Il virus è un castigo di Dio?
Una cattiva interpretazione della Scrittura
Castigando
il suo peccato tu correggi l’uomo
Sal
39,12
Questo
è il titolo dell’articolo del 2 maggio scorso di David Neuhaus apparso sul
n.4077 de La Civiltà Cattolica. Una
domanda che molti si pongono e chi risponde di sì e chi risponde di no. I miei
lettori sanno bene che io rispondo di sì proprio in base a quella stessa Sacra
Scrittura, sulla quale Neuhaus pretende di basarsi per dire di no. Ho già
affrontato e confutato altri avversari su questo tema, che oggi interessa tutti[1].
Oggi tocca a Neuhaus. Vediamo dunque con ordine le sue posizioni e diamo una
risposta.
Dice dunque
Neuhaus:
«Per chi ama davvero la Bibbia può risultare sconcertante che
qualcuno stia piegando a proprio uso e consumo alcuni passi biblici che
potrebbero far alludere a una crisi come quella del coronavirus. Si tratta di
versetti sistematicamente estrapolati dal contesto e applicati a forza alla
realtà attuale. I profeti di sventura se ne servono per proclamare che la
pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo
peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità
e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante. Talvolta
sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che descrivono
piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di
essere punito.
Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti profeti
animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del “te l’avevo detto”, che a
loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di
predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo
che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani
migliore. Sia i profeti di sventura sia i moralisti del “te l’avevo detto” sembrano
irrefutabilmente convinti che la crisi Covid-19 rientri in un modello biblico
di castigo o rimprovero divino».
La tesi
centrale che sostengo contro Neuhaus è la seguente: la Bibbia ci aiuta a capire che la pandemia che stiamo vivendo è una
punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore.
Comincio col
dire che è cosa evidente che oggi siano diffusi nel mondo e nella Chiesa gravi
peccati contro Dio e il prossimo, empietà, bestemmia, incredulità, stoltezza,
ipocrisia, eresia, scisma, pavidità, apostasia, doppiezza, superbia,
ingiustizie, discordie, odio, crudeltà, persecuzioni di innocenti, piede libero
a malviventi, diffamazioni, violenza, corruzione, avarizia, lussuria, sodomia.
Per non vedere queste cose bisogna essere ciechi o in malafede o avere distorti
criteri di giudizio o essere implicati negli stessi peccati.
Neuhaus
disapprova l’applicazione che alcuni fanno dei racconti biblici di castighi
divini all’attuale pandemia. Si tratterebbe, secondo l’articolista, di «versetti
sistematicamente estrapolati dal contesto e applicati a forza alla realtà
attuale». Ma qui il contesto storico non ha nessuna importanza: che importa che
si tratti del peccato originale o dell’umanità peccatrice al tempo di Noè o di
Sodoma e Gomorra o di Gerico o degli Egiziani o della sconfitta dei nemici di
Israele o del peccato di Davide o del castigo di Anania e Saffira o del castigo
di Babilonia e mille altri castighi, quando il concetto è sempre quello e cioè che
Dio castiga il peccato?
Ora, non
occorre una speciale conoscenza della Scrittura per accorgersi come essa
un’infinità di volte attribuisce, per mezzo dei profeti, ad interventi punitivi
di Dio per i peccati commessi, le sofferenze o sventure: cataclismi, sciagure,
guerre, sconfitte, invasioni straniere, tirannie, carestie, pestilenze,
siccità, cavallette, alluvioni, terremoti, malattie varie, che càpitano al
popolo d’Israele, ai singoli ed agli altri popoli.
Profeti aguzzini crudeli
Non maltrattate i miei profeti
I Cr 16,22
Neuhaus parla poi di non meglio definiti
«profeti di sventura, che citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro
sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e
sanguinante». Chi sono queste persone crudeli e abbiette? È vero che ci sono
degli pseudocattolici odiatori del Papa, che vaneggiano affermando che la
pandemia è un castigo divino per i peccati del Papa.
Ma Neuhaus
fa imprudentemente di tutte le erbe un fascio, e se la prende indiscriminatamente
contro tutti quelli che parlano di castighi divini, fossero pure i Santi e i più
dotti teologi tomisti, fedeli a Papa Francesco. È molto grave in un Gesuita, che
dovrebbe essere un maestro nel discernimento, fare una simile confusione tra
ciarlatani e autentici sapienti.
