Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 2 (1/2)

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 2 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 12 (A-B)

Bologna, 20 gennaio 1987 - Fine Ultimo n. 12 (A-B)

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Nella questione VIII della I-II, Quaestio est de voluntario, ossia si trattava appunto di vedere in che cosa consista il volontario. Abbiamo detto che volontario è ciò cui il principio è interiore al soggetto operante con una certa conoscenza del fine. Il volontario si dirà poi perfetto, quando la conoscenza del fine è perfetta, ossia formale. La conoscenza astratta contraddistingue i soggetti dotati di volontario perfetto, ossia di responsabilità morale, perchè poi le due cose coincidono assolutamente.

Quindi libero è solo il soggetto che conosce il fine formalmente in astratto e quindi è capace non solo di essere diretto e mosso al fine, ma anche di dirigere se stesso al fine. Questa mozione da sé al fine, disporre se stesso al fine, è qualche cosa di caratteristico, di proprio degli agenti dotati del volontario perfetto.

Ora, poi ci siamo soffermati nel terzo articolo sulla domanda se esiste il volontario solo nell’agire o anche nel non agire. E con questo abbiamo finito l’ultima nostra lezione. E abbiamo visto che effettivamente, anche con il non agire può essere collegata una certa imputabilità morale al soggetto, in quanto, nella libertà del soggetto, è compreso non solo l’agire ma anche il non agire.

Quindi, dove si può e si deve agire, e il soggetto avverte, sa che deve agire e non agisce là dove deve agire, in questo caso indubbiamente si tratta di qualche cosa di moralmente disordinato. E’ cosiddetto il peccato di omissione. Quindi anche l’omissione può essere imputata al soggetto. Il volontario esiste anche nella omissione.

 Abbiamo visto che ciò può accadere in un duplice modo: innanzitutto con un atto interno, dove la omissione diventa oggetto di una decisione interiore: io mi decido di omettere una azione. Per esempio, uno, che non fa più il bravo e buon cristiano, si sveglia la domenica mattina e dice: non voglio andare a Messa. Allora, costui omette di andare a Messa, però con un atto interiore, il cui oggetto è l’omissione. Oppure, uno che semplicemente si sveglia la domenica mattina e poi magari continua a dormire o va a vedersi la partita del calcio, e alla Messa non ci pensa neanche. Ebbene, l’omissione c’è anche in lui senza un atto né esterno nè interno, però l’omissione c’è, sempre accompagnata da un altro atto ovviamente, il quale poi lo svia da quello che avrebbe dovuto fare e invece non fa.

Adesso segue un insieme di articoli estremamente importanti in particolare per la prassi pastorale, soprattutto per l’amministrazione del sacramento della Penitenza; ma ha ovviamente anche un interesse speculativo in sé. E ovviamente serve anche per la introspezione, cioè per conoscere meglio noi stessi. Seppure, vedete, sui motivi soggettivi dell’atto umano è meglio non indagare troppo, perchè ci rimarranno in ultima analisi sempre sconosciuti.

Bisogna partire proprio da questa convinzione, che le motivazioni soggettive dell’atto umano sono, diciamo così, oscure e rimarranno in ultima analisi sempre tali. Però ciò non toglie che si possano tutto sommato serenamente analizzare e vedere fino a che punto eventualmente c’è stato appunto quello che prevede il Catechismo di S. Pio X per l’atto veramente umano, ossia la piena avvertenza e il deliberato consenso.

Quindi la questione è se ci possa essere un influsso sul volontario, tale da renderlo meno volontario, tale da danneggiare praticamente il volontario. Ebbene, anzitutto ciò che si oppone più direttamente al volontario, non sta dalla parte della conoscenza, perchè abbiamo detto che nel volontario ci sono questi due elementi: la intrinsecità della mozione, ossia la mozione avvenga interiormente rispetto al soggetto, e che sia accompagnata, anzi che proceda da una certa conoscenza del fine.

Ora, ciò che si oppone al volontario, non dalla parte della conoscenza, ma dalla parte della intrinsecità[1], diciamo così, rispetto all’agente, è il violento, è ciò che avviene con violenza. Ora, la questione sollevata da S.Tommaso è questa: se la volontà possa subire violenza, se è possibile che la volontà subisca violenza. E la distinzione che si impone è questa: anzitutto il volontario si distingue in due grandi ambiti: c’è il volontario elicito e il volontario imperato.

