Terza
ed ultima parte
La
misericordia fasulla di Walter Kasper
Non dire: «la sua misericordia è grande;
mi perdonerà i molti peccati»,
perché presso di lui ci sono misericordia ed ira,
il suo sdegno si riverserà sui peccatori.
Non aspettare a convertirti al Signore,
poiché
improvvisa scoppierà l’ira del Signore
e al tempo del castigo
sarai annientato
Sir 5,6
La «grande
scoperta» di Lutero secondo Kasper
Non c’è più nessuna condanna
per quelli che sono in Cristo Gesù
Rm 8,1
Afferma
Kasper:
«Il
riconoscimento che la giustizia di Dio non è una giustizia che castiga il
peccatore, ma che logiustifica è la grande scoperta protestante di Martin
Lutero, una scoperta che liberò anche lui dalla paura del peccato e dai
tormenti della coscienza» (p.121). Più avanti: «La novità della riforma
protestante consistette per Lutero nella scoperta del senso biblico originario
della giustizia di Dio, che non è una giustizia castigante, ma una giustizia
che rende liberi e giusti e che redime» (p.154).
Come è noto,
Lutero si riferiva al passo della Lettera
ai Romani:
«Indipendentemente
dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e
dai profeti: giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti
quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi
della grazia di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in
virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3, 21-24).
È vero che
qui Paolo per «giustizia di Dio» intende la sua misericordia giustificante. Ma in molti altri luoghi Paolo parla della
giustizia punitrice o di altre forme di giustizia. Quindi falsamente Kasper
identifica giustizia e misericordia sic
et simpliciter, trascurando gli altri possibili significati del concetto.
Considerando
infatti la giustizia nel senso lato che abbiamo visto, non c’è dubbio che a
certe condizioni, come in questo passo di Paolo, possa coincidere con la
misericordia. Ma in questo senso la giustizia può coincidere anche con altre
virtù divine, come la carità, la magnanimità, la benevolenza, la generosità ed
altre.
Il concetto
biblico originario di giustizia è invece quello che ho esposto sopra,
coincidente con la bontà divina, portata
a diffondere sé stessa. Nell’ambito di questo concetto generale la Bibbia
distingue la condotta di Dio verso i buoni e quella verso i malvagi. La
condotta verso i buoni è quella per la quale rende buoni i cattivi, ossia la
giustificazione, che è effetto della misericordia e che premia i buoni. Invece
la giustizia in senso stretto è la giustizia punitiva, che castiga i malvagi.
Quindi è falso dire che il concetto originario di giustizia sia la
misericordia. Su questo punto Lutero non fa nessuna scoperta, ma semplicemente
falsifica la Scrittura.
Ridurre la
giustizia alla misericordia falsa la giustizia e falsa la misericordia e non
risolve niente, non dà affatto pace alla coscienza. Ciò infatti toglie il timor
di Dio, non pone più freno al peccato, ma ci impegola in esso, ci rende
presuntuosi ed insensibili al pentimento, e accentua così il rimorso della
coscienza.
Secondo
Kasper, Lutero, con la sua teoria della giustizia divina, avrebbe rasserenato
gli animi in ansietà per loro salvezza a causa di quella che egli
calunniosamente chiama la dottrina della «doppia predestinazione» in Sant’Agostino
(p.154). Ma in lui non c’è nessuna doppia predestinazione, la quale è una
dottrina eretica, condannata dalla Chiesa già nel Concilio di Quierzy dell’853.
Secondo questa dottrina, infatti, Dio non causa solo la virtù di coloro che si
salvano, ma anche il peccato di coloro che si dannano.
Ora invece
la vera dottrina agostiniana della predestinazione è chiarissima e non si
presta a nessun equivoco. Essa afferma infatti solo la predestinazione al paradiso e niente affatto quella
al’inferno:
«La
predestinazione è la prescienza e la preparazione dei benefìci di Dio, per i
quali certissimamente sono liberati, tutti coloro che sono liberati»[1].
