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Testi di P. Tomas Tyn, OP

Melanconia

 

Melanconia

Origine del nome e del concetto

In un clima sociale ed ecclesiale come quello attuale, nel quale vediamo foto di singoli, gruppi, comunità, famiglie, religiosi, preti, vescovi, cardinali fino al Papa ridere a bocca aperta in un clima di festa, sentiamo continuamente i predicatori proclamare che la vita cristiana è gioia, che occorre vivere nella gioia, continuano tuttavia ad esistere i malinconici, i tristi, i piangenti, i tormentati, i disperati, gli smarriti,  anche tra gli stessi giovani, fino ad avere frequenti notizie di suicidi od omicidi o stragi terrificanti, a parte le guerre in corso, sintomi evidenti di un radicale vuoto di ideali, di una totale assenza dei valori sotto un manto di libertà, senz’alcun freno morale, senza il presidio di alcuna disciplina e senza l’occhio ad alcuna verità.

Tra tutti questi mali, con intento ovviamente costruttivo, ne scelgo qui uno, un male sottile dello spirito e della psiche, dal quale invece alcuni traggono un gusto morboso e malsano, un male che quindi occorre correggere con opportuni accorgimenti teoretici, pratici ed educativi.

Parliamo della melanconia, la quale, e già qui occorre precisare rispetto a un generico frequente parlare di malinconia, è anzitutto una ben precisa malattia psichica, materia della psicopatologia, uno stato psichico caratterizzato da un’alterazione patologica del tono dell’umore, con vari fenomeni caratteristici o concomitanti o sintomatici non sempre tutti presenti, come una irragionevole tristezza, inappetenza, insonnia, abulìa, svogliatezza, perdita di ogni interesse ed iniziativa, inerzia, disgusto, talora accompagnata da ansia, e con inibizione di tutta la vita intellettuale.

«Il termine greco melancolìa[1] si ritrova per la prima volta nel Corpus Hippocraticum (sec.V a.C.). È un termine composto i da melas=nero e colos=bile, dunque il famoso «umor nero». Più tardiva è l’unione del termine melancolicòs con il termine dysforìa a indicare genericamente gli stati d’animo di tristezza e di abbattimento, stati che – secondo la dottrina umorale ippocratica – sono in rapporto con le alterazioni e i movimenti della bile nel corpo. I pensiero psicopatologico più sistematico sulla melanconia. e sui suoi rapporti con altri quadri psichici è quello di Areteo di Cappadocia, che descrive la tristezza, il rallentamento, lo scoraggiamento, la perdita del tono vitale, il senso di vuoto e la tendenza al suicidio.

Areteo riconosce il rapporto, sia pure parziale, della melanconia con la mania, i passaggi dall’uno all’altro stato e il loro decorso periodico. La distinzione della melanconia dalle ‘freniti’, cioè dai disturbi psichici febbrili, si ritrova per la prima volta in Dorano di Efeso (intorno al 100 d.C.), mentre Galeno sviluppa soprattutto i concetti patogenetici della melanconia, in rapporto allo stomaco e all’ipocondrio».

Nel Medioevo la melanconia viene vista come acedia (accidia), ossia come vizio morale, come fastidio, cecità e incuria per le cose spirituali e quindi veniva considerata una colpa morale passibile di sanzione penale e provvedimenti disciplinari. Mancava la consapevolezza moderna delle basi e delle cause organico-neurologiche della malinconia. Da cui l’espressione moderna «esaurimento nervoso» e naturalmente l’assenza degli psicofarmaci e di cure psichiatriche appropriate. Semplicemente la si considerava in opposizione alle virtù contrarie della solerzia, dell’operosità, dello zelo, della generosità, dell’impegno sociale e dell’interesse per le cose dello spirito.

«Nella Psichiatria[2] francese dell’inizio del sec. XIX si parla di lipemania: J.-P. Falret è il primo a parlare di ‘folie circulaire’ (1851), mentre J.-G.-F. Baillarger di ‘folie à double forme’ (1854). Si deve a E. Kreepelin (1883) la prima sistematizzazione della malinconia, sia come forma semplice sia come psicolsi periodica circolare o ciclotimica o bipolare (psicosi maniaco-depressiva) e la sua netta distinzione dalle altre malattie mentali. Le prime concezioni di Freud sulla genesi della melanconia risalgono al 1916.

