commette l’errore di porre la forma del fenomeno nell’intelletto e non nello stesso fenomeno. Tuttavia, almeno in Kant, anche se interviene una forma soggettiva, la forma a priori, è possibile un rimando oggettivo fuori dell’intelletto alla cosa in sé; il fenomeno non è, come in Cartesio, l’idea innata isolata dalla realtà: il fenomeno in Kant è la stessa cosa in sé così come appare a me.
L’immanentizzazione della realtà esterna nell’io in Cartesio come in Kant conduce alla soppressione del rapporto interpersonale, sociale e con Dio. L’alterità non è più l’alterità reale, ma è l’alterità pensata. Il tu non è più il tu reale extramentale, ma è il tu-pensato-da-me, tu intramentale.
È chiaro come in Fichte, erede di Cartesio, il tu è nell’orizzonte dell’io, è ricondotto all’’io, alla misura dell’io, alle condizioni poste dall’io. Come non vedere qui la giustificazione del più assoluto egoismo, al di là di ogni artificiosa «intersoggettività», che comunque sempre ricade nell’orizzonte intrascendibile della «soggettività»?
Un esempio del secolo scorso del vano tentativo di conciliare l’ego cartesiano con una reale pluralità delle persone è quello di Husserl dichiaratamente cartesiano, il quale si dibatte con un discorso ingarbugliato senza nulla risolvere fra il «dentro» dell’io e il «fuori» degli altri io[5]. Se l’io è l’Assoluto, come faranno ad andare d’accordo una molteplicità di io? Se io sono l’Assoluto e il tu è relativo a me, anche per lui io sarò per lui relativo a lui, che si ritiene l’Assoluto. E allora come la mettiamo? Chi h ragione?
Anche Agostino è colpito dal dubbio circa la veracità dei sensi e dell’intelletto[6]. Egli ne esce col suo famoso, «si fallor, sum», che può sembrare simile al cogito cartesiano, ma che in realtà se ne stacca perché Agostino ha sempre davanti un contenuto di pensiero, un giudizio sia pure erroneo, mentre Cartesio, come ho detto in più occasioni, davanti al suo cogito non ha nulla, perché non è un vero cogitare, ma un dubitare.
La libertà di Agostino da questa prigionia dell’io di se stesso è attestata dai suoi Soliloqui o dalle Confessioni, dove stupendo è il suo dialogo con Dio, commoventi sono le sue preghiere e le sue calde effusioni affettive. Se egli non avesse visto Dio come un Tu, ma lo avesse ridotto al suo io, come fece Kant, che si rifiutò di pregare Dio anche in punto di morte, come avrebbe potuto avere quegli straordinari colloqui con Dio, che lo hanno reso impareggiabile maestro di preghiera, al di sotto soltanto del Salmista biblico?
Dobbiamo a questo punto conclusivamente osservare che tutto il millenario dibattito fra realismo ed idealismo non è motivato in entrambi i dialoganti da un semplice e sincero bisogno di verità, ma nell’idealista nasconde un ben preciso interesse pratico: il rifiuto di assoggettare la propria volontà a quella di Dio e la volontà di fare la propria.
Tutta la retorica idealista dello spirito, della ragione, del pensiero, dell’io, dell’interiorità, dell’essere, dell’esperienza, della coscienza e dell’autocoscienza nasconde e presuppone nell’idealista questa opzione fondamentale della volontà. È chiaro che se io riconosco delle cose fuori di me che non ho creato io, mi porrò anch’io tra le cose create e scoprirò Dio che ci ha creati. Ma se io parto da me stesso, mi fondo su me stesso, giro su me stesso, ordino tutto e finalizzo tutto a me stesso, è chiaro che di Dio non so che farmene, salvo che non sia io stesso a mettermi al suo posto, sicchè sarà vero quello che diceva Rousseau: «obbedisco a me stesso».
Va bene, ma allora gli idealisti non mi vengano a parlare di «verità», perché la verità è adaequatio intellectus et rei e facciano attenzione che – come già li avverte Aristotele - nel momento in cui sostengono i loro sofismi sono costretti a fare appello alla verità. E se la verità è la rivelazione dell’essere, ciò sarà vero in forza dell’adaequatio intellectus et rei.
Il dibattito realismo-idealismo non è questione sostanzialmente teoretica, ma una questione morale: quella del valore dell’agire umano, dell’uso della volontà, quella del rapporto dell’uomo con Dio, dell’obbedire o no a Dio, quella della felicità umana, del fine ultimo e del sommo bene dell’uomo.
L’assurdità dell’idealismo è la pretesa di un ente contingente, l’uomo, di essere l’ipsum esse per se subsistens. È la stoltezza di non riconoscersi creati da Dio, ma la pretesa di creare o fondare sé stessi, di essere fondati su se stessi, di sostituirsi a Dio o di essere «come Dio» (Gen 3,5). L’idealismo nasce dalla superbia e porta alla superbia.
Kant accusa di orgoglio il metodo della metafisica aristotelica di elevarsi per gradi di astrazione dal sensibile al sovrasensibile. Non si accorge di quanto orgoglio dà prova lui considerando la ragione umana non come partecipazione di quella divina, creata da Dio, ma come fondata su se stessa, dando spazio alla ragione hegeliana per la quale il reale è il razionale e il razionale è il reale. E Cartesio si comporta forse diversamente quando per finta umiltà asserisce di dubitare di tutto, per poi dichiarare come certissimo e fondamento di ogni sapere il contenuto del suo cogito? È, questa, umiltà?
