Papa Francesco e la fratellanza (Prima parte - 1/4)

 Papa Francesco e la fratellanza

Un’enciclica umanistica

Il discorso di Papa Francesco non sembra a tutta prima il discorso di un Pontefice, maestro della fraternità umana perché maestro della fratellanza cristiana, ma sembra il discorso programmatico – peraltro bello anche se troppo prolisso – di un saggio Presidente di turno all’Assemblea plenaria dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Comprendo l’intento esplicito del Papa di rivolgersi a «tutti gli uomini di buona volontà» e bisogna dire che egli è stato molto abile in ciò. Tuttavia, io penso che mentre per quanto riguarda la fratellanza umana e sociale ormai dai tempi di Leone XIII la Chiesa, con un continuo crescendo fino a Papa Benedetto XVI ci ha fornito un ricchissimo corpo dottrinale, oggi come oggi il bisogno impellente sia quello di chiarire il significato, l’originalità e il valore della fratellanza cristiana in un messaggio indirizzato non solo ai cristiani, nell’ambito del dialogo intraecclesiale e dell’ecumenismo, ma all’intera umanità perché Cristo chiama tutti gli uomini a diventare fratelli in Lui e figli del Padre nello Spirito Santo.

Il Papa è molto abile nel mettere in luce valori di fratellanza che si possono ricavare da dottrine anticristiane o eretiche come l’illuminismo, la massoneria, il liberalismo, il marxismo, la teologia della liberazione e l’islamismo. Critica difetti di queste dottrine. Ma non va generalmente oltre, se non alla fine, con un forte messaggio teologico e religioso.

Non si ferma sulla via per comprendere la fratellanza cristiana.  Il discorso sulla specificità della fratellanza cristiana e della sua superiorità rispetto alla fraternità semplicemente razionale e filosofica sembra troppo scarso rispetto all’enorme importanza, anche se giusta, data alla prospettiva semplicemente umana e naturale della fraternità.

Papa Francesco si diffonde a lungo nel trattare dell’uguaglianza umana. Si tratta di una questione dibattutissima e fondamentale soprattutto a partire dall’illuminismo. Essa tocca l’antropologia e la giustizia. Il Pontefice si ferma sull’uguaglianza umana universale, ossia l’uguaglianza di tutti gli uomini fra di loro.

Diciamo allora che l’uguaglianza umana, in generale, è il fatto che due persone sono allo stesso livello, dello stesso valore, sono alla pari. Si danno due generi di uguaglianza umana: l’uguaglianza di natura e l’uguaglianza di trattamento. La prima è il fatto che tutti gli uomini appartengono alla medesima natura umana: essa è uguale e identica in tutti. È sempre la stessa in tutti. Tutti gli individui umani sono uguali non in quanto individui, perché sotto questo aspetto sono diversi, ma in quanto tutti ed ognuno appartenenti alla specie umana. Essa è l’elemento di universalità in ogni individuo umano: unum in multis et de multis. Essa fonda la fraternità universale: tutti gli uomini sono fratelli.

Mentre però la natura è un dato di fatto che precede la volontà ed è da essa indipendente, l’uguaglianza di trattamento è quell’esser fratelli che dipende dalla volontà di ciascuno: la comune natura umana contiene un appello alla fraternità; ma l’esser fratelli di fatto dipende dal libero consenso di ciascuno. Questa uguaglianza dipende dalla giustizia e dalla carità.

Se io non voglio esser fratello, non sono fratello. Dipende da me considerare un’altra persona come fratello ed è mio preciso dovere farlo. Altrimenti pecco contro l’amore del prossimo e contro Dio. Se io odio il fratello, non son più fratello di quel fratello, anche se lui può continuare a comportarsi da fratello nei miei confronti. Amando l’altro divento suo fratello. Il mio prossimo mi è prossimo perché io mi faccio prossimo, ossia mi avvicino a lui.

