29 marzo, 2024

Che cosa vuol dire che Cristo è risorto

 

Che cosa vuol dire che Cristo è risorto

Lettera di buona Pasqua ai miei Lettori

              Cari Amici,

siamo ormai nelle immediate vicinanze della Santa Pasqua, e io non posso fare a meno di mandarvi i miei più sinceri auguri con un vivo e riconoscente ricordo nella preghiera.

Penso non solo a coloro che accolgono quanto scrivo, i quali a volte mi correggono e mi fanno conoscere cose che non sapevo, ma anche a coloro che non si persuadono delle mie risposte, coloro che mi mancano di rispetto, coloro che non accettano la dottrina della Chiesa, inclini o all’indietrismo o al modernismo. Anche costoro mi aiutano a farmi santo mettendo alla prova la mia carità e la mia pazienza. Chiedo scusa a coloro che non avessi trattato col dovuto rispetto o avessi frainteso.

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Cristo Risorto, Tiziano

28 marzo, 2024

Dio non esiste ma insiste. La teologia di John Caputo - Seconda Parte (2/2)

 

Dio non esiste ma insiste.

La teologia di John Caputo

Seconda Parte (2/2)

 Dio è quell’ente la cui essenza è quella di essere

Se, come dice la Bibbia, «Dio ha creato tutte le cose per l’esistenza» (Sap 1,14), evidentemente non potrà essere che il sommo ente, primo ente ed ente supremo. Cristo dice nell’Apocalisse. «Io sono il Primo e l’Ultimo» (Ap 1,17). «Io sono il Principio e la Fine» (Ap 21,6 e 22,13). Dio dà principio e pone fine a tutte le cose.     

Dio è la causa prima e il fine ultimo. «Il Figlio sostiene tutto con la potenza della sua parola» (Eb 1,3). Fa essere e mantiene nell’esistenza tutte le cose. Senza questo sostegno cadrebbero nel nulla. Dà alla terra le sue fondamenta.

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Se Dio è lo stesso Essere sussistente, vuol dire che in Lui non c’è nessuna potenzialità, cioè la sua essenza non è un poter essere rispetto al suo atto d’essere.

Un conto è dunque l’essere in atto, l’esistere, attuazione nella realtà della possibilità di esistere di un ente, e un conto è l’essere o essere come atto, l’atto di essere, attuazione di una potenza, che è l’essenza.

Una nozione che Caputo trascura è quella della sussistenza (subsistentia, ypostasis). Il sussistere è l’esistere in sé, che è proprio della sostanza, mentre l’esistere proprio dell’accidente è l’inerire. Ora, da ciò che ricaviamo da Es 3,14, impariamo che il sussistere non è proprio soltanto di un’essenza, di una forma o di una sostanza, cose normali in questo mondo, ma può appartenere anche all’essere. Ma ciò è proprio esclusivamente di Dio e lo caratterizza nella sua propria essenza o natura.

Ora nella creatura l’esistere o essere non sussiste, cioè non fa parte della sostanza o dell’essenza sussistente come in Dio, ma inerisce come un accidente, giacchè l’essenza della creatura è pensabile e completa come semplice possibile o creabile anche senza annettervi l’esistenza reale, anche se adesso essa non esiste più o esisterà in futuro.

Immagini da Internet: Dio Creatore, Michelangelo

27 marzo, 2024

Dio non esiste ma insiste. La teologia di John Caputo - Prima Parte (1/2)

 

Dio non esiste ma insiste.

La teologia di John Caputo

Prima Parte (1/2)

 

Da sempre Tu sei

Sal 93,2

 

Se non credete che Io Sono,

morirete nei vostri peccati

Gv 8,24

 

La teologia a briglia sciolta

 La Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna nei giorni 12-13 marzo scorso ha tenuto a Bologna un convegno sul tema «La Bibbia per la riforma della Chiesa». Uno dei relatori, Massimo Nardello, nel tenere una conferenza dal titolo «La normatività delle Scritture rispetto alla cultura nella teologia contemporanea», ha svolto un breve esame critico del pensiero del teologo americano John Caputo[1].

Il pensiero di questo teologo è interessante perché rappresenta una teologia basata non sul dato biblico, né sulla metafisica, nè sul dogma cattolico, ma sulla creatività poetica e sulla narrativa estrosa, cambiando senso alle parole senza rispettare le regole della logica, anche della grammatica, senza temere di cadere in clamorose contraddizioni, che lo portano a confutare se stesso.