Elicito è il volontario posto come atto dalla stessa volontà; imperato è quell’atto che non è posto dalla volontà stessa, ma da una altra facoltà mossa dalla volontà, cioè la volontà muove un’altra facoltà, che pone quell’atto. Per esempio, un atto di amore di Dio è un atto elicito dalla volontà, la volontà stessa che ama il Signore. Invece l’atto di fare una passeggiata è un atto imperato; la volontà comanda alle gambe di muoversi e di fare una passeggiata. Ecco il volontario elicito e quello imperato.

Ebbene, ovviamente per quanto riguarda gli atti imperati, non c’è dubbio che essi possono essere impediti con violenza. Se qualcuno mi lega, c’è poco da fare, io posso imperare alle mie gambe di fare una piacevole passeggiata e non ci riuscirò. Quindi ovviamente gli atti imperati sono impedibili, nell’effetto esterno, dalla violenza.

Quanto agli atti eliciti, invece, è assolutamente impossibile che la volontà subisca qualsivoglia violenza. Questo proprio perchè l’atto del volontario elicito, cioè l’atto stesso della volontà, procede da un principio interno e conoscente. Invece ciò che è estorto, coatto, costretto, necessitato, procede non da qualche cosa di interno, ma da qualche cosa di esterno[2].

Ebbene, è contrario alla stessa nozione, allo stesso concetto, alla stessa essenza dell’atto posto dalla volontà, che sia un qualche cosa di posto dall’esterno. Per definizione, è questione proprio di termini, non è una cosa che si possa dimostrare. Parte de terminis, in sostanza. Nella definizione stessa dell’atto della volontà c’è il procedere dal soggetto, dotato ovviamente di volontà, il procedere da questo soggetto interiormente e con la conoscenza, con la preconoscenza del fine.

Qui il violento si oppone ugualmente al volontario e al naturale, proprio perchè il violento è sempre comunque contro l’intrinsecità dell’azione. Ovviamente si suppone, questa è la condizione del violento, che si verifichi quello che dicono appunto gli scolastici, cioè nihil conferente vim passo. Ossia il passum o passus, colui che subisce la violenza, non deve prestare il suo consenso, non deve contribuire a ciò che avviene per violenza, perchè, in tal caso ovviamente non si tratterebbe più di una azione violenta. Questo è evidente. Quindi, o l’azione è violenta, e allora è tutta esterna, o, se uno accetta tale azione, non è più violenta, ma diventa azione sua, per quella parte per cui acconsente.

C’è un corollario ovviamente da fare: l’ad primum, che riguarda la mozione divina della volontà. Vedete come S.Tommaso insiste su questo fatto, che Dio muove la volontà, con una efficacia infinita ed infallibile, però nel contempo rispettando l’essenza del moto volitivo. Dice, cioè, che Dio avrebbe potuto in qualche modo costringere, tra virgolette, la volontà, ma in tal caso sarebbe meglio dire che l’atto non sarebbe più della volontà stessa, ma di qualcosa d’altro, cioè sarebbe l’atto di Dio nell’uomo, senza la volontà e contro la volontà.

Ma, finchè Dio agisce tramite la volontà, agisce secondo l’essenza della volontà, che è quella di muoversi liberamente. Cioè proprio ripugna alla natura stessa della volontà che sia costretta. Perciò in fondo, in questa risposta, S.Tommaso sembra persino sottrarre alla onnipotenza di Dio la possibilità di costringere la volontà. Cioè Dio potrebbe portare l’uomo all’atto, all’atto posto senza la volontà, perché Dio può produrre l’effetto della causa seconda, senza servirsi della causa seconda. E’ possibile quindi che Dio produca l’atto della volontà senza la volontà. Però allora sarà appunto senza la volontà e contro la volontà.

Adesso ipotizzo un qualche cosa che il Signore non fa mai, ma che comunque è possibile, perché, sapete, riguardo a Dio bisogna essere sempre ben consapevoli che Egli è Datore di essere, cioè è Creatore proprio in tutto ciò che fa ed ogni effetto che raggiunge, lo raggiunge sotto l’aspetto dell’essere e non dell’essere tale, dell’essenza. Cioè Dio potrebbe, assolutamente parlando, quasi creare, come accidens in subiecto, proprio un atto di volontà e potrebbe applicarlo all’uomo senza che l’atto proceda dalla volontà. Ma in tal caso non sarebbe più volontà, cioè avrebbe tutte le caratteristiche di un atto volitivo, ma senza il fatto che proceda dalla volontà umana

E’ impossibile che qualcosa che procede dalla volontà proceda dalla volontà contro la natura della volontà, quindi la volontà in nessun modo può subire costrizioni. Di nuovo si tratta di una di quelle cose, voi lo sapete già dalla Teodicea, che non pongono limiti alla onnipotenza di Dio. E’ la solita questione tra la scuola tomista e scotista, insomma. L’onnipotenza di Dio non è una onnipotenza arbitraria.

