Sul concetto rahneriano di Dio - Prima Parte (1/5)

 Sul concetto rahneriano di Dio

Prima Parte (1/5)

Esse Dei est ipsum eius intelligere

Sum.Theol., I, q.16, q.5

 

L’interpretazione rahneriana della gnoseologia tomista 

In un memorabile studio critico il grande teologo del secolo scorso, il Padre Stimmatino Cornelio Fabro, mise in luce la radice idealista della teologia di Rahner, mascherata sotto una falsa interpretazione della gnoseologia metafisica di San Tommaso, concentrando l’attenzione soprattutto su Uditori della parola[1]. Sorprende come lo studio di Fabro non sia stato appoggiato significativamente nell’ambito della Chiesa.

In quegli anni decisivi dell’immediato postconcilio era iniziata la scalata al potere dei rahneriani, i quali, fattisi la fama di protagonisti del Concilio Vaticano II, sfruttarono abilmente il prestigio ottenuto per seminare nella Chiesa un’interpretazione modernistica del Concilio, che suscitò la reazione lefevriana, dando nascita ad una logorante guerra tra fratelli, che dura a tutt’oggi.

Rahner interpreta la gnoseologia tomista in questi termini:

 «il primo principio basilare della metafisica tomista dell’essere e del conoscere è in realtà l’affermazione che il conoscere nel suo concetto primo e originario è la coscienza che l’ente ha del suo essere e perciò un oggetto è conosciuto nella misura un cui si mostra “ontologicamente” identico con il conoscente»[2].

Questa interpretazione è completamente falsa, essendo noto ad ogni tomista che in realtà per Tommaso il primo oggetto della conoscenza umana è la res extra animam, la realtà esterna sensibile, la quidditas rei materialis, mentre oggetto della coscienza è il concetto stesso della realtà esterna previamente formato dall’intelletto[3]. L’atto conoscitivo comporta sì una certa qual identificazione del conoscente con l’oggetto, ma non si tratta affatto di un’identificazione ontologica, bensì solo intenzionale o immateriale per mezzo di una rappresentazione. «La cosa conosciuta – afferma San Tommaso[4] - è la perfezione del conoscente secondo la rappresentazione (similitudinem) che possiede nell’intelletto». Tommaso ama ripetere l’adagio aristotelico: «non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra».

Invece per Rahner «il problema della conoscenza di un oggetto diverso dal conoscente non si risolve rifacendosi alla specie come immagine intenzionale»[5], ma si risolve con l’identificazione ontologica di conoscente e conosciuto, come abbiamo visto sopra. Eppure è proprio questa la soluzione prospettata da San Tommaso. Rahner pretende invece di escludere dalla conoscenza l’intenzionalità (esse intentionale o esse cognitum), che è precisamente quel modo dell’essere che la caratterizza nella sua essenza.

Rahner fa dire altresì a San Tommaso esattamente l’opposto di quello che effettivamente insegna su questo delicatissimo tema della conoscenza, affermando che Tommaso «rigetta la concezione volgare dell’atto conoscitivo come un urtare contro qualcosa, un protendersi intenzionalmente verso l’esterno»[6].

Cita senza capirla e in modo tronco un’asserzione di Tommaso, il quale, parlando della conoscenza dell’angelo, cita Platone per il quale il conoscere avviene «per contatto con la cosa intellegibile»[7], e fa dire a Tommaso che il conoscere non avviene in questo modo. Indubbiamente nel caso della conoscenza umana il primo contatto – che sia un urto o un tocco delicato non interessa - con la realtà non avviene certamente per un atto di coscienza, ma attraverso i sensi, ma ciò non esclude affatto l’intenzionalità della rappresentazione concettuale, quella che Tommaso chiama species intellegibilis.

L’essere intenzionale del concetto non è un «protendersi verso l’esterno». Questa è opera semmai delle mani nel senso del tatto. È chiaro che l’atto del pensiero è immanente all’intelletto. Ma il pensiero, mediante l’intenzionalità, porta all’interno della mente ciò che è fuori, privandolo della sua materialità. Certo l’intentio è un certo tendere, che però non va inteso come un moto verso l’esterno, ma è un tendere interiore verso l’oggetto.