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Se Dio non esiste, come può insistere? Insiste qualcuno che esiste, ma non insistere chi non esiste. Caputo dice che è impossibile formare un concetto di Dio. Allora come fa a parlare di Dio?

Il nome proprio di Dio, più adatto, quello di «essere», ce lo insegna Egli stesso. Comprendiamo anche noi che è il nome più adatto, giacchè che cosa c’è di più grande e di meglio dell’essere sussistente, assoluto, infinito ed eterno? La parola essere porta con sé altre parole, come ente, realtà, essenza, esistenza, causa, fine, sostanza ed altre, sicchè possiamo utilizzare la metafisica. Che fatica, tuttavia, davanti all’essere! Ci sentiamo smarriti, perduti. Ci pare, come diceva Hegel, di non afferrare nulla. Se prescindiamo da ogni ente che ci cade sottomano, che cosa resta? Non usciamo dalla realtà?

La teologia dunque è apofatica, perché rendendosi conto della limitatezza della nostra intelligenza e dei nostri concetti, anche rivelati, conclude nel silenzio, non trovando parole per esprimere ciò che sperimenta, intravede, sente e gusta. Per lei Dio non è nulla di ciò che la nostra mente nella sua limitatezza comprende come esistente, ma è infinitamente di più e del tutto misterioso. In tal senso Rahner ha ragione a chiamare Dio Mistero santo.

Se Dio non esiste e però ne parliamo, allora vorrà dire che parliamo di un personaggio immaginario, un idolo inventato da noi? In realtà il vero Dio, il Dio reale lo troviamo come Qualcuno di esistente fuori di noi, al di sopra di noi ed esistente prima di noi, nostro creatore, o lo inventiamo così come la mitologia ha inventato Giove, Giunone, Minerva, Venere e Marte? Allora Dio è una nostra idea o è una realtà?

Immagine da Internet: Dio Creatore, Michelangelo

26 marzo, 2024

Il mondo potrebbe esistere da sempre?

 

Il mondo potrebbe esistere da sempre?

Da quanto tempo esiste il mondo?

Una delle grandi gioie del nostro spirito è la conoscenza della bellezza dell’universo e della grandezza di Dio suo creatore. La rivelazione divina contenuta nella Bibbia soddisfa ampiamente questo nostro desiderio di conoscenza, anche se, parlandoci di realtà che non comprendiamo o perché superano la nostra comprensione, come la spiritualità divina e gli angeli o perché sono al di sotto della nostra comprensione, come la materia della quale è composto l’universo fisico, ci appaiono come misteri impenetrabili.

Una verità divinamente rivelata concernente il rapporto del mondo con Dio suo creatore è che Dio creando il mondo non lo ha creato da sempre, ma gli ha dato un cominciamento o inizio temporale. Ha creato dal nulla il mondo un certo tempo fa, mondo composto di corpi o sostanze materiali, esistenti nel tempo, e di spiriti o angeli, esistenti nell’eviternità

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Gli uomini e le cose hanno avuto ed hanno un inizio nel tempo e non possono non averlo avuto; e la loro successione, retrocedendo nel tempo, non può andare all’infinto, perché è impossibile un numero o quantità o successione infiniti di uomini o di cose. Il numero, la successione e la quantità reali, sensibili o intellegibili sono finiti: solo in matematica si può immaginare una quantità o una successione o numero infiniti.

 Il dogma del 1215 non ci rivela una verità, che la ragione non può dimostrare, ma conferma, come il dogma della creazione, ciò che la ragione già da sola può comprendere.

Immagine da Internet: parte del cosmo (Nasa)

25 marzo, 2024

Il rispetto delle razze è l’antidoto al razzismo

 

Il rispetto delle razze è l’antidoto al razzismo

Più volte il Papa ha condannato il razzismo ma ha anche esortato al rispetto delle diversità fra le culture e le religioni, volute da Dio, chiamate a convivere pacificamente e ad integrarsi vicendevolmente nella conservazione della propria identità, che è una ricchezza da offrire ai fratelli e all’intera umanità. Questo vale anche per la diversità delle razze.

La dimensione materiale, fisica e biologica della persona certamente non fa sorgere da sé la condotta morale e religiosa, nonché la vita dello spirito e della cultura. Sarebbe assurdo infatti pensare che lo spirito, chiamato a governare il corpo, possa essere guidato dal corpo. 