Ci sono delle cose non fattibili. E le cose non fattibili sono dei non enti, cioè possiamo dire che Dio può creare, può fare, tutto ciò che può essere, ma ciò che non può essere per natura sua, ovviamente non è nemmeno fattibile. Quindi non si tratta di un limite nella potenza divina, ma di un limite relativo alla non fattibilità della cosa. Ebbene, la volontà proprio per natura sua non può essere in nessun modo costretta.

Ora, ovviamente la violenza, opponendosi al principio intrinseco dell’atto, cioè dell’intrinsecità del procedere dell’atto dal soggetto, l’atto in tal caso non procede intrinsecamente dal soggetto, ma è causato nel soggetto da qualche cosa altro. Per esempio, appunto, uno che, portato di peso, viene buttato dalla finestra, come avvenne, mi sembra, nella defenestrazione di Praga. Reminiscenze storiche.

Se uno è portato alla finestra e buttato giù dalla finestra, lui poverino resiste, non vuole. Quindi, l’azione non procede dalla sua volontà, anzi la sua volontà insomma ordinerebbe tutt’altra azione. Invece subisce un’azione che si verifica in lui, ma non da lui. L’azione si verifica in lui da altri, che lo portano di peso. Tanto per illustrare, con un esempio. Per fortuna in questo campo si riesce ad illustrare con esempi. Altri campi, un po’ più spirituali, sono meno illustrabili con esempi concreti. Ebbene, insomma, questo fatto della violenza si oppone alla intrinsecità dell’atto procedente dal soggetto.

Ora, un atto che non procede intrinsecamente dal soggetto, per definizione non può essere un atto volontario. Ora, la violenza non solo esula dall’essenza del volontario, ma si oppone all’essenza del volontario, è proprio contraria. La violenza è contraria a ciò che è la natura del volontario, e anche alla natura, se volete, dell’atto naturale. La violenza è quindi sia innaturale o contro-naturale, che involontaria.

Quindi in agenti naturali la violenza è innaturale, in agenti volontari la violenza è involontaria. Ossia in termini tecnici, lo raccomando alla vostra memoria, in un esame di confessione, futuri confessori, su questo siamo sempre intransigenti. Ebbene, la violenza produce appunto l’involontario simpliciter, in assoluto, cioè l’involontario in assoluto. Prego.

… in caso di ipnosi …mette il soggetto in condizioni tali … non può essere imputato a lui 

Sì. In questo caso non si può parlare di violenza strettamente detta, perchè appunto c’è una certa intrinsecità del procedere dell’azione dal soggetto. Ma io vedrei un involontario, simpliciter sempre dalla parte della violenza. Questa volta c’è una violenza particolare, cioè fatta non all’intrinsecità del procedere dell’azione del soggetto, ma alla intrinsecità del suo ordinarsi al fine, tramite ovviamente la concezione al livello del conoscere o preconoscere il fine.

Quanto all’ipnosi, a quanto sembra, perché è una cosa tuttora misteriosa, a quanto sembra tuttavia consiste nel fatto di un certo legame, non a caso si parla di ipnosi appunto, da hypnos, sonno, in sostanza. Cioè il soggetto viene in qualche modo posto in una situazione di una quasi sonnolenza, insomma, dove non è capace di intendere e di volere, quasi in una situazione di spontaneità. Quindi agisce spontaneamente, ma non appunto consapevolmente. Curiosamente a questa mancata sua consapevolezza e quindi volontà, si sostituisce la volontà dell’altro.

Quindi, in tal caso effettivamente c’è un violento in cui rimane il naturale, ma si innesta il violento sul piano della conoscenza intellettiva, che è stata tolta ad arte, cioè artificiosamente. Cioè l’ipnotizzatore li ha tolto all’ipnotizzato la parte superiore del principio del suo atto. E’ un caso molto interessante, questo. E’ molto bella la domanda.  Effettivamente è un caso particolare in cui praticamente la violenza c’è, però non è la violenza totale che tolga il naturale.

Rimane il naturale. Nell’uomo che si muove secondo ipnosi l’azione è naturale. Però è una azione involontaria lo stesso, perchè manca l’intrinsecità, non del principio dell’azione come tale, ma dell’azione ordinante se stessa al fine tramite la preconoscenza del fine. E questo in quanto, con questi procedimenti, a quanto sembra, si riesce appunto a ridurre praticamente la vita psichica dell’uomo allo stato di pura vita sensitiva, si potrebbe dire praticamente, come nel sonno.