L’uguaglianza di trattamento è effetto della giustizia. Papa Francesco insiste molto su questo punto e a proposito di esso denuncia molte ingiustizie. La giustizia crea l’uguaglianza, uguaglianza paritaria e uguaglianza proporzionale.  La prima dà la stessa cosa a ciascuno: la legge è uguale per tutti. La seconda dà a ciascuno in proporzione ai suoi bisogni. La giustizia dev’essere animata dalla fraternità e dalla carità. Francesco insiste soprattutto sulla giustizia sociale, politica ed economica. Insiste molto sulla giustizia universale, verso tutti; meno su quella particolare, verso determinate categorie di persone.

Costante è l’attenzione verso i poveri, i deboli, gli oppressi, i sofferenti, gli emarginati, con abbondanza di indicazioni e suggerimenti rimedianti e caritativi ai privati, alle istituzioni e ai pubblici poteri nazionali ed internazionali. La preoccupazione per l’uguaglianza è certamente giusta, ma sembra rendere Francesco poco sensibile al fatto che nella società esiste una graduatoria nei bisogni, nei diritti, nei doveri e nei meriti.

Al riguardo, occorre certo evitare favoritismi ed accezioni di persone. Il giudice non deve guardare in faccia a nessuno e non deve lasciarsi corrompere dall’amico. Ma non tutti i privilegi sono ingiusti e non tutte le pene possono essere uguali. Del resto il Papa stesso riconosce che occorre privilegiare i poveri. Questa graduatoria è tenuta d’occhio dalla giustizia proporzionale, schietta espressione della fraternità.

 Il Papa insiste opportunamente, ma anche eccessivamente, con noiose ripetizioni, che scadono a volte anche nell’ovvio, nel risaputo e nel banale, nel raccomandare le opere della misericordia corporale. In particolare, insiste eccessivamente sull’esempio del buon samaritano, quando ci sarebbero stati molti altri esempi tratti dalla vita di Cristo, atti ad illustrare i doveri della giustizia e della carità fraterna. È vero che, dato il nostro egoismo, occorre sempre ricordarle; ma su di esse esiste già da decenni, grazie a Dio, un’abbondantissima letteratura[1]. Occorreva scrivere un’enciclica di 138 pagine?

Troppo scarsa invece appare la trattazione delle opere della misericordia spirituale, che sono le più importanti, anche se non sempre le più urgenti, ma che sono le più difficili da capire ed apprezzare, attaccati come siamo ai beni materiali piuttosto che a quelli spirituali.

Pensiamo per esempio al loro elenco nel Catechismo di San Pio X: «consigliare i dubbiosi; insegnare agli ignoranti; ammonire i peccatori; consolare gli afflitti; perdonare le offese; sopportare pazientemente le persone moleste; pregare Dio per i vivi e per i morti». E se ne potrebbero citare anche altre, come la confutazione degli errori e delle eresie, la correzione degli erranti, la conversione degli increduli, la guida degli smarriti, il conforto dei paurosi, la santificazione dei tiepidi, la stimolazione dei pigri, l’infervoramento degli accidiosi, l’umiliazione dei superbi.

Mi lascia un po’ perplesso il fatto che il Papa si addentri in complesse questioni che suppongono alta specializzazione e competenza tecnica e giuridica, come l’andamento della finanza o il debito internazionale o la regolamentazione dell’economia mondiale o della produzione o degli scambi internazionali o le iniziative delle multinazionali, cose dove anche tra operatori cattolici vi è disparità di pareri, per cui temo che il Papa si esporrà a critiche da parte degli esperti, come gli è successo quando ha voluto esprimersi circa le questioni concernenti il riscaldamento globale o l’ecologia integrale o la gestione economica dell’Amazzonia.

È ovvio che anche queste questioni toccano il tema della fratellanza umana ed è evidente pertanto che anche queste attività devono essere regolate secondo giustizia e diritto. Ma forse sarebbe stato sufficiente che il Papa si fosse limitato all’enunciazione dei princìpi e dei valori morali irrinunciabili e di fondo, materia di sua esclusiva competenza, dove nessuno può contraddirlo, senza essere uno scriteriato, un relativista, uno scettico o in malafede.