La malinconia si alterna è un disturbo dell'umore caratterizzato da anomali cambiamenti dell’umore, dell’energia e del livello di attività svolta nell’arco della giornata. In fasi di forte scompenso è necessario un ricovero ospedaliero in quanto sia gli stati maniacali, ma soprattutto le fasi depressive, tendono ad essere molto pesanti.

Chi soffre di disturbo bipolare mostra infatti, in modo alternato, episodi di eccitamento (elevazione del tono dell’umore) seguiti da episodi depressivi.  La melanconia può essere favorita dall’assunzione di idee catastrofiche, sconfortanti o pessimistiche, come per esempio il nichilismo di Leopardi o quelle dell’esistenzialismo ateo di Sartre. Ai suoi tempi andava di moda una canzone cantata da Jiuliette Gréco, "Bonjour tristesse", tratta da un racconto di Françoise Sagan.

Gli stati di sovraeccitazione o di autoesaltazione o di megalomania o di mitomanìa sorgono dall’assunzione di idee panteistiche, olistiche o monistiche, per le quali l’autocoscienza o l’io empirico appare come l’apparizione finita fenomenica dell’Uno, dell’Intero o della totalità dell’essere.

Melanconia come psicosi e malinconia come vizio morale

Può essere utile distinguere la melanconia dalla malinconia, pur trattandosi nell’uno e nell’altro caso di stati d’animo depresso, dove però la prima è un’inclinazione psicopatologica involontaria a base organica, mentre la seconda è uno stato d’animo volontario e vizioso, caratterizzato da una tristezza causata dall’attaccamento al peccato e dal disgusto per le cose spirituali.

Il soggetto cerca allora un compenso nei piaceri carnali. È quella che San Paolo chiama «tristezza secondo il mondo» (II Cor 7,10). Esiste invece una tristezza o, se vogliamo, malinconia salutare, quella che San Paolo chiama «secondo Dio, che produce un pentimento» (Ibid.). È il dispiacere d’aver peccato accompagnato dal proposito di non più peccare e dalla speranza nel perdono divino.

Per alcuni il genio nasce dalla melanconia. Sarebbe il furor del quale parla Agrippa di Nettesheim nella sua Occulta philosophia come terzo grado della melanconia, quello intellettuale delle visioni divine. Gli «eroici furori» dei quali parla Giordano Bruno, assiduo lettore di Agrippa, certamente hanno la stessa radice. Albrecht Dürer probabilmente nella sua incisione «Melancholia» si rifà alla concezione di Agrippa. Si vede infatti un angelo con lo sguardo fisso nel vuoto con un’espressione del volto assolutamente fredda, evidentemente non contenta o felice.

Come ad Agrippa è venuto in mente di associare la melanconia alla visione divina? Perché la visione divina, che dovrebbe dare una gioia intensissima, qui è associata alla tristezza? Non è la tristezza di chi innocente patisce ingiustizia. Questa tristezza, come la tristezza di Cristo, ha il pegno della gioia futura e sottende la pace dell’anima unita Dio, ma è la tristezza di aver perduto irreparabilmente qualcosa che è impossibile recuperare. È la tristezza di chi ha peccato, ma non si pente, per cui, nella soddisfazione di aver accontentato il proprio orgoglio, ha perduto la speranza del perdono divino.

Così Agrippa scrisse la sua Occulta philosophia nella quale da una parte garantiva la possibilità della visione dell’Assoluto al di là di ogni concetto, ma dall’altra scrisse un trattato per sostenere la vanità di tutte le scienze dando mostra di uno sfrenato scetticismo. L’opera fu condannata dalla Sorbona; ma bastava che gli avessero detto: se metti in dubbio il valore di tutte le scienze, allora devi negare a quanto dici un valore scientifico.