Addirittura si riesce perfino a produrre quello che anche nel sonno si produce, e cioè che perfino queste impressioni, come anche nei sonnambuli, cioè queste impressioni dei sensi non sono nemmeno coordinate dal senso, dal senso comune, in sostanza E quindi persino le rappresentazioni sensitive, per quanto spontaneamente esistenti nel soggetto, sono però in qualche modo gestibili dagli ipnotizzatori. A quanto pare, accade questo.

La violenza in questo senso produce sempre almeno l’involontario, e nella maggior parte dei casi anche l’innaturale, là dove la violenza è proprio fisica, e produce anche ciò che è contro la natura. E si parla dell’involontario simpliciter, perchè è proprio ciò che si oppone al volontario. Il soggetto vorrebbe fare qualche cosa ed è costretto a fare un’altra cosa.

C’è un interessante ad tertium, se volete. Vi si trova una domanda un po’ curiosa. E’ la questione per esempio di attività sportive o addirittura, come si potrebbe dire, contorsionistiche. Ossia, se uno muove con violenza le membra del suo corpo, pensate, per esempio, ad un esercizio fisico violento come può essere il salto in alto; bisogna proprio superare il peso. Io ci sono sempre riuscito molto poco, insomma, dato che il mio peso non è, non è indifferente.

Ebbene, è certamente un’azione violenta, insomma. Bisogna fare un po’ violenza a se stessi. E’ violenza vera e propria, sì o no? Ebbene, S.Tommaso dice che è violenza secundum quid, e non simpliciter, nel senso che, diciamo, le singole membra del corpo non vorrebbero muoversi in questo modo, ma tutto l’insieme dell’organismo in qualche modo poi domina la particolarità delle singole membra e, rispetto alla globalità dell’organismo, effettivamente l’azione risulta poi non violenta.

Quindi io, per esempio, muovo con violenza le gambe, eccetera. Però tutto l’organismo lo sente come un movimento connaturale, no? Questa è un po’ la distinzione. Quindi le attività sportive sono violente secundum quid, ma non in assoluto.  Questo solo come curiosità, ma non è gran che importante. Invece molto importante è la questione del metus, della paura. Come la paura può influire, sull’agire umano, sull’atto umano.

Qui S.Tommaso parte da una premessa molto interessante, cioè distingue subito ciò che avviene per se e ciò che avviene per accidens. E dice che, siccome actiones sunt in particularibus, dato che le azioni avvengono nella concretezza delle circostanze, ciò che accade realmente, accade per se; mentre ciò che accade secondo l’intenzione, cioè la rappresentazione intenzionale, secondo la mente di chi agisce, non accade per se, ma per accidens. L’ente si dice ente per se, se è l’ente in atto; se invece è ente in potenza o ente in intenzione, nella rappresentazione della mente, ossia l’esse cognitum, in tal caso si parla dell’ente per accidens.

Distinzioni che voi non ignorate, perché avete fatto bene la vostra metafisica. Quindi sapete che c’è tutta una analogia entis nell’ambito sia dell’ente reale, che è l’ens per se, sia per estensione poi a quello che si dice ens per accidens, in quanto è appunto l’ente non reale, ma di ragione, cioè l’ente rappresentato dalla mente.

Quindi S.Tommaso dice che ciò che uno si rappresenta a sè come fattibile, come ciò che vorrebbe fare, non è ciò che accade per se, ma è ciò che accade per accidens. Accade invece per se ciò che l’uomo di fatto compie.

Ora, nel caso della paura si ha una psicologia particolare dell’agente, cioè l’agente compie un’azione che normalmente non avrebbe compiuto, ma la compie solo in quelle determinate circostanze in cui si trova. Quali sono quelle circostanze? Sono costituite dalla minaccia di un pericolo, minaccia di un male, un male incombente. Nel caso in cui ci si sente minacciati da un male, per sfuggire a tale male, si fanno determinate cose che non si farebbero se tale male non incombesse.

Proprio la stessa struttura psichica di chi agisce per paura è questa. Volete un esempio un po’ medievale. Eccolo: la navigazione medievale antica. Non so se si fa anche tuttora sulle navi, ma comunque, quando le navi erano in pericolo, i passeggeri erano invitati a buttare la merce in mare, ovviamente per alleggerire la nave, che imbarcava acqua. Dovete pensare a questi esempi. 

Tuttora, si fa’. Non lo so. Forse con queste navi robuste non c’è più bisogno di simili accorgimenti, non lo so.