Una questione molto grave, strettamente legata a quella della fratellanza, che il Papa non ha trattato è la questione dell’ateismo. Può sussistere l’ateismo nel quadro della fratellanza? Può la fratellanza fondarsi sull’ateismo? Può un ateo avere il senso dell’universalità e dell’insopprimibilità della fratellanza umana?  Come fa a considerarsi fratello tra i fratelli, se non si sente con loro figlio di un unico Padre?

Quanto all’ateismo marxista, presentandosi come paladino del bene comune ed accusando il teista di individualismo, esso in realtà è proprio lui che, supponendo l’autoreferenzialità e l’assolutizzazione del proprio io, conduce a quell’egoismo ed individualismo della chiusura all’altro, che cade sotto i colpi inesorabili della condanna bergogliana. Per questo, benché Papa Francesco non affronti esplicitamente il problema dell’ateismo, bisogna dire comunque che ne condanna implicitamente i presupposti teoretici e le conseguenze pratiche.

Il «sogno di un’umanità fraterna»

Il Papa usa molte volte la parola «sogno» nell’espressione «sogno di una società fraterna». Ora mi pare che questa parola in questa circostanza non sia la più adatta, anche se non priva di un suo fascino. È vero che esistono i sogni profetici; ma si tratta di rari fenomeni carismatici. È vero che si può usare la parola in senso metaforico: «un paesaggio di sogno»; «sogno un avvenire migliore» e cose del genere.

Ma il sognare può farci perdere l’aggancio alla realtà; il sogno può essere anche un’illusione. Un bel sogno non è detto che si realizzi. Insomma, diciamocelo chiaro: il sogno nel senso proprio è opera dell’immaginazione emotiva e non della lucidità della ragione. Teniamo inoltre presente con quanta facilità i giovani sono portati a sognare e quanta fatica fanno a ragionare.

Il sogno è utile agli artisti e ai poeti, ma serve poco a chi vuol avere uno sguardo lucido, realistico ed oggettivo sulla realtà, soprattutto poi se, come nel nostro caso, si tratta di quella realtà realissima che è la fraternità umana, circa la quale non si tratta di sognare, ma di indagare razionalmente ed alla luce della fede con lo sguardo più attento e prudente per cogliere saldamente la difficile verità ed evitare l’insidia dell’errore.

Ci sono ben altri termini per indicare appropriatamente e senza equivoci ciò che al riguardo intendiamo dire. La fraternità è un valore, è un dovere, è un ideale, è un appello, è un fine. Essere fratelli non è un sogno, ma un progetto o un piano della nostra volontà; è per lei un obbiettivo e un dovere chiaro, preciso, irrinunciabile ed assoluto.

Costruire la fraternità è lo scopo cosciente, ragionato e ben fondato di una volontà decisa, inflessibile, generosa, ferma e costante, sostenuta dalla grazia, che non si arrende davanti alle prove, agli insuccessi e ai sacrifici, ma mira senza deflettere con coraggio e coerenza, sia pur adesso nella penombra della fede, ma con l’ardore della carità, e sotto l’impulso dello Spirito Santo, verso la meta finale dell’umanità dei risorti.

Forse il Papa avrebbe dovuto precisare meglio che quando Gesù ha detto «siete tutti fratelli» non intendeva assolutamente riferirsi a un dato di fatto, ma a un grave dovere di tutti e innanzitutto dei suoi discepoli, che dovevano darne l’esempio.

È vero che il Papa denuncia molte forme di ingiustizia politica, sociale ed economica, ed anche molte forme di odio e disprezzo dei fratelli, concretizzate nella maldicenza, nella mormorazione, nella diffamazione, nello spargere notizie false, nella calunnia, nel metter l’uno contro l’altro, nel provocare divisioni, scismi e ribellioni, nell’incitare all’odio, nell’incrinare la comunione fraterna, nello spezzare o tradire le amicizie, nelle invidie e nelle gelosie, nell’intolleranza, negli eccessi dell’ira, nell’ingiuria, nell’aggressione verbale, nella litigiosità, nella sentenza arrogante e saccente, nella menzogna, nel sospetto gratuito, nella critica velenosa e demolitrice, nella denigrazione, nella derisione, nel sarcasmo, nell’invettiva minacciosa ed ingiusta, nel proposito di vendetta, nella condanna facile e faziosa.