Secondo Rahner infatti il conoscere non comporterebbe una determinazione intenzionale o rappresentativa del conoscente, ma una vera e propria determinazione ontologica, il che verrebbe a dire che la pietra non è presente nell’anima rappresentativamente, ma materialmente e realmente: l’anima diventa realmente la pietra. Del resto, per l’idealista l’essere è l’essere pensato, per cui nell’idealismo non c’è difficoltà ad ammettere una cosa del genere, assurda in clima realista come è quello di San Tommaso. L’essere diventa pensiero e il pensiero diventa essere. Ma non è certo questo il caso del realismo tomista!

Rahner respinge la dottrina realistica del conoscere in base al principio idealista: nulla viene nell’intelletto dall’esterno, ma tutto è esplicitazione dell’autocoscienza originaria:

«Spesso ci rappresentiamo la natura della conoscenza come una tavola su cui viene a iscriversi un qualche oggetto per il fatto che cade sopra di essa come provenendo all’esterno. Oppure ce la rappresentiamo come l’immagine di uno specchio su cui si riflette un qualsivoglia oggetto. … Nella teoria della conoscenza, in particolare nella difesa del cosiddetto realismo, della teoria dell’immagine o della dottrina della verità come concordanza di un’affermazione col suo oggetto troviamo sempre e in partenza simili modelli rappresentativi»[8].

Ma secondo Rahner le cose non stanno così.  Secondo lui la conoscenza non è conoscenza di un altro, ma di se stesso. La conoscenza coincide con l’autocoscienza. È «conoscenza in cui il soggetto conoscente, conoscendo, possiede se stesso e la propria conoscenza». Non esiste un sapere iniziale diretto dell’oggetto esterno, colto dai sensi, al quale sapere farebbe seguito la riflessione sull’atto compiuto e sull’oggetto conosciuto in quanto conosciuto, sì da prender coscienza di possederlo intenzionalmente o rappresentativamente e di averlo conosciuto, ma sin dall’inizio il conoscere è riflesso, è autocoscienza. Dice Rahner:

«Nell’atto semplice e originario del conoscere che si occupa di qualche oggetto incontrato, tale conoscenza con-conosciuta e tale oggetto della conoscenza con-conosciuto non costituiscono l’oggetto della conoscenza. Piuttosto questa conoscenza del fatto di conoscere qualcosa e la conoscenza di se stesso da parte del soggetto, cioè il cogliersi del soggetto, si collocano di per sé come all’altro polo dell’unico rapporto fatto di soggetto conoscente e di oggetto conosciuto. Tale conoscenza rappresenta in un certo modo lo spazio illimitato all’interno del quale il singolo oggetto di cui ci occupiamo in una determinata conoscenza primaria, può mostrarsi. Tale conoscenza soggettiva del conoscente rimane sempre atematica nel corso della conoscenza primaria di un oggetto che si annuncia dal di fuori; essa è qualcosa che si svolge per così dire alle spalle del conoscente, il quale tiene lo sguardo puntato sull’oggetto e non su di sé»[9].

Sulla base di questa con-conoscenza atematica preconcettuale, che poi è l’esperienza trascendentale, avviene, secondo Rahner, la conoscenza concettuale o tematica, la quale rappresenta e tematizza bensì la con-conoscenza originaria, senza però giungere a concepirla. Il suo contenuto non solo resta inesauribile al concetto – e questo è evidente per le verità di fede -, ma non è neppur colto dal concetto. Il concetto resta fuori. Solo l’esperienza trascendentale coglie il mistero del reale.

Per questo per Rahner i misteri della fede possono bensì essere concettualizzati, ossia tradotti in concetti (i dogmi), ma non concepiti ossia colti dal concetto. Noi produciamo un concetto, ma questo concetto non contiene l’oggetto. Il concetto, per Rahner ha un suo oggetto distinto dall’oggetto reale, dalla res, alla quale il concetto si riferisce.

