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Testi di P. Tomas Tyn, OP

Sui suicidi nelle carceri - Bisogna che nei penitenziari si ritrovi il valore della penitenza

 

Sui suicidi nelle carceri

Bisogna che nei penitenziari si ritrovi il valore della penitenza

Un pregio della concezione moderna dei diritti umani è la pratica della moderazione delle pene carcerarie e la loro funzione rieducativa, ma un valore che sembra essersi perduto è il significato penitenziale-espiativo della pena. La società edonista e godereccia non vuol più sentir parlare di espiazione come se si trattasse di una lugubre superstizione pagana. La sofferenza va respinta con ogni mezzo, come se fosse il massimo dei mali, anche a costo di peccare o di far del male agi altri.

Ciò avviene in concomitanza con un indebolimento della pratica cristiana, che, dando forma di virtù alla penitenza come esigenza spontanea dell’animo pentito, era riuscita in passato ad animare cristianamente anche il diritto penale civile, umanizzando gli usi pagani ancora presenti nell’alto medioevo e inserendo vitalmente la situazione del carcerato nel mistero di Cristo crocifisso.

Così oggi si continua certo a parlare di «penitenziario», ma sembra essersi perduto quell’aspetto espiativo che dà allo sconto della pena una dignità morale, che genera nel carcerato uno stato d’animo sereno, che lo porta a vivere la sua dolorosa situazione nella coscienza di recuperare la dignità perduta, nella soddisfazione di pagare il proprio debito alla giustizia e nella prospettiva di tornare in società pienamente riabilitato, purificato e liberato da ogni macchia o marchio d’infamia.

A mio avviso i suicidi in carcere, dei quali da un po’ di tempo con preoccupazione sentiamo parlare, possono essere certo occasionati da vari fattori relativi all’inosservanza da parte dei responsabili dell’applicazione delle norme dell’ordinamento carcerario, ma sono convinto che un fattore decisivo di questo gravissimo inconveniente, per non dire questo scandalo, sia dato dal fatto che abbiamo perduto la coscienza che, come peccatori, dobbiamo riconoscere e pentirci del male fatto, dobbiamo espiare le nostre colpe, dobbiamo riparare ai danni compiuti, dobbiamo rimediare al male che abbiamo fatto, dobbiamo coltivare la penitenza dei peccati, dobbiamo accettare di scontare una giusta pena. 

Abbiamo perduto il valore consolatorio della Croce di Cristo e, come il diavolo, invece di amarla, la odiamo.  Solo se il carcerato vive questi sentimenti, accetterà con serenità la sua condizione di carcerato e sarà lui stesso a voler restare in prigione fino allo sconto della pena. Solo così lo stare in prigione avrà per lui un senso e sconterà volentieri la sua pena. I suicidi sono provocati dal fatto che il detenuto considera assurda ed intollerabile la sua situazione perchè nessuno gliene mostra il valore alla luce di queste considerazioni. 

Lo so che queste considerazioni squisitamente proprie della concezione cristiana della giustizia, della sofferenza e della penitenza non possono essere imposte dalla legislazione penale civile, basata solo su princìpi di ragione e sui diritti umani.

Non dico quindi che questi miei suggerimenti debbano trovare immediata e piena applicazione ovunque nel regolamento etico della disciplina carceraria. Per questo riconosco che non si devono ignorare i rimedi che possono venire da una prudente psicoterapia o dall’accompagnamento rieducativo o correttivo o da semplici sollievi e conforti umani.

Ma resto convinto che una forte responsabilità di questa gravissima situazione va alla mancanza o carenza di un’efficace presenza formativa cristiana nelle carceri, con tutto il rispetto che posso e devo avere per l’opera dei cappellani, ai quali va tutta la mia ammirazione per il loro difficile e delicato ministero.