… se …

Se sta affondando, vero? Penso che il principio sia sempre quello. Il fatto è questo, che praticamente S.Tommaso spiega. Dovete pensare uno che trasporta delle merci preziose, un ricco commerciante, che proprio trasferisce tutti i suoi averi su quella nave. A un certo punto lui, per avere salva la vita, che cosa deve fare? Deve rinunciare a tutto quello che ha lì sulla nave, deve buttare tutta la merce al mare. Ovviamente nessun uomo di sana mente avrebbe fatto una azione simile, se non ci fosse l’incombente pericolo di morte.

Quindi egli lo fa, sì, ma costretto dalla circostanza, costretto dal fatto che se non fa così, perde la vita. Allora, ragionevolmente. Un avaro non avrebbe fatto così. Cioè sarebbe andato a fondo anche con la merce. Invece ragionevolmente, in quel caso, vedete, la paura non conduce a un peccato, ma anzi ad un’azione virtuosa. Ragionevolmente butta tutti i suoi averi a mare, pur di aver salva la vita. Quindi, fa qualche cosa che normalmente non avrebbe fatto, perchè normalmente lui vuole avere e la vita e i suoi beni. Nel caso di pericolo però rinuncia ai beni pur di aver salva la vita.

Ora, dice S.Tommaso, il tipo di involontario prodotto dalla paura è un involontario secundum quid, perchè di fatto egli vuole fare ciò che fa, cioè buttare la merce, lo vuole proprio, in concreto, ciò che fa in concreto lo vuole fare. Quindi è secondo la sua volontà, è perfettamente volontario. Quindi le azioni dominate dalla paura sono azioni per se volontarie, però sono involontarie secundum quid, cioè secondo una velleità inefficace.

Egli, può pensare in astratto all’assenza della circostanza, ma questo lo può fare solo secondo l’astrazione della mente, perchè di fatto il pericolo incombe. E’ inutile non pensarci, incombe. E bisogna agire di conseguenza. Però, secondo l’astrazione della mente, egli può anche pensare: magari non ci fosse quel pericolo! Allora, velleitariamente dice: io avrei fatto tutt’altre cose, la mia merce non l’avrei buttata al mare, ma l’avrei conservata. Ma tutto è al condizionale: non avrei buttato al mare, avrei conservato la merce.

Quindi, ciò che si fa per paura è involontario secundum quid, sotto un aspetto limitato, velleitario, inefficace, ed è invece volontario in se. Questo ordinariamente. Può succedere che ciò che si fa per paura si verifichi in uno stato del cosiddetto timor panico o comunque di un timore che effettivamente fa pensare solo al pericolo incombente, a null’altro. S.Tommaso non ne parla, ma è bene aggiungerlo come un caso limite estremo.

Notate che effettivamente, come tutte le passioni, anche la paura, il timore, se sono estreme, in qualche modo paralizzano il raziocinio. C’è poco da fare. Si può accusare Platone di essere un dualista, ma in questo ha perfettamente ragione. Cioè c’è una certa dualità, che, se un estremo diventa eccessivo, in qualche modo si oppone all’altra parte. Quindi, la passione, spinta all’estremo, diventa tale da annebbiare la mente.

Insomma, uno che prova talmente il timore, rende quasi schiava la sua stessa mente, che di per sè è portata ad astrarre; la rende schiava del concreto, così da non pensare ad altro che al pericolo incombente. Una mente così perde il senso della relatività del pericolo. Il pericolo è tutto e tutto allora si fa pur di aver salva la vita. Questo è il timor panico.

Talvolta effettivamente ci sono situazioni drammatiche. Per fortuna si verificano rare volte. Pensate, per esempio al caso di un incendio. E’ successo qualche anno fa, mi pare a Torino, in quella sala cinematografica, che si è incendiata. La gente  si è riversata verso le uscite ed ha calpestato altri, dove ci stati casi di omicidio. Bisogna dirlo chiaramente. Hanno proprio hanno ucciso altri.

Avevano responsabilità sì o no? Oh, questo non è facile. Solo il Padre Eterno lo sa. I casi sono due: se effettivamente non c’era il timore panico, ma solo il timore, allora è egoistico evidentemente calpestare l’altro. E in tal caso non sono esenti dalla loro responsabilità. Se però il timore ha completamente tolto il raziocinio, questi non vedevano neanche di fare male a una altra persona. Però, è molto difficile da parte di un estraneo giudicare come sono esattamente andate le cose.