Se vuole essere credibile, Neuhaus faccia i
nomi dei «profeti di sventura», come io faccio i nomi dei miei avversari, ne
esamino puntualmente le tesi e le confuto una per una. Sono io un profeta di
sventura? Neuhaus esca allo scoperto, si faccia avanti e mi confuti, se è
capace. Gli dimostrerò che è un diffamatore e un falsario della Scrittura,
ignorante della Tradizione, della dottrina della Chiesa e dell’insegnamento dei
Santi.
Sono
interessanti le accuse di Neuhaus alle vigili sentinelle di Dio:
«infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e
sanguinante. Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano
passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un
mondo che ha bisogno di essere punito».
Si tratta di
una lugubre visione da girone dantesco, calunniosamente e maliziosamente
distorta, quella di Neuhaus, che vorrebbe presentare coloro che, sull’esempio
dei Santi e dei profeti biblici, ricordano che la pandemia è un paterno
richiamo divino alla penitenza e alla conversione, come fossero crudeli
aguzzini, che sadicamente godono nell’aggiungere tormento a tormento,
maledizione divina a sofferenza umana, senso di colpa a disgrazia, invocando tremendo
castigo per una povera umanità innocente e sofferente, che ha solo bisogno di
essere compassionata, assistita e curata con immenso amore.
Ora,
nessuno, mette in dubbio il sacro dovere della solidarietà umana. Il fatto che
Dio ci chiami alla penitenza e alla conversione con i suoi castighi, non vuol
dire affatto che non dobbiamo agire e lottare continuamente per liberare noi
stessi e gli altri dalla sofferenza. È chiaro che se Dio ci manda la
sofferenza, non la ama per se stessa, e resta sempre vero che Egli vuole che
mediante la sofferenza vissuta in Cristo, ci liberiamo escatologicamente dalla
sofferenza.
Parlare di
un Dio «permaloso» per riferirsi al Dio che punisce è segno di animo empio.
Permaloso è colui che se la prende a male o si inalbera o se la lega al dito
per un nonnulla e tende a vendicarsi. Figuriamoci se si può concepire Dio in
questo modo! Qui manca totalmente il vero concetto di castigo divino, del quale
sto trattando da quattro anni nelle mie pubblicazioni online. Siamo nella
concezione del castigo divino, che va bene, sì e no, nell’idolatria di
Pachamama.
Neuhaus ha
una nozione puerile della bontà divina, come quella che un certo bambino
coccolone di nome Paoletto concepisce nei confronti della sua mamma coccolona,
che lo accontenta in tutti i suoi capricci e, se essa si azzarda a fare un
richiamo, Paoletto la bolla come mamma «cattiva» e subito le ordina di essere
«buona».
Stolto è anche
ironizzare sull’espressione «te l’avevo detto», che esprime il caritatevole
commento del maestro o dell’educatore o del pastore o del profeta, che constata
il danno e quindi diciamo pure il castigo, che si è tirato addosso o il
discepolo o il fedele, che ha creduto di poter agire di propria testa e di peccare
impunemente. Anche Dio agisce similmente nei nostri riguardi per mezzo del
rimprovero della nostra coscienza, che col rimorso interiore ci castiga per
aver peccato.
Il Concilio tradito
Fu un tocco inatteso, uno sprazzo di suprema
luce;
una grande soavità negli occhi e nel cuore
San Giovanni XXIII, Dal Discorso di apertura
del Concilio, 11 ottobre 1962
Neuhaus utilizza slealmente per le sue accuse
la famosa espressione di San Giovanni XXIII, che egli riferì ad un contesto
storico molto diverso dal nostro e cioè all’esistenza, allora, di sedicenti
profeti, di teologi arretrati e di moralisti catastrofici, che non sapevano
vedere nel mondo moderno altro che errori e peccati, convinti annunciatori
dell’imminenza della fine del mondo e dei relativi apocalittici castighi divini
precorritori.
Papa
Giovanni, invece, nell’indire il Concilio, come è noto, fu mosso da ben altri
sentimenti e convinzioni, questi sì veramente profetici, e cioè che occorreva
che la Chiesa, senza rinunciare alla condanna degli errori moderni, che si dava
per presupposta, assumesse, con saggio vaglio critico, i valori della
modernità, in vista di una nuova evangelizzazione, tale da attirare a Cristo e
alla Chiesa tutti gli uomini di buona volontà del mondo d’oggi.