 Ma il Papa avrebbe potuto ugualmente soffermarsi anche su tutte quelle forme di falsa fraternità, che consistono nel fingersi amici, nel lisciare e adulare i potenti a proprio vantaggio per salire di grado, per mettersi in mostra, per ottenere successo e  favori, per arricchirsi, per sete di potere, di primeggiare e di comando, nella piaggeria, nella seduzione, nell’astuto inganno, nel complotto, nella truffa, nell’eresia, nella circonvenzione dell’incapace, nel tendere insidie al fratello, sfruttando e strumentalizzando il prossimo, soprattutto se psichicamente debole, fragile, minore o sprovveduto.

Fratellanza biologica, fratellanza umana e fratellanza cristiana

Come sappiamo, Gesù coglie occasione per enunciare il principio della fratellanza cristiana dall’episodio in cui lo informano che ci sono la madre e i suoi fratelli che vogliono parlarGli. E Gesù, «stendendo la mano verso i suoi discepoli: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”» (Mt 12,46-50).

Non abbiamo qui esplicitamente l’annuncio formale che Gesù dà a Nicodemo del misterioso «rinascere dell’alto» (Gv 3,3) e tuttavia il riferimento alla volontà del Padre significa già implicitamente l’essere figli del Padre sul modello di Cristo Figlio del Padre. Ma nel contempo, credo, potremmo interpretare le parole del Signore anche nel senso umanistico col quale il Papa parla di fratellanza universale, comune alle diverse religioni, ovviamente senza escludere la fratellanza specificamente cristiana, basata sul mistero trinitario.

Per Gesù comunque essere suoi discepoli coincide con l’essere e comportarsi da fratelli gli uni per gli altri. E ciò nel contempo s’identifica con la carità fraterna: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). La Chiesa è una comunità di fratelli che costituisce il modello della fratellanza per tutta l’umanità.

È pertanto di somma importanza, per promuove la fratellanza tra i popoli e le nazioni, che la Chiesa cattolica sotto la guida del Papa, dia un esempio al mondo di concordia ed armonia tra i suoi membri e che in essa i più saggi e gli operatori di pace impieghino a tal fine tutti i mezzi possibili naturali e soprannaturali, dalla trattativa, al monito, alla correzione, sino alla preghiera e all’offerta di sacrificio, per far risplendere la Chiesa nel mondo come luce delle nazioni.

L’ideale della fratellanza umana universale non supera la comprensione della ragion pratica o della religione naturale (cf per esempio l’Inno di Cleante); e tuttavia di fatto lo troviamo solo nel Vangelo, che fonda la fratellanza sul fatto di essere figli del Padre celeste. Infatti non basta neppure un qualunque concetto di Dio, occorre concepirlo come Padre, senza che occorra necessariamente accettare il dogma trinitario, perché già nell’Antico Testamento e nello stesso Corano abbiamo il concetto di un Dio personale e provvidente, che è sentito come Padre.

Nell’Etica di Aristotele non troviamo il concetto della fratellanza umana, che egli riserva solo agli affetti familiari, ma soltanto quello della socialità – il politikòn zoon -, concetto che comunque è di fondamentale importanza, perché basato sul concetto dell’uomo come zoon logon echon, animale ragionevole.

Il che vuol dire che Aristotele, avendo un concetto giusto della natura umana, pone di conseguenza le basi dell’etica naturale fondata sulla ragion pratica, che regola la condotta umana, personale e sociale, sulla base della legge naturale (nomos katà fysin), applicando la quale nella virtù (andreia) l’uomo raggiunge la sua entelècheia, ossia la sua felicità (eudaimonìa) e la sua perfezione morale.

Per questo, Aristotele non è coerente con i suoi princìpi, quando poi, con tutto il suo tempo, ammette la schiavitù. Ma anche in questa errata concezione della vita sociale dobbiamo saper trovare una parte di verità, che si riferisce all’esistenza di un fatto innegabile, fatto, che se invece negassimo o ignorassimo o volessimo cambiare in nome di un falso concetto di uguaglianza o fratellanza, causerebbe immense, innumerevoli e gravissime ingiustizie e disordini nell’intera società e convivenza umana.