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Immagine da :

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-11/quo-253/un-mosaico-di-razze-e-culture.html

21 marzo, 2024

Israele popolo di Dio - Seconda Parte (2/2)

 

Israele popolo di Dio

Seconda Parte (2/2)
 

Come mai Israele fa ancora resistenza a Cristo?

Quello che d’altra parte si stenta a capire è come mai Israele, dopo 2000 anni che è venuto il Messia, ancora non lo riconosce. Consolano e danno speranza le parole di San Paolo:

«Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore, ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto» (II Cor 316). «La parola di Dio non è venuta meno. Infatti non tutti i discendenti di Israele sono Israele; né per il fatto di essere discendenti di Abramo, sono tutti suoi figli» (Rm 9,6-7). 

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Per validi motivi storici, corrispondenti alla rivelazione biblica, è giusto che Gerusalemme, governata dagli Israeliani, sia la capitale di Israele. Nel contempo è giusto e doveroso che il governo israeliano conceda libertà di culto a cristiani e musulmani, in forza del diritto alla libertà religiosa.

È encomiabile la venerazione dei musulmani per Gerusalemme, ma essi devono rinunciare alla pretesa di essere loro i signori di Gerusalemme al posto di ebrei e cristiani, perché tale loro pretesa non ha fondamenti né storici, né religiosi, né giuridici, ma è effetto di imprudente credulità in Maometto, sempre intento a favorire al massimo il suo popolo, gli Arabi.

Quanto ai cristiani, essi vedono con gli ebrei in Gerusalemme la prefigurazione della Gerusalemme celeste. Per questo essi anche a Gerusalemme svolgono la loro opera evangelizzatrice nei confronti di ebrei e musulmani secondo le direttive del Concilio Vaticano II. La comunità cattolica di Gerusalemme è parte integrante della Chiesa cattolica.

Immagine da Internet: “La Jérusalem céleste“, extraite de la Tapisserie de l'Apocalypse du Château d'Angers, France.

20 marzo, 2024

Israele popolo di Dio - Prima Parte (1/2)

 

Israele popolo di Dio

Prima Parte (1/2)

Sorprende come il popolo ebraico

 sappia conservare la propria identità razziale

La Sacra Scrittura, rivelazione di Gesù Cristo, Figlio di Dio, è la testimonianza scritta delle origini, dei protagonisti, della sapienza, delle istituzioni, della letteratura e della storia travagliata ed edificante, amara ed entusiasmante, scandalosa ed affascinante, umanissima e straordinaria, banale e prodigiosa, unica tra quella di ogni altro popolo, di un popolo prediletto da Dio, il popolo d’Israele, perciò detto «popolo di Dio».

Israele è un popolo di una precisa razza, di una precisa lingua, di una precisa religione, organizzato secondo un preciso sistema politico, proprietario di un preciso territorio: il popolo ebraico o popolo d’Israele, oggi costituente lo Stato d’Israele residente nel suo territorio con capitale Gerusalemme.

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Un problema esegetico che alcuni tra noi cristiani pongono è quello di sapere se la rivelazione ricevuta da Abramo della terra promessa è vera rivelazione divina, oggetto di fede teologale o è un’idea che si fece Abramo, trasmessa poi ai suoi posteri come rivelazione divina, e sempre creduta tale dagli Ebrei fino agli Ebrei di oggi.

Ora la Chiesa, erede della rivelazione veterotestamentaria, che cosa ci dice? Ci dice qualcosa in merito? Che gli Ebrei siano i legittimi possessori della Palestina perché Dio ha voluto così è verità di fede anche per noi cristiani? Per noi cristiani la tesi secondo la quale Dio ha assegnato ad Israele il possesso della Palestina è Parola di Dio o è una convinzione solo umana e discutibile, che gli Ebrei si sono fatti a partire da Abramo? 

Infatti la moderna esegesi storico-critica ha dimostrato come molti dati che la Scrittura soprattutto veterotestamentaria sembra presentare come rivelazione divina o come dato rivelato, ad un esame più attento condotto con i metodi esegetici moderni, si sono rivelati idee proprie della cultura del tempo. Si pensi solo alla tesi dell’inferiorità della donna o al precetto dello herem, che comporta la distruzione totale del nemico.