Però, è bene sapere questo, che ordinariamente il timore, a meno che non tolga del tutto questa, diciamo così, emergenza della ragione astraente dal concreto rappresentato dai sensi e dalla passione, il timore può influire, ma non può del tutto negare il volontario-perfetto e la libertà. Quindi la responsabilità rimane. Anzi ciò che accade è per se volontario e solo, così, velleitariamente anche involontario. Si vorrebbe fare qualcos’altro, ma rimane sul “si vorrebbe”, insomma, mentre ciò che si vuole è ciò che realmente si fa.

… panico … involontario …

Ah, in tal caso, no no, in tal caso, lo vedremo poi nell’articolo prossimo della concupiscenza, cioè in tal caso non si può nemmeno applicare proprio il termine volontario e involontario, perché esula dal volontario, per lo meno dal volontario perfetto. Cioè esula proprio perché non c’è raziocinio, in sostanza.

… caso …

No. Nel caso della violenza c’è proprio un avvertire, un ragionare, e si è costretti contro ciò che si sa, contro ciò e come si ragiona. Invece gli altri casi, di passione, diciamo così, ma veramente estrema, sono casi di follia, in sostanza, anche passeggera.

Cioè può succedere che, anche soggetti normali, in un momento particolarmente critico, di stress, non riescono a mantenere questa emergenza della ragione, quindi hanno una reazione folle. Ma, mi ripeto, anche in soggetti abitualmente e assolutamente sani psichicamente. In questo caso di follia, non si tratta di un volontario, nemmeno di involontario, ma di un qualche cosa che non è divisibile in questi termini. Proprio perchè l’involontario può essere solo un qualche cosa che si oppone a un soggetto che mantiene però in sè la sua volontà, mentre in questo caso la volontà è annullata, non c’è, non c’è nell’uso. Proprio perché non c’è la (?).

Sì. Quindi, afferrate bene questa distinzione, che mi pare molto importante. Ciò che avviene nella paura è duplice: c’è qualche cosa che di fatto avviene, nella concretezza della circostanza della minaccia del male a cui si vuole sfuggire, e poi c’è qualche cosa che avviene nella mente di chi agisce per paura, ossia quella astrazione che egli compie e la velleità che ne segue. Cioè egli dice: se non ci fosse quel pericolo, io avrei potuto agire diversamente.

Ovviamente ciò che è volontario per se, è ciò che di fatto avviene. L’altro è poi involontario, cioè l’azione è involontaria rispetto a quella velleità che però riesce a essere, riesce a far sì che l’azione sia involontaria solo secundum quid, giacché per se avviene ciò che in concreto avviene, mentre secundum quid avviene ciò che avviene nella mente nella rappresentazione di chi agisce. Questo per il metus.

Nell’ad primum, S.Tommaso chiarisce un po’ la differenza tra ciò che avviene per violenza e per paura. Ciò che avviene per violenza differisce da ciò che avviene per paura, non solo perchè la violenza è subita al presente, mentre la paura è la minaccia di un qualche cosa che si aspetta nel futuro, ma anche perchè al violento la volontà non presta in nessun modo il suo consenso, tutto è contro il movimento della volontà, mentre ciò che avviene per paura diventa volontario, in quanto diventa oggetto della volontà, non per sè ma per un altro motivo, che è quello di respingere il male temuto.

Quindi, due sono le differenze: una esterna e superficiale, cioè il fatto che nella violenza si subisce una azione estranea nel momento presente, mentre la paura data da un male che si aspetta come minaccioso nel prossimo futuro, futuro poi più o meno prossimo, in sostanza. I passeggeri della nave, per esempio, sì, sono in pericolo di morte, però non è che sia morte proprio imminente; in quel momento, c’è ancora un  lasso di tempo, per eventualmente provare, tentare di salvarsi.

Ebbene, questa è una differenza. Ma la differenza molto più importante è che, mentre la volontà appunto agisce in maniera tale che, cioè nella violenza la volontà non conferisce per nulla a ciò che si subisce, nihil conferente vim passo, nel metus, nella paura, invece, si vuole ciò che si fa, c’è proprio un contributo della volontà, c’è però questo contrasto, questo sdoppiamento tra ciò che si fa in concreto e ciò che si vorrebbe fare, e si vorrebbe fare poi in astratto.

Dunque, Giovanni di S.Tommaso ha alcune precisazioni a questo riguardo, cioè dice: la volontà e l’azione procedenti dalla paura rinchiudono in sè due motivi: uno condizionato, per esempio non gettare appunto la merce in mare, e l’altro assoluto, ciò che si vuole in assoluto, cioè gettare la merce in mare. Uno è efficace, quello che veramente si fa; l’altro velleitario, inefficace, ciò che si vorrebbe fare, se non ci fosse la circostanza.