Senonchè che
cosa è avvenuto in questi 50 anni? Che
la Chiesa ha certamente iniziato a
mettere in pratica la riforma conciliare, guidata da Papi santi, ma
inaspettatamente, già dai primi anni del postconcilio, una turba di modernisti
capeggiati da Karl Rahner, agguerritissimi e potentissimi, frutto di una elaborata congiura segreta certamente
preparata da tempo, è improvvisante apparsa sulla scena, prendendo di sorpresa
l’episcopato e lo stesso Papa Paolo VI, i quali, nell’attesa della «nuova
Pentecoste», presi da un ingenuo ottimismo ed avendo abbassato la guardia,
nella convinzione che ormai non c’erano profeti di sventura ed errori da
condannare, tutto si aspettavano tranne che un ritorno di modernismo peggiore
di quello dell’epoca di San Pio X.
E invece i
rahneriani, con una propaganda formidabile, forti appoggi economici (da chi?) e
la connivenza di alcuni Cardinali, in poco tempo persuasero moltissimi della
validità della loro interpretazione modernista del Concilio e col loro chiasso
e i loro seducenti discorsi coprirono la flebile, benché saggissima voce del
Papa, presero la mano all’episcopato e allo stesso Paolo VI, sant’uomo, il
quale però non seppe opporre resistenza, sempre sperando nel dialogo con loro,
e sempre regolarmente beffato e umiliato, tanto che dieci anni dopo il
Concilio, il santo Pontefice pronunciò con immensa amarezza la famosa frase,
rimasta storica: «aspettavamo una primavera ed è venuta una tempesta», che oggi
dura ancora ed anzi è peggiorata.
E se con Papa Giovanni apparivano dei profeti
di sventura troppo pessimisti, oggi ce ne sono ancora ed anche di peggio. Ma ce
ne sono anche di saggi, che purtroppo Neuhaus, con i suoi paraocchi modernisti,
non sa riconoscere e invece gli farebbe tanto bene ascoltarli per il bene del
Chiesa e per aiutare veramente Papa Francesco, assediato da forze sataniche.
Un tema
fondamentale della Bibbia
Castigo degli stolti è la
stoltezza
Pro 16,22
Neuhaus
trova soprattutto due passi della Bibbia che i sostenitori della punizione
divina “piegano a proprio uso e consumo”. Commentando questi passi Neuhaus si sforza
di dimostrare con abili acrobazie esegetiche, che qui in realtà non si tratta affatto
di castighi divini, ma di normali manifestazioni della divina Provvidenza, magari
espresse, come vedremo, nell’Apocalisse, con immagini simboliche, impressionanti
ed enfatiche. E con ciò Neuhaus sembra ritenere di avere esaurito l’argomento castighi
divini. Ma in realtà, come vedremo, la fa un po’ troppo facile e sembra quasi
che si voglia prender gioco di noi.
Il primo passo è il capitolo 24 del secondo
libro di Samuele. Ed è il racconto della peste con cui Dio punì il popolo
d’Israele per una colpa commessa dal re Davide, quella di aver ordinato un censimento
con la pretesa di ritenere suo un popolo che invece era di Dio.
«Il capitolo si apre con parole minacciose: “L’ira del Signore si
accese di nuovo contro Israele” (2
Sam 24,1) Perché? Perché Davide
aveva ordinato il censimento, nonostante la resistenza del suo generale
supremo, Ioab. L’astuto Ioab sembrava consapevole del fatto che questa azione
era in contrasto con il comandamento della Legge. Perché un censimento doveva
essere indissolubilmente legato alla raccolta di denaro per il tempio.
Leggiamo, infatti, nell’Esodo: “Quando per il censimento conterai uno per uno
gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il
riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del
loro censimento” (Es 30,12).
In realtà, il conteggio del popolo, che era diventato molto
numeroso, doveva essere collegato a un gesto di ringraziamento, di riconoscenza
verso Dio, che aveva adempiuto le promesse fatte ai patriarchi: “Porrò la mia
alleanza tra me e te e ti renderò molto, molto numeroso” (Gen 17,2). Invece Davide aveva ordinato il censimento
ignorando la Legge, e così era tornato a dimostrare che tendeva a sostituirsi
a Dio, che pretendeva di essere lui la fonte della forza del popolo, come del
resto aveva già mostrato aspirando a costruire un tempio che Dio non voleva
(cfr 2 Sam
7) e spingendosi fino a uccidere il marito di Betsabea, pur di farla propria
(cfr 2 Sam
12).
