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05 febbraio, 2022

Sul concetto rahneriano di Dio - Quarta Parte (4/5)

  Sul concetto rahneriano di Dio

Quarta Parte (4/5)

La questione del panteismo

Cominciamo col ricordare brevemente che cosa è il panteismo. Il significato è già contenuto nella parola pan-theòs: tutto è Dio o Dio è tutto. Quindi ogni cosa è Dio. Non che Dio non contenga tutte le perfezioni; ma c’è l’idea di un’identificazione di Dio col mondo e con l’uomo e viceversa.  Se Dio è tutto, esiste solo Dio; non c’è un mondo esterno a Dio, ma il mondo è Dio o parte di Dio. C’è chi parla di panenteismo: «tutto è in Dio». Se s’intende che il nostro essere è fondato in Dio suo creatore, va bene; ma se s’intende che noi siamo in Dio come suoi attributi o proprietà essenziali, questo è panteismo.

Quindi abbiamo il mondo e l’uomo al posto di Dio. È ciò che la Bibbia chiama idolatria. Il panteismo si accompagna all’ateismo come le due facce della medesima medaglia: se l’uomo è Dio (panteismo), allora Dio non è il creatore dell’uomo (ateismo). L’uomo pone se stesso nell’essere; l’Io è autoposizione o, come dicono gli idealisti, è «autocoscienza». L’Io, dirà Fichte, pone se stesso. Non ha bisogno di un Dio che lo crei, perché esiste da se stesso. L’idea che l’uomo esista da se stesso in forza della sua autocoscienza si trova sia nel panteismo che nell’ateismo.

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Il panteismo ha due forme fondamentali sin dalla più remota antichità: esiste un panteismo dell’essere (Parmenide e Severino) e un panteismo del divenire (Eraclito ed Hegel). Il primo è di tipo eternalista e acosmico. Assorbe il mondo in Dio; il secondo invece è di tipo storicista e cosmico: assorbe Dio nel mondo.

Il panteismo brahmanico mette assieme quello eternalista con quello evolutivo, perché Brahman è da una parte il l’Uno-Tutto, Mistero infinito sovraconcettuale, ineffabile e senza «qualità» (nirguna), ma dall’altra coincide col ciclo eterno dell’essere-non-essere, della vita e della morte (Sciva e Visnù).

Per Rahner come per il bramino Dio è in noi (immanenza) per il semplice fatto che Egli non è altro che il nostro io in senso assoluto. Non c’è dunque da imparare che Dio esiste dal contatto con le cose, non c’è da passare dall’ignoranza su Dio all’imparare che Dio esiste. Le cose materiali portano solo alle cose materiali. Dio non è una cosa tra le cose, magari la più grande di tutte, come il monte Everest è il più alto di tutti i monti della terra. L’essere non è graduato così che dal livello materiale si possa salire allo spirito. L’essere è solo uno ed è lo Spirito assoluto: il resto è parvenza.

Qui però il panteismo indiano differisce da quello rahneriano, perché mentre per il bramino Dio è senza materia, per Rahner Dio, sulle orme di Hegel, è sintesi di spirito e materia, come il Dio di Spinoza, è pensiero ed estensione.


Per scoprire Dio si tratta invece per loro soltanto di entrare in noi stessi per sperimentare quel Dio che già da sempre è in noi senza che ce ne rendiamo conto, presi come siamo dalle cose vane di questo mondo. È come un incontro tra amici: mentre l’amico fa un lungo cammino per trovare l’amico, pensando all’amico che lo attende, l’altro è già sul posto. Quando l’amico arriva, trova l’altro amico che era già lì sin dall’inizio del viaggio. Così i panteisti credono che quel Dio che scopriamo con le prove a posteriori non è che quel Dio che sperimentavamo inconsciamente ed atematicamente già sin dall’inizio del cammino della nostra ragione prima che inizi l’attività concettualizzatrice. 

Immagini da internet

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