La res, per esempio la natura divina, è colta dalla con-conoscenza, ossia dall’esperienza trascendentale, ma non dal concetto della natura divina. Allora il concetto a che cosa serve? Serve ad indirizzare all’esperienza trascendentale  e ad evocarla. Tuttavia lo fa non come immagine della res, ma come le molte vie che conducono alla medesima città.

Per Rahner non è che ad ogni cosa corrisponda un solo concetto, ma per una medesima cosa possono esistere più concetti, perché essi non sono fissi ma evolvono. Tranne i concetti empirici che sono univoci, per lui quelli filosofici e teologici sono equivoci. Non sono universali ed oggettivi, ma relativi ai soggetti pensanti, non hanno per tutti lo stesso significato. Questo sarebbe per Rahner il pluralismo. Originato dall’esperienza trascendentale, il concetto per Rahner rimanda all’esperienza trascendentale, dalla quale ha origine, ma senza concepirla, neppure nel concetto dogmatico.  Per Rahner il concetto non è uno per ogni cosa, ma ogni cosa può essere espressa in più concetti, come una medesima cosa può essere detta in più lingue. Da qui il suo relativismo ed evoluzionismo dogmatico modernista.

Rahner concepisce il rapporto pensiero-essere non come dualità di relativo-assoluto o esse intentionale-esse reale, ma sul modello della pila elettrica: polo positivo-polo negativo con azione reciproca alla pari. Ed è significativo pertanto che egli parli di due «poli». Così egli distingue due poli del conoscere: l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo. Essi sono i due poli dell’unico rapporto fra soggetto ed oggetto.

Come i due poli della pila elettrica, l’uno non può fare a meno dell’altro. Il conoscere qualcosa è inscindibile dal conoscere se stesso. L’essere dev’essere per forza autocoscienza. Che lo spirito nel conoscere conosca se stesso, è vero Ma perché mai identificare l’essere con lo spirito? Quello che Rahner dimentica è che il conoscere umano è conoscere qualcosa di esterno, il mondo o Dio, distinto dall’atto del conoscere, il quale pertanto o non si esaurisce nella coscienza di sé, ma comporta anche la conoscenza dell’altro, ossia della realtà. Il conoscere umano non è l’atto di un puro spirito o di una pura autocoscienza, ma l’atto di un soggetto corporeo, che attinge a realtà corporee.  Nella conoscenza umana non gioca solo l’essere spirituale, ma anche l’essere materiale. A risolvere tutto nell’autocoscienza si esce dalla realtà. Per questo i tomisti, che hanno questo senso della realtà, parlano di realismo.

In tal modo del problema del conoscere si possono dare due soluzioni opposte, una realista ed una idealista. Il realista si accorge di conoscere la realtà e per spiegare questo fatto elabora la dottrina dell’idea come mezzo del conoscere e rappresentazione del reale. La conoscenza è vera se l’idea è adeguata alla realtà.

Nell’idealismo accade l’inverso. Siccome per l’idealista la conoscenza non parte dalla realtà come per il realista, ma parte dall’idea come autocoscienza, si trova a dover spiegare come dall’idea l’intelletto può passare alla realtà. Egli risolve il problema sostenendo che la conoscenza è vera se è la realtà ad essere adeguata all’idea, per cui identifica l’ideale col reale. Ma allora la realtà la crea lui?

L’idealista dirà al realista che anch’egli, ed anzi meglio di lui coglie il reale per il fatto stesso che il reale è ideale e l’ideale è reale, mentre il realista con la sua distinzione fra idea e realtà non riuscirebbe a realizzare l’identità del soggetto con l’oggetto necessaria del conoscere. Il realista risponde che nel conoscere c’è un’identità solo intenzionale o rappresentativa fra soggetto e oggetto. Parlare di un’identità ontologica è un’assurdità. Non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra.

Fine Prima Parte (1/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 gennaio 2022

Rahner fa dire a San Tommaso esattamente l’opposto di quello che effettivamente insegna su questo delicatissimo tema della conoscenza, affermando che Tommaso «rigetta la concezione volgare dell’atto conoscitivo come un urtare contro qualcosa, un protendersi intenzionalmente verso l’esterno».