Uno avviene a modo di fuga, cioè la dissuasione inefficace di gettare la merce nel mare, uno non ha voglia di compiere quell’atto. Quindi c’è una ripugnanza, una dissuasione. L’altro avviene a modo di un qualche cosa che si persegue, che si vuole realizzare, ciò che poi di fatto avviene. Cioè, quei poveretti, nonostante non volessero, poi buttano la merce al mare.

Ora, ciò che avviene per paura è assunto dalla volontà in vista di un fine come utile e conveniente. Ciò che avviene per paura, non è quindi voluto per se, perchè è generalmente spiacevole. Ma è assunto dalla volontà in vista di un altro bene. Per esempio, per avere salva la vita si rinuncia ai propri averi. Questo spesso succede, che talvolta per realizzare un bene di gran lunga maggiore, si accetta un male minore.  

Per esempio una medicina amara. Ciò però non vale in campo morale. Si capisce questo. Non si può fare un peccato in vista di essere santi. Questa non è una via accetta al Signore Dio onnipotente. Però, nel campo, diciamo così, dei beni fisici, evidentemente il bene della salute, per esempio, fa sì che io mi sottopongo ragionevolmente anche ad una difficilissima e spiacevole, proprio dolorosa, operazione.

Quindi, naturalmente in tal caso, l’operazione è poco appetibile in se stessa, però io la accetto in vista di quel bene che è appunto la salute. E così praticamente e effettivamente al di fuori della circostanza minacciosa, ciò che si fa per paura non si vuole, lo si vuole solo sottoposto a quella determinata circostanza, in vista di quel fine che è evitare il male che minaccia. Notate che in questo campo c’è una vastissima casistica. Non mi inoltro, perché vi dico sinceramente che poi non me ne intendo.

Spero che lo Spirito Santo mi illumini nel momento, in cui dovessi essere in una situazione del genere. Penso che la prudenza umana riesca un po’ a elencare alcuni principi abbastanza generali, ma poi nella concretezza non riesce a spingermi. Il fatto è che ci sono diversi obblighi di agire contro il timore.

Giovanni di S.Tommaso fa la distinzione fondamentale tra i precetti negativi e quelli positivi. Cioè dice: i precetti negativi devono essere adempiuti comunque. Per esempio, non è mai lecito uccidere una persona innocente. Quindi, anche per aver salva la vita, io non posso fuggire da un cinema incendiato calpestando a morte l’altro.

… negativi …

Precetti negativi. Questo ricordatelo bene, che è proprio in morale di una primaria importanza. I precetti negativi, ossia quelli che vietano, sono dei precetti che obbligano sempre e in ogni momento, ugualmente in ogni momento. Non c’è differenza. Cioè non è che io in un momento possa essere omicida e in un altro no. Non posso mai essere ugualmente omicida.

E questi precetti vanno adempiuti comunque, anche con il gravissimo timore di morte. Ovviamente poi ci vuole molta virtus fortitudinis, che abbiamo studiato l’anno scorso. Questi precetti vanno adempiuti comunque. Altri sono i precetti positivi, quelli che invitano a fare qualche cosa positivamente. E questi non obbligano ugualmente in ogni situazione. Pensare per esempio, onora il tuo padre e la tua madre, eccetera. Il IV comandamento, che è positivo.

Ebbene, è chiaro che io devo sempre per tutta la vita onorare i genitori, però è chiaro che i miei obblighi verso di loro si esprimeranno diversamente a seconda delle circostanze in cui si trovano. Se stanno bene, ci salutiamo, ci telefoniamo di tanto in tanto. Se stanno male, è chiaro che devo assisterli. Quindi, questo, questo tipo di osservanza del precetto subisce delle variazioni a seconda delle circostanze.

Ebbene, Giovanni di S.Tommaso dice appunto che l’adempimento dei precetti positivi scusa se c’è un timore grave, però con due eccezioni, se non si ha l’obbligo di adempierli. Se si ha l’obbligo di adempiere un precetto positivo, bisogna adempierlo anche con il grave timore.

L’esempio classico è ovviamente il soldato in battaglia. Egli non può dire: i precetti positivi non sono da adempieree cum gravi metu; ora io ha una grande fifa, quindi scappo. Non può dirlo, perché lui proprio, per l’obbligo, per il giuramento che ha prestato, deve stare in trincea, nonostante tutto.

Oppure - questa è un’altra condizione importante - può capitare che il timore porti al disprezzo della legge, il contemptus legis, in quanto spesso può succedere che uno, proprio motivato dal timore, si esime da adempiere un determinato precetto, disprezzando poi in sostanza il legislatore, cioè dicendo: è un precetto di poco valore. E via dicendo. Questo è sempre da evitare, perché, dice effettivamente S.Tommaso, che torna poi in un precetto negativo, in quanto la legge non va disprezzata. Prego.