Ritengo comunque che davanti a questa situazione c'è il rischio che i misericordisti e i buonisti propongano l’attenuazione o addirittura l'abolizione del sistema carcerario argomentando che bisogna abolire il concetto di "criminale", come segno di una mentalità chiusa che non sa apprezzare la diversità.  Quello che noi chiamiamo criminale - essi dicono - è solo uno che sceglie un diverso orientamento di vita e quindi dev'essere lasciato libero di seguire la propria coscienza, se non vogliamo far violenza alla libertà e ai diritti degli altri.

Tuttavia io vorrei far notare che questa non è la soluzione. Non si tratta del rispetto del diverso. Questo è fuori discussione. Si tratta invece della sopravvivenza della vita civile ed ecclesiale. Se infatti  noi relativizziamo i valori morali e i divini comandamenti col pretesto della coscienza e della libertà individuale; se noi continuiamo a disprezzare la pratica penitenziale, se diciamo che il parlare di espiazione, riparazione e soddisfazione è segno di masochismo e dolorismo, se diciamo che Dio non vuole la sofferenza espiatrice, se rifiutiamo il valore espiativo del sacrificio di Cristo e della Messa, se ci ostiniamo a dire che Dio non castiga nessuno e che tutti sono perdonati e si salvano, se continuiamo a fuggire  la sofferenza come fosse il massimo dei mali, anche a costo di peccare, se non torniamo a comprendere che il vero male è il peccato più che la sofferenza, se pretendiamo di peccare senza essere puniti, se rifiutiamo di pagare i debiti delle nostre colpe, se crediamo che Dio faccia finta di non vedere i nostri peccati, se non recuperiamo il santo timor di Dio e continuiamo ad  irridere all'ira divina, non solo la situazione nelle carceri, ma nell'intera società e nella Chiesa diventerà sempre più tragica e insolubile e le cose andranno di male in peggio.

Infatti, con questo atteggiamento ipocrita, empio e sacrilego che ci ha insegnato Lutero non solo non otterremo da Dio alcuna misericordia, ma solo l'aumento dell'ira divina su di noi, come spiega chiaramente San Giovanni nell'Apocalisse.

Degno di grande considerazione è certamente il caso di carcerati innocenti a causa di un errore giudiziario. Anche in questo caso, comunque, la sapienza cristiana sa assicurare alla vittima dell’ingiustizia il modo di trovare pace e serenità, mentre nessuno le impedisce di adoperarsi affinchè l’errore giudiziario venga riconosciuto e riparato, ottenendo un risarcimento per il danno subìto.  Pensiero di grande conforto per il credente è che anche Gesù è stato innocente condannato. Unirsi alla sua sofferenza redentrice ed espiatrice è per il cristiano un’azione santa con la quale egli collabora con Cristo all’opera della salvezza per sé e per il prossimo.

Se la giustizia umana può difettare nel riparare ai suoi falli, la giustizia divina non fallisce e al momento giusto si fa viva per regolare i conti con coloro che hanno debiti in sospeso. Nel contempo chi ha patito ingiustizia, certo della giustizia divina ma anche della misericordia, dispone il proprio animo al perdono qualora chi gli ha fatto torto sia pentito.

Saper perdonare e adoperarsi per ottenere giustizia sono due gesti che non si escludono ma si richiamano a vicenda, anche se il secondo è più nobile del primo e più conforme ai costumi di Dio. Certamente gli errori giudiziari meritano di essere riparati e le ingiustizie commesse in giudizio meritano di essere severamente punite. Ma il cristiano sa accettare serenamente anche queste umiliazioni, sapendo di collaborare con esse all’opera di Colui che innocentissimo per primo per amor nostro le ha accettate e rese vie di redenzione e di salvezza.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 25 agosto 2024


Si tratta della sopravvivenza della vita civile ed ecclesiale. Se infatti  noi relativizziamo i valori morali e i divini comandamenti col pretesto della coscienza e della libertà individuale; se noi continuiamo a disprezzare la pratica penitenziale, se rifiutiamo il valore espiativo del sacrificio di Cristo e della Messa, se ci ostiniamo a dire che Dio non castiga nessuno e che tutti sono perdonati e si salvano, … e continuiamo ad  irridere all'ira divina, non solo la situazione nelle carceri, ma nell'intera società e nella Chiesa, diventerà sempre più tragica e insolubile e le cose andranno di male in peggio.