Sebbene Davide, una volta completato il censimento, si fosse
pentito, il racconto biblico ci informa che Dio pretese un prezzo terribile.
Permise a Davide di scegliere fra tre anni di carestia, tre mesi di fuga inseguìto
dai suoi nemici o tre giorni di peste. Il re chiese solo di non cadere nelle
mani dei nemici. “Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina
fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila
persone” (2 Sam 24,15). Soltanto quando l’angelo devastatore stese
la mano su Gerusalemme, il Signore disse all’angelo: “Ora basta! Ritira la
mano!” (2 Sam
24,16). Il ripensamento di Dio è provocato dal fatto che Davide si era assunto
la responsabilità del suo peccato: “Io ho peccato, io ho agito male; ma queste
pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di me e contro la casa di mio
padre!” (2 Sam 24,17).
Eccoci al punto. Abbiamo la convergenza tra peccato e ira, tra
offesa e conseguenze nefaste. Da questo passo, estrapolato dal contesto, i
profeti di sventura – ai quali abbiamo fatto cenno sopra – potrebbero davvero
desumere che l’attuale crisi – e prima di essa le inondazioni, gli uragani, le
eruzioni vulcaniche, gli tsunami, l’Aids e qualsiasi altra calamità naturale e
umana – sia segno del peccato e dell’ira, proprio come ciò che viene descritto
nella Bibbia. E invece è importante sottolineare che chi traesse questa
deduzione starebbe dando una lettura falsata del testo, ignorandone il contesto
– sia storico sia narrativo –, le intenzioni dell’autore e il messaggio
teologico sottostante.
La narrazione del censimento, infatti, rientra in una lunga storia
che inizia con l’ingresso nel Paese, nel libro di Giosuè, e si muove
ininterrottamente verso la distruzione di Gerusalemme e del tempio. Questa
ampia saga, scritta verso la metà del VI secolo a.C., è il frutto letterario di
un autore o di una scuola di autori che gli studiosi chiamano “deuteronomista”
Lo scottante problema dell’epoca era quello di meditare sulla sciagura della
distruzione del tempio, che Salomone aveva costruito, e della città di
Gerusalemme, con il conseguente esilio a Babilonia. Insomma, la domanda alla
quale risponde quel testo è: com’è possibile che Dio abbia donato a Giosuè la
terra e che questa sia stata perduta con l’invasione babilonese?
L’intera tradizione narrativa deuteronomista è stata scritta in un
contesto di devastazione: tutto era andato perduto. Il popolo doveva rileggere
la propria storia per assumersene la responsabilità e chiedere perdono a Dio.
La pagina biblica non intende affermare la pestilenza come punizione divina,
bensì la necessità che il popolo – come Davide – si assuma le proprie
responsabilità negli eventi che hanno condotto all’esilio.
Certo, secondo la comprensione di Dio nella Scrittura, che è
sempre in divenire, vi è qui ancora una mentalità religiosa che tende a
riferire tutto a Dio come causa prima e a collegare ogni avversità con un
precedente peccato commesso, dal singolo o da altri. Dopo la “correzione” successiva
dei testi profetici (ad esempio Ezechiele), per cui ciascuno paga soltanto le
conseguenze del proprio peccato, sarà Gesù a contraddire questa logica
religiosa di stretta dipendenza tra colpa e castigo (come nel caso degli
episodi della torre di Siloe e del cieco nato)».
«Una serie devastante di pestilenze, che ricordano quelle
dell’Egitto, viene scagliata contro un popolo peccatore. Una voce celeste
ordina a sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di
Dio” (Ap 16,1). E sul mondo viene
lanciata “una piaga cattiva e maligna»” (v. 2); nel mare “si formò del sangue
come quello di un morto” (v. 3); “i fiumi e le sorgenti delle acque […]
diventarono sangue” (v. 4); “gli uomini bruciarono per il terribile calore” (v.