Di che si tratta? Del fatto che i vari individui umani si distinguono e si differenziano fra di loro non solo per differenze o diversità orizzontali, come per esempio il fatto che Tizio e Caio, pur diversi, hanno però la stessa statura, o lo stesso peso, ma anche per differenze verticali, basate sull’esser più o esser meno, come i diversi gradi o livelli di intelligenza, di volontà, di sensibilità, di risorse, di forze, di energie, di potenzialità, di capacità, di inclinazioni, di disposizioni o attitudini o doti naturali.

A queste qualità innate seguono poi normalmente, ma non deterministicamente ed automaticamente, bensì in modo imponderabile ed imprevedibile, qualità acquisite di vario genere e grado mediante l’uso del libero arbitrio e la fruizione di comuni o speciali doni della grazia divina, qualità favorite o sfavorite dalle circostanze favorevoli o sfavorevoli, l’ambiente, il clima storico-sociale, l’educazione ricevuta, le attività svolte, i titoli e i meriti acquisti, l’ereditarietà, la salute fisica, le condizioni economiche, l’influsso degli altri, le esperienze fatte.

È a questo punto che sorgono disuguaglianze o dislivelli tra individuo e individuo non necessariamente ingiusti, ma al contrario frutto dei differenti meriti di ciascuno, per cui uno è più colto dell’altro, più competente dell’altro, più meritevole dell’altro, più esperto dell’altro, più sano dell’altro, più onorabile dell’altro, più autorevole dell’altro, più virtuoso dell’altro, più spirituale dell’altro, più santo dell’altro.  

Da notare inoltre che chi ama il fratello, dà prova di amare Dio, suo creatore, così come se io amo una pittura di Raffaello, non posso nel contempo non amare Raffaello, anche se quel tale non se ne rende conto (Mt 25). L’amore di Dio è la ragione più alta, più forte, più efficace dell’amore del prossimo e della fratellanza universale.

Chi non sa che cosa è l’uomo, ossia chi non possiede il concetto esatto della specificità ed universalità della natura umana e della legge morale naturale, non è capace di riconoscere la natura umana in ogni uomo, e quindi non è capace di praticare la fratellanza universale, ma avrà sempre una visione parziale, unilaterale ed insufficiente, che lo porta a riconoscere l’uomo solo in quegli individui nei quali trova l’idea sbagliata di uomo che si è fatto. Ognuno è portato a riconoscere l’uomo in chi è simile a lui: se si è fatto un’idea errata del proprio io, sarà portato a sbagliarsi nel giudicare l’io degli altri.

Il Pontefice avrebbe dovuto a mio avviso essere più chiaro nel distinguere fratellanza umana e fratellanza cristiana, mostrando come questa fondi quella e come esse si armonizzino vicendevolmente. Invece insiste molto sulla prima e poco sulla seconda, che invece è più importante e difficile da comprendere. E se non ce la spiega il Papa, chi ce la deve spiegare? Anche Confucio, Cicerone, Seneca, il Corano, Rousseau e Voltaire trattano della fratellanza umana, ma solo il Vangelo parla della fratellanza cristiana. Infatti, per apprezzare la prima non occorre essere degli eroi o possedere doti intellettuali eccezionali.

Se infatti non siamo degli egoisti irriducibili o schiavi di vizi personali o ingannati da false ideologie individualiste, materialiste od utilitariste, è sufficiente far ricorso alla propria coscienza o essere persone di buon cuore per sapere che dobbiamo soccorrere chi ha bisogno. Ma per apprezzare la fratellanza cristiana, occorre la luce della fede e il calore della carità, che sono doni divini, ai quali occorre prepararsi con umiltà, con una severa condotta di vita e un’ardua ricerca della verità.