Se la giustizia umana può difettare nel riparare ai suoi falli, la giustizia divina non fallisce e al momento giusto si fa viva per regolare i conti con coloro che hanno debiti in sospeso. Nel contempo chi ha patito ingiustizia, certo della giustizia divina ma anche della misericordia, dispone il proprio animo al perdono qualora chi gli ha fatto torto sia pentito.

Saper perdonare e adoperarsi per ottenere giustizia sono due gesti che non si escludono ma si richiamano a vicenda, anche se il secondo è più nobile del primo e più conforme ai costumi di Dio.

Immagine da Internet

17 commenti:

  1. La pena di morte deve essere applicata senza paura. Questo abbasserebbe le statistiche di delitti, penalizzerebbe i delitti aberranti e inoltre migliorerebbe le condizioni carcerarie.

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    1. Caro Anonimo,
      se vogliamo essere buoni cattolici, bisogna che abbiamo fiducia nella guida del Papa non solo dal punto di vista dottrinale, ma anche pastorale. La posizione del Papa, riflessa nel Catechismo, non ha un carattere dottrinale, ma disciplinare. Ciò non ci esime dal dovere di accogliere con fiducia questa disposizione della Chiesa, nella certezza di essere sulla via del Vangelo.
      Il numero 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica dice che la Chiesa si impegna per l’abolizione della pena di morte.
      Qui non siamo davanti né ad una dottrina dogmatica, né ad una dottrina morale, ma la Chiesa esprime l’auspicio che gli Stati aboliscano la pena di morte. La legislazione su questo argomento non è di competenza della Chiesa, ma dello Stato.
      La Chiesa dunque propone agli Stati l’abolizione della pena di morte come legge civile. Questo vuol dire che sta alla responsabilità dei singoli Stati decidere a loro giudizio se attenersi o meno a questa proposta della Chiesa.
      Il Catechismo giustifica la nuova disposizione con l’attuale migliore presa di coscienza da parte della Chiesa della dignità della persona umana composta di anima e corpo. Nel passato si giustificava la pena di morte considerando il fatto che la vita fisica vale meno di quel bene comune, che il delinquente col suo atto fisico danneggiava. Pertanto, per proteggere il bene comune, si giustificava la soppressione del delinquente.
      Oggi invece la Chiesa considera la dignità della persona come unità di anima e corpo, in modo tale che il bene comune è considerato come a servizio della persona e passa in secondo piano la subordinazione dell’individuo al bene comune.

      https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20180801_catechismo-penadimorte_it.html
      NUOVA REDAZIONE DEL N. 2267 DEL
      CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
      SULLA PENA DI MORTE –
      RESCRIPTUM “EX AUDIENTIA SS.MI”
      Roma, 11 maggio 2018

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  2. La dottrina cattolica sostiene che chi dice che il potere temporale non può legittimamente versare sangue è anatema. Cf. Denzinger. Tutto il resto è un movimento per ottenere l'applauso del mondo, come quando Franco stava giustiziando i terroristi dell'ETA

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    1. Caro Stefano, le dico innanzitutto che la legge della pena di morte di per sé non è dottrina della Chiesa, ma è sempre stata una disposizione giuridica o disciplinare di diritto positivo. Non è fondata sul diritto naturale e quindi non si tratta di un principio morale tale da poter essere una dottrina immutabile.
      Questo, la Chiesa lo ha sempre saputo, anche quando consentiva alla pena di morte per gli eretici. E noi Domenicani ne sappiamo qualche cosa, perché in questo drammatico frangente, come è ben noto, avevamo la delicatissima responsabilità di individuare il crimine di eresia.
      Per quanto riguarda il Denzinger la pregherei di citarmi le fonti corrispondenti.
      Per quanto riguarda la tendenza a un certo pacifismo e buonismo equivoci, che finiscono per dar spazio ai prepotenti, questa condotta certamente la possiamo constatare oggi in certe autorità ecclesiastiche e civili troppo tolleranti, che non applicano la giustizia o per paura o per ottenere il favore dei potenti.
      Tuttavia, come ho detto e ripetuto, dato che la questione della pena di morte o meno è una questione sostanzialmente prudenziale e non teoretica o dogmatica, il fatto che oggi il Catechismo abbandoni la legge della pena di morte non ci deve scandalizzare e non è una incoerenza nella dottrina della Chiesa, ma come cattolici dobbiamo considerarlo come testimonianza che oggi la Madre Chiesa ci dà per praticare la giustizia e la misericordia nella società e nella stessa Chiesa.