 

Cita senza capirla e in modo tronco un’asserzione di Tommaso, il quale, parlando della conoscenza dell’angelo, cita Platone per il quale il conoscere avviene «per contatto con la cosa intellegibile, e fa dire a Tommaso che il conoscere non avviene in questo modo.



Indubbiamente nel caso della conoscenza umana il primo contatto – che sia un urto o un tocco delicato non interessa - con la realtà non avviene certamente per un atto di coscienza, ma attraverso i sensi, ma ciò non esclude affatto l’intenzionalità della rappresentazione concettuale, quella che Tommaso chiama species intellegibilis.

L’essere intenzionale del concetto non è un «protendersi verso l’esterno». Questa è opera semmai delle mani nel senso del tatto. È chiaro che l’atto del pensiero è immanente all’intelletto. Ma il pensiero, mediante l’intenzionalità, porta all’interno della mente ciò che è fuori, privandolo della sua materialità. Certo l’intentio è un certo tendere, che però non va inteso come un moto verso l’esterno, ma è un tendere interiore verso l’oggetto.

 Immagini da internet


[1] La svolta antropologica di Karl Rahner, Edizioni Rusconi, Milano 1974. Uditori della parola è stato

 pubblicato da Borla nel 1977, mentre la prima edizione tedesca è del 1940.

[2] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977, p.72.

[3] Cf il mio articolo Autocoscienza e coscienza morale in San Tommaso d’Aquino in Coscienza, a cura di Luca Gabbi e Vittor Ugo Petruio, Donzelli Editore Roma, 2000, pp.45-72.

[4] Contra Gentes, l. II, c.99.

[5] Uditori della parola, op.cit., p.71.

[6] Ibid. p.70.

[7] Ibid.

[8] Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline, Roma 1978, p.36.

[9] Ibid., p.37

4 commenti:

  1. Caro padre, mi scuso per il possile off-topic, anche se immagino che anche qui Rahner possa entrarci qualcosa... Come si potrebbero interpretare "benevolmente" (come lei spesso raccomanda) le parole pronunziate da papa Francesco il 02/02/22? Le riporto qui il passo più problematico: “...pensiamo a coloro che hanno rinnegato la fede, che sono apostati, che sono i persecutori della Chiesa, che hanno rinnegato il loro battesimo: Anche questi sono in casa? Sì, anche questi. I bestemmiatori e tutti loro. Siamo fratelli. Questa è la Comunione dei Santi”. Ecco dunque, come è possibile che il peccato (e il peccato mortale) ed il rinnegamento del battesimo non escludano mai alcuno dalla "Comunione dei Santi"? Che ne pensa? È davvero questa la Comunione dei Santi? Perché le implicazioni di una simile affermazione mi paiono di enorme portata...

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    1. Caro Stefano,
      comprendo la tua perplessità davanti a queste parole del Papa. Sappiamo che capita spesso che non si esprime in modo chiaro e completo. Vediamo adesso di chiarire che cosa ha inteso dire Papa Francesco.
      Innanzitutto chiariamo che cosa è la Comunione dei Santi. Lo dice già la parola: è la comunione reciproca di coloro che sono in grazia nella Chiesa celeste. Tuttavia questa comunione si riflette sulla terra in coloro che sono in grazia, è l’esperienza attuale della vita cristiana ed è già l’esperienza iniziale di quella comunione dei santi, che ci attende in cielo.
      C’è però una differenza tra il primo tipo di comunione e questo secondo, presente su questa terra: che in cielo nessuno pecca o si trova in stato di peccato; invece su questa terra, come sappiamo soprattutto dall’Apocalisse, esiste una lotta delle potenze demoniache contro la Chiesa e in particolare San Giovanni (1 Gv 3,10) distingue i figli di Dio dai figli del diavolo.
      A questo punto ci chiediamo ancora che cosa intende dire il Papa dicendo che tutti sono “in casa” e “siamo fratelli”. Naturalmente sa benissimo che chi è coscientemente in peccato mortale non può fruire di questa comunione. Costui, tuttavia, si trova a contatto con i fratelli in grazia. Che cosa significa tutto ciò? In che senso sono in casa? In che senso sono fratelli? In quanto sono oggetto della carità di coloro che sono in grazia, i quali costantemente li stimolano a partecipare alla comunione della grazia.
      Per dire tutto in una parola, certamente chi è in peccato mortale non può essere nella comunione dei santi, e tuttavia è chiamato ad esserlo e finché è in vita ha la possibilità di esserlo, a patto che si penta e si converta.
      Prendiamo l’esempio dell’episodio di Saulo e di Stefano. È chiarissima l’opposizione di Saulo; eppure egli si converte e adesso è in paradiso insieme con Stefano.
      Similmente pensiamo al dramma di Maria Goretti e di Serenelli. Su questa terra egli peccò contro di lei, eppure adesso sono insieme in paradiso.