D’altra parte, nella cultura europea è ormai dal ‘700 che viene propagandato ed esaltato il valore della fratellanza umana anche da dottrine estranee o contrarie al cristianesimo, come l’illuminismo, la massoneria e il marxismo, benché sia vero che l’egoismo umano sa mantenere in vita una grossa fauna di teorie individualiste, egocentriste, liberali, gnostiche, idealiste, panteiste, totalitarie, utilitariste ed edoniste.

Per questo convengo che alla fine sia sempre bene ricordare i valori veri come fa Francesco, soprattutto per i giovani, i quali, a differenza da noi anziani, si suppone o si teme che non conoscano come noi il pensiero della Chiesa, ma siano sedotti e bombardati dalle idee del mondo.

Ma inoltre c’è da dire che la tematica dell’etica sociale, benché fondata su princìpi immutabili, più di ogni altra etica ha bisogno di continui aggiornamenti, considerando il succedersi quasi vorticoso delle novità e dei cambianti sociali, che obbligano il moralista ad affrontare sempre nuovi problemi. Così il Pontefice giustamente si ferma sulle grandi questioni di attualità, come quella del neomaltusianesimo, dell’immigrazione, della globalizzane, dell’ecologia, del populismo, della crisi della famiglia.

Forse il Papa, per non appesantire il testo già molto lungo riprendendo, peraltro con ripetizioni, cose che la Chiesa sta già dicendo da cinquant’anni, per non arrivare a Leone XIII, avrebbe potuto limitarsi ad affrontare le suddette questioni, circa le quali, d’altra parte, si è già pronunciato in altre occasioni.

Il Pontefice si ferma ed insiste molto sull’aspetto universale della fratellanza, segno che qui siamo davanti ad un esser fratelli che va ben al di là delle relazioni familiari, dalle quali tuttavia la fratellanza universale parte per estendersi ad un amore che abbraccia ogni uomo in quanto uomo.

Questo allargamento del concetto e della pratica della fraternità – spiega il Papa – significa che, salvi sempre gli affetti familiari, che restano privilegiati, la fraternità evangelica, superando la semplice fraternità biologica e quella naturale chiede ai credenti una sua superiore realizzazione in Cristo:

 «dopo aver santificato le vostre anime con l’obbedienza alla verità, per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla Parola di Dio viva ed eterna» (I Pt 1,22).

Un importante discorso di sintesi di fraternità umana e fraternità cristiana nella realizzazione della giustizia e della carità, è quella che il Pontefice chiama «carità politica», dove troviamo una bella esposizione della nobiltà dell’attività politica come espressione della carità. Si tratta evidentemente di quelli che sono i doveri dei cattolici nella politica.

Il Papa non tocca il grave problema della visibilità dei cattolici nella realtà dei partiti, dato che i cattolici non appaiono più pubblicamente come una volta era la Democrazia Cristiana, ma sono sparsi e nascosti in alcuni partiti, magari ufficialmente laicisti o anticattolici. L’unico modo per riconoscerli sono le iniziative politiche, che essi prendono nei vari partiti nei quali sono presenti. Tuttavia ci si potrebbe chiedere se non fosse il caso che i cattolici riprendessero ad organizzarsi in un loro proprio partito.

Luci e ombre del popolo

Il valore della fratellanza è certamente connesso col concetto di «popolo», circa il quale il Papa dice certamente molte cose giuste. Lascia perplessi, invece, il fatto di definire il popolo come entità «mitica», cosa che aveva già detto in altra occasione. Indubbiamente, quasi prevenendo l’eventuale obiezione, il Papa mette le mani avanti precisando che non intende dire che il popolo «ha sempre ragione».

Tuttavia resta l’impressione di un’indebita sopravvalutazione del popolo. Il mito è una categoria legata alla religione e al divino. Si parla di «personaggio mitico» per indicare un grande personaggio famoso circondato da un alone di gloria o di leggenda. Forse il Papa intende riferirsi alle risonanze affettive o emotive, nonché al senso di rispetto che suscita in noi l’idea di popolo, soprattutto se è il nostro popolo. Forse Francesco vuole evocare la pietas parentum della religiosità romana.