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    2. Aggiungo anche la seguente considerazione.
      Oggi più che mai la Chiesa ha una visuale che abbraccia non soltanto il mondo cristiano, ma l’intera umanità nella pluralità dei regimi politici e delle relative concezioni religiose che ad essi fanno da sfondo. Penso per esempio ai Paesi islamici e in generale ai Regimi totalitari.
      Il messaggio che viene dal Catechismo vuole essere evidentemente un appello alla coscienza dei governi civili e religiosi di quei Paesi, in nome del diritto alla libertà religiosa e in generale dei diritti umani.

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  3. Lei dice che ora: "il bene comune è considerato come a servizio della persona"
    Puro e semplice individualismo, se non altro, modernismo crasso...

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    1. Caro Stefano, bisogna distinguere bene il principio liberale del primato dell’individuo sul bene comune dalla dottrina cattolica della dignità della persona umana immagine di Dio, come bene superiore ai fini temporali della società civile.
      La dottrina sociale della Chiesa predica con forza il dovere di ognuno di mettere a servizio della società le proprie capacità personali, sul piano delle opere della giustizia e della misericordia. Cristo stesso parla del vero amore come quello di colui che dona la propria vita per gli amici.
      Tuttavia il servizio al bene pubblico temporale è finalizzato al fatto che questo bene temporale, in quanto limitato ai valori economici e politici, sia a sua volta funzionale al bene spirituale e trascendente delle persone in quanto in relazione con Dio e capaci di partecipare alla stessa vita divina.
      Viceversa nella visione liberale il primato dell’individuo è basato solo sull’egoismo e sull’egocentrismo, che spingono il soggetto alla prepotenza e allo sfruttamento del bene pubblico per i propri interessi privati, senza tenere in alcun conto della legge naturale e della legge divina.
      Se vogliamo parlare di modernismo, dobbiamo riferirci a questa concezione e non a quella cattolica, che ho esposto in precedenza.

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  4. Caro Stefano: mi sembra che lei non riesca a distinguere quando il Papa insegna la Parola di Cristo, cioè il deposito rivelato della fede, e quando insegna direttive pastorali o consigli per il mondo. Perciò respingo come fondamentalismo papolatrico quando noi, i cattolici autentici, ci lasciamo guidare dal Papa, sapendo distinguere quando il Papa ci insegna come Maestro della Fede e quando ci dirige come Pastore universale, anche se accettando entrambe le sue guide, la dottrinale e la pastorale. Quello che voglio dire è che mi sembra che lei, proprio essendo un fondamentalista che ha accettato di andare a sapere da quali Papi del passato TUTTO, senza distinguere l'immutabile dal contingente, ora abbia problemi ad accettare da papa Francesco TUTTO, distinguendo anche l'immutabile dal contingente.

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    1. Cara Rosa,
      sono sostanzialmente d’accordo con le sue osservazioni. Noi cattolici dobbiamo accettare da ogni Papa tutto quello che insegna sia nel campo della dottrina che nel campo del governo pastorale.
      Nel campo dottrinale il nostro assenso dev’essere chiaro e netto. Nel campo del loro modo di guidare la Chiesa a seconda dei tempi, l’assenso va comunque dato per spirito di obbedienza, anche se la cosa ci può costare e noi faremmo diversamente. Una questione del genere è quella della pena di morte o della sua abolizione.
      Questo vuol dire che obbedire a tutto non vuol dire essere dei papolatri, ma suppone un certo senso critico, saggio e rispettoso, per il quale noi, con spirito di collaborazione, possiamo in certe circostanze svolgere nei confronti di certe posizioni del Papa una critica costruttiva.