Invece è proprio Lutero che afferma la
predestinazione all’inferno, peraltro da parte di un Dio, come quello di
Ockham, che decide contro qualunque esigenza di razionalità. Ecco alcun passi:
«In tutte le
creature tutto si produce con necessità. Dev’essere ben chiaro che Dio fa
tutto, il male come il bene. Tanto la vocazione di Paolo come l’adulterio di
Davide è opera sua»[2]; «È volontà di Dio che l’uomo sia vinto dal
peccato, anzi è addirittura volontà di beneplacito. Sì. Dio vuole che l’uomo
sia vinto da ciò che lui, Dio, aborre al massimo grado, e lo rende schiavo di
ciò che intende punire col massimo rigore»[3].
Alla faccia della misericordia! E questo sarebbe il Dio «propizio», che placa i
«tormenti della coscienza?
Quanto alle
parole di Paolo «tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in
virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3, 21-24), sappiamo come
Lutero ha preso a pretesto queste parole dell’Apostolo per sostenere la sua
dottrina della giustificazione per la sola grazia o per la sola fede senza le
opere, perché secondo lui se le opere acquistano meriti, la grazia non sarebbe
più grazia e la fede non sarebbe più sufficiente per essere giustificati.
Al riguardo,
è noto come Lutero abbia voluto trovare una contraddizione fra la grazia e la
fede da una parte e dall’altra il merito e le opere, che fino ad allora la
Chiesa associava, per cui ritenne che, per evitare la contraddizione e per
salvare la grazia e la fede, bisognava escludere le opere e il merito. Ma il
Concilio di Trento, ribadendo la dottrina tradizionale, avrebbe chiarito che
non c’è alcuna contraddizione e che le opere sono necessarie (Denz.1532-1538)
insieme con la grazia e la fede, e che il merito
è dono della stessa grazia (Denz.1548).
Infatti
nell’opera della giustificazione, la grazia riguarda la parte di Dio, mentre la
fede, le opere e il merito riguardano la parte dell’uomo in grazia. Invece
Lutero interrompe e blocca nell’uomo il circolo di vita soprannaturale, il
quale, uscendo da Dio come grazia, scende nell’uomo, gli toglie il peccato e lo
costituisce in grazia, sicché egli, una volta in grazia, è in grado di compiere
opere meritorie della vita eterna.
Quanto alla
paura del peccato, essa non è affatto disdicevole, così come è normale e
doveroso nei confronti di quelle cose che possono esserci di danno o essere
pericolose, davanti alle quali non sapremmo come difenderci o ripararci. Una
ragionevole e fondata paura rende avveduti, cauti, e circospetti. Certo non si
deve essere pavidi, spaventarsi per poco o per pericoli immaginari, sarebbe una
condotta da persone immature. Ma chi non ha paura di una cosa oggettivamente
temibile o paurosa, per saperla fuggire o tenersi alla larga, non è una persona
coraggiosa, ma è imprudente e temeraria.
Non è da
vili fuggire da cose che incutono paura ai coraggiosi, ma è da persone sagge.
Fare gli spacconi è stoltezza. Chi ama il pericolo, dice il proverbio, cadrà in
esso. Ora, quale pericolo maggiore del peccato? «Fuggite il male con orrore»,
ci comanda San Paolo (Rm 12,9). Il nada
te espante, nulla ti spaventi di
Santa Teresa d’Avila è un incitamento al coraggio, ma non alla temerarietà.
Certamente anche Teresa aveva paura di molte cose e se ne teneva prudentemente
alla larga, soprattutto dal peccato.
Kasper
sbaglia, quindi, quando disapprova i predicatori che «incutono timore negli
uomini con l’immagine di un Dio giudicante o vendicativo» (p.237). In realtà il
timor di Dio, come risulta chiarissimamente dalla Bibbia, è una virtù
indispensabile nei nostri rapporti con Dio, per non prenderLo sottogamba, come
faceva Lutero con la sua inanis fiducia[4],
ma per essere persone responsabili e renderci conto della serietà della vita
cristiana.
Il timor di
Dio, per la Scrittura, è il timore di
offendere Dio peccando, dettato
dall’amore. È chiaro che da questo timore nasce indirettamente, ma
necessariamente il timore del castigo, benché questo sia superato nell’amore perfetto (I Gv 4,8). È vana furbizia,
allora, pretendere di offendere Dio impunemente col pretesto che Egli è
misericordioso.