… non rubare … in pericolo di vita … un mezzo per fuggire … impossessarsi di qualche cosa di un altro, in questo caso …

Non necessariamente. Perché il caso qui è un esempio non ben scelto. Io capisco dove puoi arrivare, caro, ma il fatto è che non è un esempio ben scelto, perché effettivamente nel rubare, e nei peccati contro la giustizia in questo campo della proprietà altrui, per il furto devono verificarsi queste circostanze: portare via il bene, che sicuramente appartiene a un legittimo proprietario, di nascosto, altrimenti sarebbe rapina e non furto, di nascosto e in maniera tale che il legittimo proprietario legittimamente obietterebbe.

Quindi, se ci sono casi assolutamente estremi, come quello che ipotizzavi, nessuno ha il diritto di dire: io mi tengo quella cosa, anche a costo della vita altrui. Guai, questo è proprio il caso in cui la cosa non gli appartiene più. Un esempio  abbastanza recente,  è quello che si è verificato un po’ in Germania, dopo la II Guerra mondiale. Voi sapete che enorme miseria c’era nei primi anni, cioè subito dopo la sconfitta. Ebbene il Cardinale di Colonia, il famoso Frings, che si sarebbe fatto conoscere anche al Concilio, non sempre in maniera molto edificante, in questo ha detto una cosa molto giusta.

Ebbene, questo Frings disse appunto che nel caso di uno che proprio è agli estremi del bisogno, della fame e via dicendo, ovviamente tutti i beni gli diventano comuni. Cioè, se egli riesce a procurarsi il cibo necessario per la vita sua e dei suoi stretti familiari, non ruba, in sostanza. Questo è molto importante. Ma chiarisce più la casistica del rubare, che non quello che volevi forse sapere tu qui.

Allora, carissimi, adesso, sì, siamo ancora un po’ in anticipo, però vi lascio ai vostri cinque minuti, che poi così partiamo poi con l’altro articolo, quello che riguarda la concupiscenza.

Fine Parte Prima (1/2)

Registrazione a cura di Amelia Monesi
Trascrizione da audio di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna 21 febbraio 2014
Testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli, OP - Varazze, 26 luglio 2015

 

La questione sollevata da S.Tommaso è questa: se la volontà possa subire violenza, se è possibile che la volontà subisca violenza. E la distinzione che si impone è questa: anzitutto il volontario si distingue in due grandi ambiti: c’è il volontario elicito e il volontario imperato.

Elicito è il volontario posto come atto dalla stessa volontà; imperato è quell’atto che non è posto dalla volontà stessa, ma da una altra facoltà mossa dalla volontà, cioè la volontà muove un’altra facoltà, che pone quell’atto. 

Per esempio, un atto di amore di Dio è un atto elicito dalla volontà, la volontà stessa che ama il Signore. Invece l’atto di fare una passeggiata è un atto imperato; la volontà comanda alle gambe di muoversi e di fare una passeggiata. Ecco il volontario elicito e quello imperato.

 

Per quanto riguarda gli atti imperati, non c’è dubbio che essi possono essere impediti con violenza. Se qualcuno mi lega, c’è poco da fare, io posso imperare alle mie gambe di fare una piacevole passeggiata e non ci riuscirò. Quindi ovviamente gli atti imperati sono impedibili, nell’effetto esterno, dalla violenza.

Quanto agli atti eliciti, invece, è assolutamente impossibile che la volontà subisca qualsivoglia violenza. Questo proprio perchè l’atto del volontario elicito, cioè l’atto stesso della volontà, procede da un principio interno e conoscente. Invece ciò che è estorto, coatto, costretto, necessitato, procede non da qualche cosa di interno, ma da qualche cosa di esterno.

 

C’è un corollario, l’ad primum, che riguarda la mozione divina della volontà. S.Tommaso insiste su questo fatto, che Dio muove la volontà con una efficacia infinita ed infallibile, però nel contempo rispettando l’essenza del moto volitivo.


Immagini da Internet:
- La passeggiata, Renoir
- Santa in preghiera, dipinto del XVII sec. 

[1] La provenienza dell’atto dell’intimo della volontà.

[2] Si parla dell’impulso  motore dell’atto, non del motivo o della ragione dell’atto,che può essere la legge umana o divina o il comando del superore  o l’obbligo proveniente dal dovere. Il comando della legge o del dovere non è violenza,ma anzi stimolo di libertà: in lege libertas.

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