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    2. Stimatissimo Padre Giovanni: sono felice che le mie povere parole siano corrette secondo il suo parere, che per me è maestro e guida di retta vita cristiana.

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  5. Link all'articolo di De Mattei con la citazione del Denzinger e altre dottrine. Il tema della legalità della pena di morte è un punto di dottrina morale dogmatica.

    https://www.robertodemattei.it/la-liceita-della-pena-di-morte-e-una-verita-di-fede-cattolica/

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    1. Spiegami allora perché la liceità è stata inclusa in un Credo imposto a catari e valdesi da Innocenzo III. D'altra parte, come non sarà un tema morale e dottrinale se è lecito togliere la vita ad un uomo, sia nella guerra giusta, sia con pena di morte?

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    2. Caro Stefano,
      riprendo il brano di de Mattei, che lei ha citato:

      “L’insegnamento della Chiesa è stato chiaramente espresso nella lettera del 18 dicembre 1208, in cui Innocenzo III condanna la posizione valdese, con queste parole, riportate dal Denzinger: «De potestate saeculari asserimus, quod sine peccato mortali potest iudicium sanguinis exercere, dummodo ad inferendam vindictam non odio, sed iudicio, non incaute, sed consulte procedat» (Enchiridion symbolorum,definitionum et declaratium de rebus fidei et morum, a cura di Peter Hünermann S.J., n. 795). (Per quanto riguarda il potere secolare, affermiamo che si può esercitare la pena di morte senza peccato mortale, a condizione che la vendetta sia esercitata non per odio, ma per giudizio, non in maniera imprudente, ma con moderazione)”.

      Come le ho già detto e ripetuto, le disposizioni della Chiesa su questa materia non riguardano il dogma o il dato di fede, ma sono disposizioni di tipo prudenziale o giuridico, che come tali sono soggette a mutamento.
      Per questo il mutamento che è avvenuto è stato perfettamente legittimo.

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  6. Caro padre Giovanni: vedendo questi commenti che gli arrivano, mi chiedo perché sono sempre i indietristi, i passadisti, i lefebvriani, quelli che più e più volte tornano a fardello con i loro costanti piagnistei che non fanno altro che indicare il tossico ideologico con cui sono avvelenati? Dove sono i modernisti? Perché non appaiono qui, se è evidente che nella maggior parte dei suoi articoli lei li prende più contro di loro?...

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    1. Caro Adolivio,
      ho notato anch’io il fatto che i miei critici provengono in larga parte dall’area del passatismo. Come mi spiego questo fenomeno? Con quattro ragioni.
      La prima, che tutto sommato sono più in conflitto con la Chiesa i modernisti che non i passatisti. Infatti i modernisti sostengono il relativismo dogmatico, per cui in fin dei conti non si salva neanche un dogma, perché tutti i dogmi cambiano. Invece i passatisti seguono il magistero della Chiesa, ma solamente fino a Pio XII, quindi il loro errore è meno grave, ma ciò non toglie che essi siano comunque vittime dell’eresia, perché è certamente eretico rifiutare il magistero del Concilio Vaticano II e dei Papi del postconcilio.
      La seconda ragione, secondo me, è che essi o alcuni di loro, notando il mio rispetto per la Tradizione, sperano probabilmente che io possa aggregarmi a loro. Io, da parte mia, li tratto con molta cortesia, solo che a un certo punto si accorgono che io disapprovo il loro passatismo. A questo punto desistono dal tentativo di influenzarmi e di avermi con loro, perché si accorgono che io disapprovo il loro concetto di Tradizione.
      La terza ragione, secondo me, è data dal fatto che questi fratelli molto probabilmente sono maltrattati, inascoltati e derisi dai modernisti, ed avendo qualche buon argomento degno di essere preso in considerazione vedono, nella mia attitudine ad ascoltarli, una persona che ha rispetto per loro.
      Infine, una quarta ragione, è data dal fatto che io e loro percorriamo assieme un tratto di strada dell’antimodernismo. Per esempio ci troviamo d’accordo nel criticare Rahner. Ma quando loro accusano di modernismo il Concilio o il Papa, allora è chiaro che io non ci sto più.
      Per quanto riguarda i modernisti, è vero che sono pochissimi quelli che mi contattano. Io mi spiego ciò col fatto che mi scambiano per un passatista. Alcuni mi ignorano, perché non mi tengono in considerazione. Altri entrano in dialogo con me, perché sanno che io sono per la realizzazione del Concilio. Può capitare che discutiamo su ciò e che possiamo anche giungere a degli accordi.