Certamente
il predicatore, nel preparare il cibo per le anime, affinché esso sia gradevole
e nutriente, deve saper dosare
saggiamente l’ingrediente del timore, in modo che esso non sia eccessivo,
se no provocherebbe disperazione, ma non sia neppure troppo scarso, altrimenti
provocherebbe presunzione. I due passi di I Gv 4,8, che esclude il timore e Fil
2,12 che lo ammette, non vanno presi isolatamente l’uno dall’altro, quasi si
trattasse di un aut-aut, ma devono essere contemperati
l’uno con l’altro, così da ottenere un sapore gradevole e salutare.
Occorre
inoltre distinguere il tormento della
coscienza dal rimprovero della
coscienza. Nella Bibbia il tormento, soprattutto interiore, è uno scorticamento
o tortura interiore della coscienza, o dovuto alla cattiveria umana (Sap 2,19;
Is 53,11), o associato al castigo infernale (Gdt 16,17, Sap 3,1; Lc 16,23, Ap
14,11; 18,17; 20,10) o a ciò che lo preannuncia o gli assomiglia (Sal 77,11; Gb
15,20; Pr 11,17; 9,5), in particolare all’azione di Satana sull’anima (Gb 3,26;
Mt 15,22), l’«accusatore» (Ap 12,10), oppure dovuto al semplice scrupolo di
coscienza (Sir 14,6; I Tm 6,19), la stoltezza di chi si tormenta da solo
inutilmente per manìa di perfezione, dimenticando che Dio è misericordioso.
Probabilmente questo è capitato a Lutero da giovane.
Apparentemente
simile, eppure ben diverso dal tormento infruttuoso, improduttivo e corrosivo
della coscienza, impaccio, sciagura e maledizione dello spirito, spesso causato
dal demonio, e dall’attaccamento al peccato, fonte di tristezza, di accidia e
di disperazione, è il rimprovero sincero e schietto, seppur severo, della
coscienza retta ed onesta, che è la voce di Dio in noi. Questo rimprovero ci
disturba, se non siamo onesti con Dio e con noi stessi. Ma se siamo onesti, ed
amiamo sincerante Dio, benché quel rimprovero umìli il nostro orgoglio, ci
procuri confusione e disagio, ci fa in fondo piacere e ci dà speranza, perché
sentiamo che ci viene da un Dio che ci ama. Sentiamo tuttavia nella coscienza
come un peso, che ci opprime e ci intralcia. Desideriamo essere liberati.
Sentiamo come una ferita al cuore. Desideriamo essere guariti. La Confessione è
un sollievo, è una liberazione, è una guarigione, è una riconciliazione con Dio
e col prossimo.
È chiaro che
la tendenza al peccare resta. È chiaro che, passato un certo tempo, il soggetto
tornerà a peccare. Ma occorre sapersi accettare in una condizione che è comune
a tutti. Quello che conta è che adesso, appena confessati, c’è la gioia. E del
resto, il fedele sa di poter sempre contare sul perdono divino, poste dal
penitente le dovute condizioni, che il fedele del resto intende rispettare ogni
volta.
Il
rimprovero della coscienza suscita il pentimento, che è il dolore d’aver
peccato, il dispiacere, detto «contrizione» per aver offeso un Dio
infinitamente buono, Che tanto ci ha amati, da averci dato il Figlio a morire
in croce per la nostra salvezza. Di minor conto, ma anch’essa salvifica, è
invece l’«attrizione», che è il dolore per aver meritato il castigo. Vale di
meno, ma anch’essa ottiene il perdono, perché per ottenere il perdono da Dio, è
sufficiente considerare Dio come proprio Bene, anche se non si tratta del
dolore perfetto, che si riferisce all’amore di Dio in Sé stesso.
Il
pentimento spinge il peccatore a riconoscere e confessare la propria colpa
davanti a quel Dio che si ha offeso e a chiederGli perdono col proposito di
riparare o darGli soddisfazione. A questo punto Dio, impietosito, concede il
perdono.