In ogni caso occorre fare attenzione a che la risonanza affettiva quasi religiosa non abbia la meglio sullo sguardo lucido e oggettivo della ragione, perché, per quanto il popolo sia un qualcosa di assai nobile, è pur sempre una realtà puramente umana, coi suoi pregi e i suoi difetti, e il Papa non lo nega. Ogni popolo infatti ha una sua identità, una sua fisionomia, che lo distingue dagli altri popoli; ha i suoi peculiari lati buoni e lati cattivi. Tuttavia, soprattutto se è un grande popolo, è una realtà così ricca e variegata, che possiede una forte diversificazione interna di ceti, etnie, dialetti, tradizioni, storia locale, usi e costumi particolari.

Il popolo organizzato come società civile sulla base del diritto e di istituzioni stabili e di carattere costituzionale costituisce lo Stato, che è un apparato istituzionale deputato e specializzato nel garantire, custodire, difendere e promuovere il bene del popolo e dei singoli cittadini, così che essi possano vivere nel benessere, nella concordia, nella pace, nella giustizia, nella libertà e nel progresso.

Il popolo è una porzione di umanità; non è l’umanità nel suo insieme, benché si parli di «popolazione mondiale»; ma qui si usa il termine in senso lato e vago per indicare semplicemente l’insieme degli abitanti del mondo. Il popolo in senso proprio e preciso è un insieme definito di persone legate assieme da un territorio comune, da una lingua comune, da un culto religioso comune, da una letteratura comune, da una sapienza comune, da una storia, usi, costumi, abitudini, gusti e tradizioni comuni.

Il popolo, in quanto ci precede, ci ha allevato e nutriti,  del quale siamo figli per il tramite della nostra famiglia e dei nostri antenati, è la patria, la terra dei padri; in quanto è il popolo, dal quale e nel quale siamo nati, è la nazione.

Buono è l’accenno alla democrazia, come governo del popolo mediante i suoi rappresentanti. Ricordo la definizione di Lincoln: «Government of the people, by the people, for the people». San Tommaso, in pieno medioevo e regime feudale, definiva il governante (princeps) «vicem gerens multitudinis».

È chiaro che si esclude la concezione rousseauiana del popolo che «obbedisce a se stesso» e si suppone un popolo che obbedisce a Dio mediante la legge naturale, popolo che trova il suo modello in Israele, il «popolo di Dio» della Bibbia. Sarà poi Cristo a distinguere ea quae sunt Caesaris da ea quae sunt Dei, ossia lo Stato dalla Chiesa.

Il popolo ha rapporto con due realtà umane che normalmente superano i confini dello Stato o della nazione: la razza e la religione. Molto raramente oggi troviamo una nazione, nella quale popolo, Stato, patria, religione, lingua, storia e razza siano una cosa sola. Esempi sono l’India, la Cina e il Giappone. Le razze generalmente abbracciano sotto di sé più Stati, come la razza araba o quella centro-africana o quella slava o quella latina o quella nordeuropea.

Secondo me, su questo tema del popolo, non ci stava male un accenno al popolo italiano, non certo per un moto di umana simpatia per la gente che oggi ospita Papa Francesco, ma per una precisa motivazione teologica, in quanto Roma, Sede di Pietro da 2000 anni, è al contempo la capitale d’Italia.

E che cosa è la Roma cattolica, se non l’erede dell’antica Roma? È in questa luce che Pio XII parlava della «prediletta nazione italiana». Ed è in questo spirito che Vincenzo Gioberti, forse con un po’di retorica, scrisse il famoso Primato morale e civile degli Italiani. E perché per venti secoli, salvo rarissime eccezioni, soprattutto nei primissimi tempi di assestamento, i Papi sono stati sempre italiani? Si è visto in occasione della cattività avignonese, che cosa volesse dire la serie dei Papi francesi o francofili.  Per secoli i Papi hanno dovuto barcamenarsi fra le grandi potenze europee, soprattutto di Francia e Spagna.