Immagine da Internet

19 marzo, 2024

La falsità come principio della violenza - Seconda Parte (2/2)

 

La falsità come principio della violenza

Seconda Parte (2/2)
 

La Chiesa ha preferito Aristotele a Platone

 Quando i Padri della Chiesa si sono accostati al pensiero greco alla ricerca di quanto in esso poteva essere utilizzato per edificare la teologia cristiana, preferirono utilizzare Platone piuttosto che Aristotele perché a loro sembrò essere più religioso, più spirituale e più sublime di quanto lo fosse Aristotele. In realtà, invece, non si accorsero che, al di là delle apparenze, era il pensiero aristotelico ad essere più vero e più realista di quello platonico e che anzi esso celava gravi errori che invece non erano presenti nella filosofia aristotelica. Ci fermiamo qui alla questione della verità e della falsità.

Sia per Platone che per Aristotele la verità  è corrispondenza del pensiero con l’essere, per cui l’uno è l’altro ammettono che mentre l’uomo è nel vero adeguando il proprio pensiero alla realtà, Dio (il Motore immobile di Aristotele, o il Demiurgo di Platone) produce il reale attuando il proprio pensiero come modello del reale.

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Aristotele stabilisce quattro forme di falsità intellettuale: quella dello scettico (skeptikòs), quella del protervo (apàideutos), quella del mentitore (pseustes) e quella del sofista (sofistès).

Bisogna distinguere la verità del giudizio dalla verità come veracità dell’eloquio o nel parlare, detta anche sincerità. La verità del giudizio è l’adaequatio intellectus et rei e può essere gnoseologica, se è adeguazione del giudizio alla cosa, od ontologica, se è adeguazione della cosa al giudizio. La verità è anche l’identità intenzionale del pensiero all’essere; è l’atto dell’intelletto in atto di conoscere, è il conoscere in atto.

Invece il pensiero in potenza è realmente distinto dal pensabile, che è il pensato in potenza.

Per Vattimo la verità è solo la verità debole, dimessa, ma ciò non gli risparmia l’assolutismo perché comunque non può non pronunciarsi in modo assoluto. È la solita trappola nella quale cadono tutti gli scettici: è vero che non esiste la verità.

Alla verità del pensare o dell’essere corrisponde la verità nel dire e questa è la veracità, che è quella virtù per la quale si dicono le cose come stanno, per la quale, come dice Cicerone, le cose restano «immutate». Dice San Tommaso: «Veracitas attendit ad debitum moralem, in quantum scilicet ex honestate unus homo alteri debet veritatis manifestationem».


Immagine da Internet:
- Gianni Vattimo

18 marzo, 2024

La falsità come principio della violenza - Prima Parte (1/2)

 

La falsità come principio della violenza

Prima Parte (1/2)

                                                                                         Il diavolo è menzognero e padre della menzogna

Gv 8,44     

 

Il rispetto della verità è un dovere morale

 

Nessuno inganni in questa materia il proprio fratello

I Ts 4,6

Dio ci ha creati con un’inclinazione spontanea del nostro intelletto alla conoscenza e all’amore per la verità, ossia a riconoscere le cose come sono e ad adeguare i nostri giudizi alla realtà delle cose. Se permettiamo alla nostra ragione di percorrere fino alla fine il suo percorso naturale, sentiamo il bisogno e il desiderio di conoscere la verità prima, suprema ed ultima, la verità assoluta, sussistente ed eterna, che è Dio, sorgente, principio, criterio e causa di ogni altra verità, trovando nella visione di questa verità la nostra beatitudine.

Ma, a causa del peccato originale, per il quale l’uomo si è lasciato sedurre dal demonio, padre della menzogna, c’è in tutti noi anche una tendenza contraria, una ripugnanza per la verità, c’è la voglia di non adeguare il nostro intelletto alle cose come sono, c’è la tendenza a seguire la nostra inclinazione al peccato e, per dare una parvenza di giustificazione al peccato che vogliamo fare, abbiamo la tendenza a inventare false ragioni. 

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La misura della verità del pensiero o del giudizio o del sapere sono le cose o gli enti che ci stanno davanti o attorno, la realtà visibile e invisibile che ci circonda, ci sta sotto, è alla pari di noi – le altre persone - e ci sovrasta – Dio e gli angeli - compresa la realtà della nostra stessa persona, gli «oggetti», da ob-jectum: posto-davanti.