Lutero,
invece, iniziò purtroppo la sua vita cristiana con un concetto sbagliato di
Dio, un Dio che è adirato senza che spieghi il motivo per il quale è adirato,
mentre corrispettivamente e per conseguenza la coscienza non si sente gradita a
Dio, ma da Lui rimproverata senza sapere quali peccati ha fatto. Per questo la
coscienza, anche se ritiene di aver compiuto opere buone, non può, come dice lo
stesso Lutero,
«esser certa
di non commettere molti peccati mortali nelle proprie migliori operazioni a cagione dell’occultissimo vizio della
vanagloria o dell’amor proprio»[5].
Ma ancora
più in radice, a livello conoscitivo ed intellettuale, il dramma di Lutero
nasce dalla convinzione ispiratagli dal volontarismo irrazionalista di Ockham,
che l’uomo peccatore ha una ragione talmente corrotta, mentre Dio è nel suo
volere talmente libero dal principio di non-contraddizione, che anche con la
fede l’uomo non può sapere con certezza quali sono i comandamenti di Dio e per
conseguenza non può mai essere sicuro di aver fatto o non fatto la volontà di
Dio e di non meritare il castigo.
Lutero,
nella sua falsa umiltà e nel suo reale suo orgoglio e voglia di essere libero
da ogni legge, accontentando la sua irrefrenabile concupiscenza, sentiva il
rimprovero della coscienza come il tormento procuratogli da un Dio crudelmente
adirato ed insopportabile. Tirò fuori allora la famosa domanda: «come posso
trovare un Dio propizio?», una domanda ipocrita, che, tradotta nel suo vero
significato, suona così: «come posso trovare un Dio che mi lasci fare i miei
comodi senza rompermi più le palle con le sue sgridate?». Da qui venne la sua
«grande scoperta» del Dio «misericordioso», che lo esentava dall’obbedire alla
legge col pretesto che la salvezza è dono gratuito della sua misericordia.
Domanda
ipocrita con risposta furbesca – quella della Turmerlebnis[6]
– perché, se fosse stato sincero in questa ricerca del Dio propizio, non
avrebbe dovuto fare altro, come ogni buon sacerdote, che continuare a dir Messa
e a confessarsi, giacché dove e come maggiormente, per istituzione di Cristo,
otteniamo la misericordia, il perdono e la benevolenza del Padre, ce Lo
propiziamo, plachiamo la sua ira, Gli diamo soddisfazione in Cristo per i
nostri peccati, che nel sacramento della Penitenza e nell’offerta del divin
Sacrificio?
E invece,
quale fu la sua grande scoperta? La sua bella invenzione? Quella di abolire il
sacramento della Confessione e il sacrificio della Messa. Nella Turmerlebnis Lutero si è sentito, come
egli dice, «spalancare la porta del paradiso?». Ebbene, quando e come, per
garanzia di Cristo stesso, ci viene effettivamente aperto l’accesso al
paradiso, se non dalle chiavi di Pietro?
E allora la bella scoperta di Lutero non ha forse il sapore di una tragica
buffonata?
Con la sua scoperta, ci assicura Kasper, Lutero
ha liberato l’umanità dal «tormento» della coscienza, cosa nella quale la
vecchia Chiesa cattolica, col suo insistere sul dovere di obbedire a precetti
irrealizzabili, non aveva avuto successo, ma creava o ipocriti o falliti. Da
qui la vecchia balla protestante, diffusa per esempio da Hegel, per la quale
non i cattolici, ma i protestanti sono uomini veramente liberi secondo la
«libertà dello Spirito».
Ma il
veramente tragico doveva ancora venire e si sarebbe manifestato nella sua
immane spaventosità a livello collettivo solo ai nostri tempi. Confondendo il
tormento della coscienza col rimprovero della coscienza, Lutero ha finito per
estinguere o far tenere in non cale il
rimprovero della coscienza e provocare quella che la Scrittura chiama
«durezza di cuore»: in queste condizioni il soggetto diventa incorreggibile,
perchè per suo comodo finisce per relativizzare la stessa legge morale, mentre
la sua coscienza, pur peccando, basandosi sull’illusione di essere comunque
perdonato, non sente più il rimorso, che invece è utile campanello d’allarme,
per cui finisce per considerare bene o quanto meno «perdonato» ciò che è male.