In realtà, la tesi secondo la quale la genialità nascerebbe dalla melanconia, alla quale pertanto verrebbe data una funzione positiva, è una tesi del tutto campata per aria. La vera genialità suppone quanto di più opposto si possa pensare alla melanconia: suppone straordinarie energia, vitalità, fertilità, intuitività, produttività ed iniziativa psicoemotive, intellettuali e volontarie.

Quanto al sapere o vedere teologico o mistico, questo non suppone necessariamente la genialità, ma una retta fede, la sapienza, la purezza della coscienza morale e la pietà religiosa. Se per malinconia intendiamo la tristezza e un certo sconforto, ebbene, qui può occasionalmente inserirsi la melanconia, che meglio va chiamata malinconia, ma che poi, lungi dall’alimentare, occorre scacciare con forza secondo il consiglio di San Filippo Neri: «scrupoli e malinconia fuori di casa mia!». Quanto più sentiamo in noi la presenza di Dio, tanto più ogni malinconia scompare come nebbia al sole e subentra una gioia pura senza ombre e senza condizioni. 

La tristezza del melanconico non è, come alcuni credono, immotivata. Diciamo che non ha motivi ragionevoli, ma i motivi ci sono e sono quelli che ho indicato sopra: motivi organici nella melanconia come patologia. Qui capita che il melanconico fatichi a chiarire questi motivi, segno questo dell’indebolimento del tono psichico proprio della melanconia, per il quale il soggetto fatica ad analizzare sé stesso.

Oppure si danno motivi morali, se la malinconia è volontaria e magari fondata su false idee come quelle suesposte del «genio» o di Agrippa. In tal caso la malinconia si configura come peccato di orgoglio. Qui manca di umiltà; il malinconico è un impenitente senza interesse ad ottenere il perdono divino oppure è fissato nell’idea che Dio lo condanni.

Cerca allora un compenso nell’assumere toni spavaldi ed esibizionistici o buffoneschi, o mostra un’allegria forzata e indiscreta, perdendosi e dissipandosi un cose inutili o vane. Ma si rende egli stesso conto di recitare una commedia. 

Il melanconico passa, per reazione disperata, da uno stato comportante una sensazione di colpevolezza, di depressione e di estrema debolezza psichica, in cui tutto gli sembra insensato e in cui nulla lo interessa ed attira la sua volontà, ad uno stato euforico di sovraeccitazione nel quale si avverte del tutto innocente nonché  possessore e fruente della totalità dell’essere e dell’assoluto.

Rimedi

Non mi fermo qui sulla cura psichiatrica che non è di mia competenza. Affronto invece brevemente l’aspetto morale. La prima cosa da fare è quello che ho già detto: occorre chiarire che l’educazione o anagogia della mente, al fine di renderla atta, docile, aperta e disponibile al dispiegamento del massimo delle sue forze, così che essa possa essere illuminata da Dio per quanto è possibile alle sue capacità, non ha bisogno tanto della genialità, concetto pagano legato alla magia, anche  se non privo di valore, quanto piuttosto della  sapienza, la hokmà biblica, il gusto delle cose divine, la sofìa, virtù dell’intelletto scoperta da Aristotele.

Quella tristezza o malinconia per la quale ci addoloriamo delle colpe commesse è salutare e conferisce all’acquisto della sapienza. È utile quella malinconia per la quale diciamo a noi stessi: come sarebbe stato bello se avessi evitato quel peccato! Ma come ho potuto avere la stoltezza di commetterlo? Ho perduto un’occasione di agire bene, che ormai ho perduto per sempre.

Occorre tuttavia moderare questo rammarico con atti di pentimento e di speranza nella misericordia di Dio, offrendo a Dio questo nostro stesso rammarico in sconto del nostro peccato. Allora torniamo a sentire un Dio benevolo; l’animo si rasserena e si placa, perché in uno stato d’animo turbato dalla malinconia e dal rammarico, non c’è la tranquillità sufficiente per ricevere la luce divina.

Anche il fatto di avere un temperamento malinconico può tornare a nostro vantaggio nell’acquisto della sapienza, se noi offriamo a Dio questa sofferenza in sconto dei nostri peccati.