La carità non è mai impositiva ed autoritaria. Nulla è di più contrario alla carità della violenza. In ciò Vattimo ha ragione. Quello che gli sfugge è che la carità non dice sempre e solo mitezza e tenerezza, ma anche fortezza, coraggio, attitudine al combattimento, lotta fino alla vittoria sul nemico. Infatti, se la carità impone di amare gli uomini nostri nemici, ci impone di odiare il peccato, la violenza, la falsità.

Pensiero forte non vuol dire necessariamente pensiero violento. Pensiero forte e pensiero debole devono stare assieme, così come la scienza convive con l’opinione, il sapere certo con la dialettica. Lo sbaglio di Vattimo è quello di voler sostituire il pensiero forte con quello debole credendo di poter fondare una metafisica che «indebolisce» l’essere e lo riduce a «evento».

Vattimo attacca la metafisica che per lui sarebbe quel pensiero forte che genera i dittatori e i tiranni. Niente di più falso. Vediamo brevemente che cosa è in realtà la metafisica. Essa è la scienza che ha per oggetto primario la questione della verità. E per conseguenza ha per oggetto la falsità, che è l’opposto della verità. Chi disprezza la metafisica dà prova di non amare la verità. Infatti Aristotele dimostra nella sua Metafisica che essa è la scienza delle verità primarie della ragione, i punti di partenza e le basi di tutto il sapere umano.

Immagine da Internet: Giani Vattimo

17 marzo, 2024

L’avventura della metafisica - Parte Sesta (6/6)

 

L’avventura della metafisica

Parte Sesta (6/6) 

 

L’uomo-essere e l’essere-uomo

Con questa concezione della metafisica si può immaginare che cosa diventa la metafisica e che cosa diventa l’uomo: la metafisica si immiserisce e restringe, si chiude nei limiti della storia, del corruttibile e del contingente, e lo sguardo diventa incapace di riflettere, di penetrare, di approfondire, di distinguere, di unire, di intuire, di astrarre, di spaziare, di sintetizzare nell’ordine dell’essere,  nonchè di purificarsi ed elevarsi al mondo del puro spirito, e dell’orizzonte infinito dell’intelligenza, della conoscenza, della coscienza, della logica, dell’anima, degli angeli, della verità, della libertà, della vita, del sacro, del mistero, del divino, della trascendenza, dell’infinito, dell’assoluto, dell’eterno.

L’uomo, per Rahner, è «l’assoluta apertura all’essere in genere». Questa maniera metafisica di definire l’uomo è certamente suggestiva, perchè effettivamente l’uomo, come osserva anche San Tommaso, in quanto possiede un’anima spirituale, è un ente è «atto a convenire con ogni ente» (natum convenire cum omni ente).

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Fontanellato, 7 marzo 2024


Il concetto rahneriano di «apertura», desunto da Heidegger (Offenheit) è bello ed oggi usatissimo, ma ha un doppio senso: un conto è l’essere aperto nel senso di potersi aprire e un conto è l’essere effettivamente aperto.

L’uomo è essenzialmente aperto con l’intelligenza all’essere in quanto vero, ma non con la volontà. Sta a lui in tal senso, sta alla scelta di ciascuno di noi, aprirsi o chiudersi all’essere in quanto bene e Dio, sommo essere e sommo bene.

Quanto poi alla natura umana, è importante tener presente che, come sappiamo anche dal dogma cattolico, essa non è, come crede Rahner, una semplice possibilità astratta, un qualcosa di indeterminato e di indefinibile, un materiale informe che può assumere infinite forme, quante ognuno vuol imprimere in essa, no: la natura umana è un’entità ben precisa ed immutabile, creata da Dio, comune a tutti gli individui, base quindi dell’uguaglianza e fratellanza umane, entità sostanziale vivente, dotata di accidenti propri, composta di anima e corpo, corruttibile nel corpo, immortale nell’anima, composta di materia e forma, dualità di maschio e femmina, delimitata e definita quindi per genere e differenza, sì che l’agire umano deve lasciarsi regolare, moderare e misurare da ben precise leggi  poste da Dio stesso nella natura maschile e femminile, affinchè l’uomo possa raggiungere il fine per il quale è stato creato.

È in linea con questa prassi educativa secolare della Chiesa che Papa Francesco, nel solco delle indicazioni conciliari, ripropone il pensiero dell’Aquinate come stimolo di progresso e come soccorso ai bisogni intellettuali e spirituali del nostro tempo e come metodo critico per il vaglio delle proposte teoretiche che ci vengono dalla modernità.

Immagini da Internet: Karl Rahner, Papa Benedetto XVI e Papa Francesco