La superbia fa sì che il superbo trovi soddisfazione nella sua superbia. La superbia è il piacere di fare la propria volontà disobbedendo a Dio. Il superbo vede in Dio un tiranno che soffoca la sua libertà. È, come Narciso, invaghito di se stesso. Egli pertanto distoglie lo sguardo da Dio per volgerlo al proprio io. Il superbo crede di poter accontentarsi del proprio io. Non sente il bisogno di Dio.
Il superbo odia Dio che gli mostra la sua trascendenza, gli fa sapere di averlo creato Lui, esige di essere obbedito e che sconti i suoi peccati, minacciandolo dell’inferno se non obbedisce. Ma Se Dio lo castiga, il superbo se ne fa beffe. Della misericordia di Dio non sa che farsene perché è convinto di essere innocente, di agire bene e di non aver bisogno di alcuna misericordia.
Il superbo non accetta di essere creato. Sa benissimo che disobbedendo a Dio va all’inferno, ma non glie ne importa. Egli dice con Nietzsche: «bisogna danzare nell’inferno!». «Nella sua volontà è la nostra pace», diceva Dante. Al superbo la pace non interessa. Egli è del tutto favorevole alla dialettica hegeliana. Il superbo sente in sé un terribile tormento interiore che dipende dal contrasto fra il suo naturale bisogno di Dio e la sua volontà di fare a meno di Dio per godere di se stesso.
Per convertirsi dovrebbe essere assalito da una potente invasione della grazia, eventualmente ottenuta da persone buone che pregano e fanno sacrifici per lui, giacchè anche lui come tutti noi può rispondere all’appello della divina misericordia.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 10 novembre 2024
Il pregio di Kant è che sa che la ragione è spirito, ma a causa della autochiusura nell’io, resta bloccato per quanto riguarda il problema dell’esistenza di Dio, per cui egli riduce Dio a un’Idea della ragione. Invece Cartesio, che pretende di fondare ed estrarre il realismo dall’idealismo, con prodigiosa mossa rocambolesca e sorpresa consolante di tutti, tira fuori la colomba del realismo dal cappello dell’idealismo. Per questo alla fine Cartesio conclude con Aristotele che Dio esiste veramente fuori dell’anima.
La posizione di Fichte: che cosa ce ne facciamo di una «cosa», che supponiamo esistente fuori di noi, ma non sappiamo che cosa è? Vogliamo capire una buona volta che di ciò che è fuori di noi non sappiamo niente semplicemente perchè non c’è niente? La cosa in sé è un’invenzione assurda di Kant! Ma così andava perduto l’ultimo residuo di realismo, Dio non poteva più nascondersi dietro alla cosa e l’idealismo si avviava alle sue estreme conseguenze ateistiche e panteiste.
Al terzo grado di astrazione l’intelletto non si limita ad una semplice apprensione concettuale dell’ente comune o universale, che astrae da ogni materia, ma formula un giudizio esistenziale per il quale distingue la sostanza materiale da quella spirituale e quindi formula un concetto analogico dell’ente esistente che abbraccia in sé sia la materia che lo spirito. Si tratta di cogliere l’essere come atto dell’ente. Ora né Cartesio né Kant sono giunti a tanto, ma si sono fermati: Cartesio al mio esistere e Kant all’io penso, il mio spirito o la mia ragione.
Il vertice massimo dell’azione intellettuale corrisponde al fondamento primo dell’esistenza. Alla causa prima, colta dall’intelletto, corrisponde il fine ultimo, oggetto della volontà. Il nostro spirito ha il potere di sollevare il nostro sguardo al di là della finitezza della nostra realtà umana e di scoprire la causa prima e quindi il fondamento della nostra esistenza partendo dagli effetti sensibili creati. Ecco allora la metafisica e la teologia. Invece la nostra volontà ha il potere di innalzare, entro certi limiti, il nostro essere obbedendo alla volontà divina, per cui l’uomo si assimila a Dio, pur restando sua creatura. E qui abbiamo il compito della morale.
In questa duplice attività conoscitiva e morale l’uomo, come dice Sant’Agostino, «trascende se stesso», và, in certo modo, oltre se stesso, supera se stesso, tende verso l’alto, verso Dio, fino a raggiungerlo o possederLo nella visione beatifica.
Immagini da Internet
[1] E garanzia data all’Inquisizione. Ma Cartesio non sfuggirà alla condanna della Chiesa che mise all’Indice le sue opere nel 1663.
[2] Questa dottrina del metodo della metafisica ha origine dal commento del Card.Gaetano (Tommaso De Vio) all’a.3 della q.1 della I pars della Summa Theologiae di S.Tommaso d’Aquino. Vedi un’esposizione di tale dottrina in J.Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere, I gradi d’astrazione, Morcelliana, Brescia 1974, pp.58-62.
[3] Ved J. Maritain, Court traité de l’existence et de l’existant, Paul Hartmann Editeur, Parus 1964.
[4] Ètienne Gilson, Realismo tomista e critica della conoscenza Edizioni Studium, Roma 2013.
[5] Cf Logica formale e trascendentale, Edizioni Laterza, Bari 1966, pp.294, 303, 304, 309, 310, 335, 338. Quello che faccio fatica a capire è come sia stato possibile che una persona così intelligente come Edith Stein si sia lasciata sedurre da un soggetto come Husserl per tanti anni. Certo a un certo punto si è accorta di essere stata buggerata, lo ha lasciato ed è passata a San Tommaso. Questo però ci dice quale sottile fascino esercita l’idealismo anche in anime spirituali come era la Stein.
[6] Vedi É .Gilson, Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969.
Grazie Padre Cavalcoli,
RispondiEliminaaspettavamo trepidanti questa terza parte.