La
conseguenza è che il soggetto, illuso da una falsa pace e da una falsa
sicurezza, persevera nel peccato, senza curare di emendarsi, ma con la
convinzione di salvarsi comunque. Per questo il misericordismo luterano finisce
per creare degli animi crudeli, capaci di commettere le peggiori atrocità senza
batter ciglio, magari per obbedire al Führer. Ecco a che cosa porta la falsa concezione
luterana della misericordia.
Lutero,
inoltre, come si sa, pretendeva di essere assolutamente certo di essere in
grazia e di essere predestinato, senza accettare in alcun modo lo sguardo
severo di Dio, sguardo che egli deformava in modo orribile, vittima com’era di
una concezione occamista di Dio come un Dio adirato senza ragione, che non
spiega cioè il motivo della sua ira.
Non sopportando più questa situazione
disperante, e si può ben capire, passò all’eccesso opposto – e questa sarebbe
la «grande scoperta» - dell’interpretazione misericordista di Rm 3,21, ossia
non riuscì a raggiungere il vero Dio biblico, misericordioso sì, ma anche
giusto, e restò prigioniero dell’orizzonte occamista dell’irrazionalismo
volontarista, per cui passò da un Dio adirato senza ragione a un Dio
misericordioso senza ragione, ovvero un Dio che agisce contro la nostra
ragione, quasi che non ne fosse il creatore e il supremo modello. Da qui il Dio
che castiga l’innocente e che premia il malfattore.
Lo sbaglio
di Lutero fu il credere che sia impossibile, contro le parole stesse di
S.Paolo, «non essere consapevole di colpa alcuna» (I Cor 4,4). Lutero diceva di
affidarsi al giudizio divino, ma lo faceva con una «vana fiducia», come gli
rimprovererà il Concilio di Trento (Denz.1533), perché si rifiutava di
collaborare con le opere all’opera della grazia.
Invece di
cessare di praticare il sacramento della Confessione, Lutero avrebbe fatto
meglio ad imparare a confessarsi bene, giacché è proprio nella Confessione ben
fatta, con coscienza, attento esame, dolore e sincera accusa dei propri
peccati, nonché la volontà costante di correggersi, di riparare e di fare
penitenza, che la coscienza viene liberata dal tormento dei falsi sensi di
colpa, diventa delicata e sensibile, e trova la pace.
Aggiungiamo
che il desiderio di Lutero di aver la certezza di essere in grazia era giusto;
ma Lutero pretendeva troppo, allorché si convinse nella famosa «esperienza
della torre» (Turmerebnis), che
Cristo stesso gli aveva assicurato come verità di fede di essere in grazia e
che sarebbe andato in paradiso. Ma il Concilio di Trento avrebbe proibito di
farsi delle convinzioni del genere.
La prima fu esclusa con le seguenti parole:
«nessuno può sapere con certezza di fede, alla
quale non può soggiacere il falso, di aver conseguito la grazia» (Denz.1534).
E la seconda
in questo modo:
«nessuno, finché
vive in questa mortalità, deve presumere circa l’arcano mistero della predestinazione,
fino al punto da stabilire con certezza di essere in modo assoluto, salvo
speciale rivelazione, nel numero di predestinati» (Denz.1540).
Qui il
Concilio si riferisce a una rivelazione privata, quindi di carattere
eccezionale e straordinario. Invece Lutero, in base alla sua interpretazione di
Rm 3,21, pretendeva trasformare questa sua convinzione soggettiva in una verità
di fede valida per tutti. Questa sarebbe la «grande scoperta» di Lutero.
S.Tommaso, riguardo alla convinzione di essere in grazia, dice che il fedele
può congetturare di essere in grazia da alcuni segni interiori[7],
soprattutto la pace della coscienza, che si ottiene con una buona Confessione.