Per Agrippa la malinconia consiste nel «crepuscolo di uno spirito che non riesce a cacciare i pensieri nella tenebra, né a portarli alla luce». È una buona osservazione circa il disagio dello spirito umano assalito da una parte da cattivi pensieri che non riesce a cacciare e dall’altra frustrato nel suo sforzo di mettere in luce la verità.

Tuttavia non è questo lo stato d’animo adatto alle intuizioni geniali e all’esperienza della verità divina. Infatti, perché ciò avvenga, bisogna che l’animo sia in perfetta quiete e serenità. Quindi lo stato malinconico di per sé è anzi di ostacolo: non affatto da questa malinconia viene la luce e la beatitudine, ma da un animo purificato, sereno e ordinato, cosa che si raggiunge vincendo e non dando spazio alla malinconia malsana col chiedere e ricevere il perdono divino e la divina misericordia.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 settembre 2024.

Agrippa scrisse la sua Occulta philosophia nella quale da una parte garantiva la possibilità della visione dell’Assoluto al di là di ogni concetto, ma dall’altra scrisse un trattato per sostenere la vanità di tutte le scienze dando mostra di uno sfrenato scetticismo. L’opera fu condannata dalla Sorbona; ma bastava che gli avessero detto: se metti in dubbio il valore di tutte le scienze, allora devi negare a quanto dici un valore scientifico.

In realtà, la tesi secondo la quale la genialità nascerebbe dalla melanconia, alla quale pertanto verrebbe data una funzione positiva, è una tesi del tutto campata per aria. La vera genialità suppone quanto di più opposto si possa pensare alla melanconia: suppone straordinarie energia, vitalità, fertilità, intuitività, produttività ed iniziativa psicoemotive, intellettuali e volontarie.

Quanto al sapere o vedere teologico o mistico, questo non suppone necessariamente la genialità, ma una retta fede, la sapienza, la purezza della coscienza morale e la pietà religiosa. Se per malinconia intendiamo la tristezza e un certo sconforto, ebbene, qui può occasionalmente inserirsi la melanconia, che meglio va chiamata malinconia, ma che poi, lungi dall’alimentare, occorre scacciare con forza secondo il consiglio di San Filippo Neri: «scrupoli e malinconia fuori di casa mia!». Quanto più sentiamo in noi la presenza di Dio, tanto più ogni malinconia scompare come nebbia al sole e subentra una gioia pura senza ombre e senza condizioni.

Immagine da Internet:

- La storia vera di San Filippo Neri raccontata in Preferisco il Paradiso : https://www.youtube.com/watch?v=ONn-2VLMLlA - https://www.youtube.com/watch?v=30ubuSB3vmQ
- Agrippa Occulta philosophia

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[1] Prendo queste notizie di Wikipedia e Enciclopedia on line Treccani

[2] Ancora da Wikipedia e Enciclopedia on line Treccani.

5 commenti:

  1. Caro Padre, lei hai avuto una piccola distrazione con la memoria (succede anche a me). Françoise Sagan non ha scritto una canzone, ma un breve romanzo: Bonjour tristesse

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    1. Il primo romanzo di Sagan, Bonjour Tristesse, fu pubblicato nel 1954, quando aveva 18 anni. Ha avuto un successo internazionale immediato. Il romanzo parla della vita di una ragazza di 17 anni di nome Cécile e della sua relazione con il suo fidanzato e il padre playboy vedovo. Dall'opera è stato tratto un film dal regista americano Otto Preminger.

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    2. La mia piccola correzione verrà rapidamente cancellata. È stato solo un piccolo contributo. Lasciarla non ne vale la pena.

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    3. Cara Caterina,
      la ringrazio per questa correzione. Effettivamente la vecchiaia si fa sentire.
      Ricordavo la canzone Bonjour Tristesse di Juliette Gréco, ma mi sono confuso nei nomi.

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    4. Grazie mille per questa informazione! Non avevo idea di questa canzone. Allora, i suoi ricordi, padre Cavalcoli, non erano così male.

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