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  2. La ringrazio molto, ma capita che mentre cortesemente lei mi risponde e in parte (non in toto) mi rassicura, già si apre il nuovo "caso", ed onestamente si deve dire che se ne aprono di continuo in questo pontificato... Dunque, il cardinale Hollerich parla con i giornalisti ed afferma che la chiesa sbaglia nel suo giudizio sull'omosessualità e la ragione di ciò sarebbe "che il fondamento sociologico-scientifico di questo insegnamento non sia più corretto". Sarebbe facile qui rispondere che il fondamento di ciò che la Chiesa crede risiede non nella sociologia, ma nel deposito della fede degli Apostoli, dei Padri della Chiesa e del Magistero... Ma qualcuno lo dirà? Lo dirà il papa a conferma della fede di tutti noi? Il cardinale prosegue: "Penso che sia ora di fare una revisione fondamentale della dottrina...", ovvero, Hollerich non sta parlando di aggiornare il linguaggio o la pastorale, ma di cambiare la dottrina! Lo dice in modo molto chiaro, e (purtroppo) aggiunge: "Il modo in cui il Papa si è espresso in passato può portare a un cambiamento nella dottrina". A quel che sembra, non c'è errore oggi che non cerchi la propria giustificazione in qualcosa che il papa avrebbe detto o fatto... Ora, quante volte si sono volute interpretare in senso benevolo le non sempre felici parole di papa Francesco su questo o su altri delicati argomenti? Ma cosa vale se addirittura una figura di primissimo piano della Chiesa cattolica, vicina al papa, puo permettersi delle affermazioni simili? Dove è più la continuità con l'insegnamento dei precedenti pontefici (uno ancora vivo) o con gli scritti apostolici, i santi e la tradizione? Non ci si preoccupa della fede semplice di tanti fedeli che non sanno più a che cosa si debba credere? Metta insieme tutti questi casi, uno dopo l'altro, così come arrivano ai comuni fedeli... tutto appare fluido e cangiante, a volontà oppure a richiesta.

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    1. Caro Stefano,
      la sodomia è un peccato, perché va contro il VI Comandamento ed inoltre infrange la legge naturale, la quale vuole l’unione dell’uomo con la donna, con finalità procreative.
      Trattandosi di legge naturale, confermata dalla fede, è impossibile pensare ad un cambiamento di dottrina e possiamo essere sicuri che nessun Papa potrà approvare una cosa del genere.
      I cambiamenti, in questo campo, possono avvenire nella prassi pastorale, che deve saper alternare saggiamente il momento della tolleranza con quello del richiamo, che a volte può essere severo.
      Per quanto riguarda il peccato, indubbiamente la materia della sodomia è peccato mortale. Tuttavia, perché di fatto ci sia una colpa che fa perdere la grazia, occorre che il soggetto sia consapevole del male che fa e che agisca con deliberazione.
      Ora, noi possiamo constatare che esiste una diffusa ignoranza sulla qualifica morale di questo atto e possiamo riconoscere, come a volte accenna il Papa, l’esistenza di una diffusa fragilità morale, elementi questi che costituiscono delle attenuanti tali da abbassare la colpa da mortale a veniale.

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