Il ventesimo secolo assiste alla competizione fra Stati Uniti ed Unione Sovietica. A Pio XII filoamericano succede San Giovanni XXIII, aperto al blocco sovietico. Sorprese nel1978 l’elezione dell’anticomunista Wojtyla, il quale, però, in collaborazione con l’abilissimo Card. Casaroli, ottenne addirittura lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Sembrava la fine del comunismo, ma non fu così: il comunismo restava in Cina e continuava mitigato nella teologia della liberazione sudamericana.

Ed arriviamo a Papa Francesco, che non nasconde le sue simpatie per la teologia della liberazione. E l’Italia che fa? Essa, che non è mai stata una grande potenza e nel contempo sempre fedele al Papa, ha permesso ai Papi del passato l’indipendenza dalle nazionalità e di non essere espressione di qualche grande potenza nazionale. Se forse San Giovanni Paolo II non era del tutto esente da un certo attaccamento alla patria polacca anticomunista, Francesco non pare del tutto esente da un certo attaccamento alla patria liberazionista.

Discorso a parte merita il popolo ebraico, uno per razza, lingua, indole, letteratura (la Bibbia), governo, storia, usi, costumi, tradizioni, religione e territorio. Esso appare un modello per tutti i popoli in base alla stessa rivelazione biblica. Dall’assemblea d’Israele dell’Antico Testamento nasce la Chiesa, nuovo popolo di Dio della Nuova Alleanza.

La religione nasce in un popolo, ma poi si espande oltre per la sua istanza universalistica e giunge a coinvolgere altri popoli. L’Islam, per esempio, è nato in Arabia; ma oggi coinvolge anche popoli africani ed orientali. Per secoli l’islam ha tentato, senza riuscirvi, di penetrare in Europa, dopo aver abbattuto l’Impero Romano d’Oriente.

Dopo aver constatato nel caso degli Europei l’inutilità dei metodi impositivi e militari prescritti dal Corano, i musulmani hanno escogitato e praticano ormai da 40 anni in un continuo crescendo un metodo morbido e subdolo, quello dell’immigrazione di schiere enormi soprattutto di maschi in buona salute, col pretesto di essere persone che fuggono da situazioni insostenibili e alla ricerca di un avvenire migliore. Ma una volta giunti da noi, salvo ovviamente quelli che si integrano con un onesto lavoro, si organizzano in comunità politico-religiose con loro luoghi di culto, conservando le loro leggi, abitudini, usi e costumi.

Certi gruppi più fanatici dichiarano apertamente la loro volontà di aumentare di numero, per arrivare per mezzo di regolari elezioni al governo della nazione, ed imporre al nostro paese la Sharìa, come hanno fatto in altre nazioni nei secoli passati, mentre i più audaci imam nelle moschee prevedono la conquista islamica di Roma, così come nel 1453 i musulmani conquistarono Costantinopoli. Il Papa non parla mai di tutto ciò, ma credo che farebbe bene a farlo, data la rilevanza del tema riguardo al non facile problema della fraterna convivenza con gli islamici, che se noi li consideriamo fratelli, non sempre loro considerano noi loro fratelli.

Fine Prima Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 11 ottobre 2020



Quanto all’ateismo marxista, presentandosi come paladino del bene comune ed accusando il teista di individualismo, esso in realtà è proprio lui che, supponendo l’autoreferenzialità e l’assolutizzazione del proprio io, conduce a quell’egoismo ed individualismo della chiusura all’altro, che cade sotto i colpi inesorabili della condanna bergogliana. Per questo, benché Papa Francesco non affronti esplicitamente il problema dell’ateismo, bisogna dire comunque che ne condanna implicitamente i presupposti teoretici e le conseguenze pratiche. 

 

 

 

 

 


[1] Vedi per esempio delle raccolte o sintesi come queste: Compendio della dottrina sociale della Chiesa, a cura del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004; Raimondo Spiazzi, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano, edizioni ESD, Bologna 1993; Card. Pietro Pavan, Le idee madri della dottrina sociale della Chiesa, in “La Scuola cattolica” XC (1962), pp.501-516; Pensiero sociale della Chiesa oggi, a cura di Igino Giordani, Città Nuova Editrice, Roma 1974.

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