Interpretazione
di fede della pandemia
Occorre sì saper vedere nella pandemia la
misericordia di Dio, ma non in forza di una concezione volontarista o fideista
di Dio, secondo la quale può essere bene per Lui ciò che è male per noi. No: la
pandemia è male sia agli occhi di Dio che agli occhi nostri. Solo che Dio sa
trarre da questo male di pena, grazie alla croce di Cristo, la cancellazione
del male di colpa, premessa necessaria per l’estinzione del male di pena.
Occorre dire inoltre che, da un punto di
vista di fede, la pandemia viene ad essere un segno della divina misericordia
non evidentemente in quanto castigo o male di pena, giacché punire e far
misericordia si escludono a vicenda, ma in quanto, accettando con fede questa
pandemia in sconto dei nostri peccati, per misericordia del Padre, possiamo in
Cristo liberarci ed essere liberati dal male di colpa e di pena.
Non si deve neppure interpretare la pandemia
secondo la concezione dialettica hegeliana della Redenzione, basata sul
perverso principio, secondo il quale dal male sorge il bene, dal dolore la
gioia, dalla morte la vita, dal negativo il positivo. Invece nella vera
concezione cristiana, se dal male sorge il bene, se dal dolore sorge la gioia,
se dalla morte sorge la vita, ciò non avviene per una semplice opposizione
dialettica, quasi che la tesi (male, dolore e morte) produca necessariamente e
logicamente l’antitesi (bene, gioia e vita), ma perchè è la potenza e la
misericordia del Dio del Bene, della Gioia e della Vita, che trae il positivo
dal negativo, la grazia dal peccato, la gioia del dolore, la vita dalla morte.
Mater
misericordiae e speculum iustitiae
Kasper conclude il suo libro con una breve
meditazione su Maria Madre di Misericordia, ma invece di presentare la Madonna
nella visione cattolica, ne raccomanda l’interpretazione luterana, come
«modello del “sola gratia” e “sola fides”» (pp.306-307). Inoltre, cosa che non
sarebbe andata bene neppure a Lutero, ne fa la campionessa del suo
misericordismo, trascurando completamente di citare i versetti del Magnificat fondamentali e indispensabili
per una corretta e completa concezione della mariologia, che non sia un’esaltazione della donna piamente e
passivamente rassegnata per non dire indifferente alla violenza dei prepotenti,
che calpestano i diritti dei poveri, ai dittatori che opprimono libertà dei
popoli e all’inganno degli eretici che spingono le anime all’inferno.
Rileggiamo questi notissimi incoraggianti e
consolanti versetti, che, in duemila anni di cristianesimo, hanno fatto sentire
ai popoli cristiani la misericordia di Maria, proprio perchè Ella, come
«esercito schierato in battaglia», li ha liberati dalle mani dei loro
oppressori:
«Ha spiegato
la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni; ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni
gli affamati; ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1, 51-54).
Maria non è stata un inerte ricettacolo della
grazia, né una bigotta credulona, né una mezza figura che tollera le
ingiustizie, né una paciona, alla quale tutto va bene, ma una donna saggia,
giudiziosa, forte e coraggiosa, estremamente vigile dal punto di vista
razionale, che ci è maestra di come la fede suppone la ragione e di come per
salvarci occorre che collaboriamo attivamente col sacrificio di noi stessi alla
Redenzione di Cristo.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato,
27 aprile 2020
[1] De
dono perseverantiae, c.14; cf San Tommaso, Sum.Theol., I,q.23.
[2] Dalla Voce LUTHER nel Dictioinnaire de Théologie Catholique.
[3] Martin Lutero, La Lettera ai Romani, a cura di F.Buzzi, Edizioni San Paolo,Torino
1991, p.219.
[4] Concilio di Trento, Denz.1533.
[5] Cit. da J.B. Bossuet, Storia delle variazioni delle Chiese protestanti, vol.I, p.11,
edizione del 1795.
[6] R.Garcìa Villoslada, Martin Lutero. Il frate assetato di Dio, Istituto Propaganda
Libraria, Milano 1985, vol.I, pp.426-436; J.lorz-E.Iserloh, Storia della Riforma, Il Mulino,Bologna
1974, p.40.
[7] Sum.Theol.,
I-II, q.92, a.5.
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