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  7. Caro padre, mi sembra davvero incredibile che continui a ripetere che la liceità della pena di morte non è un tema morale per la Chiesa, soprattutto in vista del quinto comandamento. È un chiaro tema dottrinale, come la legittima difesa o la guerra giusta.

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    1. Caro Stefano,
      non c’è dubbio che la questione della pena di morte o della sua abolizione tocchi non solo l’etica naturale, ma la stessa morale cristiana, perché non c’è dubbio che per risolverla occorre fare riferimento al V Comandamento, che non è solo legge naturale, ma legge divina e quindi oggetto di fede.
      Detto questo però dobbiamo vedere con attenzione che rapporto c’è tra il valore vincolante dell’attuale disposizione del Catechismo col valore vincolante della legge divina, che è indubbiamente dogma di fede e oggetto della teologia morale.
      A tal riguardo ripeto che la direttiva del Catechismo non si pone direttamente sul piano della legge divina, il cui contenuto è evidentemente immutabile, ma, benchè tale direttiva si ponga in relazione con la legge divina, si presenta come una legge della Chiesa e precisamente come una norma disciplinare o pastorale di diritto positivo, ambito nel quale la Chiesa con l’autorità conferitale da Cristo, il cosiddetto “potere delle chiavi”, ha facoltà a sua discrezione di mutare norme precedenti, da lei stessa emanate, che possono avere anche una grande antichità come per esempio la legge della pena di morte, la quale esisteva da 2.000 anni.
      Tuttavia in questi casi l’argomento della durata temporale, per quanto lunga, non è decisivo, perché, come ho detto, si tratta di materia giuridica circa la quale l’autorità della Chiesa ha facoltà di mutare la legge precedente.
      Quale rapporto c’è tra il valore divino del V Comandamento e il valore giuridico dell’attuale disposizione del Catechismo? È che anche questa disposizione va considerata come un’applicazione di quel Comandamento, così come lo era la disposizione contraria precedente. La cosa importante da tenere presente è che sia l’applicazione precedente che quella odierna sono due modi legittimi, benchè contrari, di applicare il V Comandamento.
      La cosa che deve dare serenità e fiducia a noi cattolici è il fatto che anche questa nuova disposizione è applicazione di quel Comandamento. In che modo? Che cosa dice questo Comandamento? “Non Uccidere”. In passato si faceva questa precisazione: “non uccidere l’innocente”, ma era lecito uccidere il criminale in quanto, con la sua azione mortifera, rendeva la sua vita fisica indegna di essere vissuta, e per questo era lecito sopprimerla.
      Uno potrebbe dire: ma questa regola non vale anche oggi? Oggi la Chiesa ritiene che non valga più. Per quale motivo? Già il n. 2267 riassume questi motivi. Esso ci ricorda che il criminale, in quanto persona composta di anima e corpo, possiede una dignità che richiede la salvaguardia dell’una e dell’altro, e quindi va rispettata non solo l’anima, ma anche il corpo.
      C’è inoltre da considerare che la psicologia moderna conosce meglio di un tempo quei condizionamenti interiori, che diminuiscono la responsabilità e quindi suggeriscono una diminuzione della pena.

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