9); “tenebre»” (v. 10); “le acque [del grande fiume Eufrate] furono
prosciugate»” (v. 12); “enormi chicchi di grandine, pesanti come talenti,
caddero dal cielo sopra gli uomini»” (v. 21).
Conclude
Neuhaus:
«Ai nostri tempi, l’Apocalisse ci ricorda che la Chiesa è chiamata
a non assecondare una cultura dominante, intrisa di paura, di accuse, di
chiusure e di isolamento. Se il mondo offre una visione del futuro costruita
sulla paura, la Chiesa, invece, ispirandosi alla Bibbia e al libro
dell’Apocalisse che la conclude, offre una prospettiva diversa, animata e
fondata sulla certezza della Buona Notizia della vittoria di Cristo».
Sì.
D’accordo. Ma noi vinceremo con lui? Lo speriamo. Ci sono infatti delle precise
condizioni: che riconosciamo umilmente i nostri peccati, li confessiamo, ne
facciamo penitenza; traendo occasione dalle sventure della vita, rinnoviamo in
continuazione i buoni propositi, ci sforziamo di avanzare verso il Regno con le
buone opere, sempre aperti all’influsso della grazia e degli impulsi dello
Spirito. Diversamente, non raggiungeremmo la meta, ma saremmo perduti per
sempre.
E con questi
due esempi Neuhaus ritiene di aver liquidato i «profeti di sventura» e con ciò
la questione dei castighi divini. Ma io mi domando: tutto qui per i castighi divini
nella Bibbia? È un po’ poco. Neuhaus sembra ignorare che i passi biblici che
parlano di castighi divini sono
un’infinità. In realtà il tema del castigo umano o divino è uno dei temi fondamentali della Scrittura,
trattato in tutti i suoi aspetti e connessioni con gli altri temi morali e teologici
fondamentali. Non c’è da «piegare» assolutamente niente. Basta riconoscere
senza paraocchi buonisti. Chiunque conosce la Scrittura sa benissimo che il
tema del castigo si offre a quasi ogni pagina della Bibbia.
Esso è connesso con quello del bene e del
male, della giustizia, del peccato, del libero arbitrio, della verità, della
bontà, dell’amore, dell’odio, della sofferenza, del pentimento, della
penitenza, dell’espiazione, della riparazione, del sacrificio, del perdono,
della misericordia, della legge, della grazia, della santità, del paradiso, del
purgatorio e dell’inferno. È rappresentato dalle notissime immagini dell’ira,
dello sdegno, del flagello, del furore.
La torre di Siloe e il cieco nato
Chi ha
peccato, lui o i suoi genitori, perché restasse cieco?
Gv 9,1
Dice Neuhaus
a proposito di questi due episodi:
«Secondo la comprensione di Dio nella Scrittura, che è sempre in
divenire, vi è qui ancora una mentalità religiosa che tende a riferire tutto a
Dio come causa prima e a collegare ogni avversità con un precedente peccato
commesso, dal singolo o da altri. Dopo la ‘correzione’ successiva dei testi
profetici – ad esempio Ezechiele –, per cui ciascuno paga soltanto le
conseguenze del proprio peccato, sarà Gesù a contraddire questa logica
religiosa di stretta dipendenza tra colpa e castigo, come nel caso degli
episodi della torre di Siloe e del cieco nato».
Il concepire
Dio come causa prima di tutte le cose e di tutti gli avvenimenti piacevoli e
dolorosi della vita, non è per nulla, come sembra alludere Neuhaus («vi è qui
ancora»), l'avanzo di una metafisica
superata, ma resta sempre una visione fondamentale di saggezza teologica e
morale, indispensabile, secondo la Scrittura, per un rapporto salvifico con
Dio. Fedele a questa linea di saggezza Ezechiele apporta un chiarimento
decisivo circa il dovere che ognuno ha di pagare per le proprie colpe.
È altresì sbagliato
dire che Gesù in questa occasione vuol «contraddire questa logica religiosa di
stretta dipendenza tra colpa e castigo, come nel caso degli episodi della torre
di Siloe e del cieco nato». Gesù non contraddice un bel niente. Qui non c’è
affatto in gioco la questione se il castigo dipende strettamente dal peccato.
Come già risulta dalla filosofia morale ed è largamente confermato dalla
Bibbia, non si deve assolutamente dubitare che il peccato per sua essenza causi un castigo come effetto intrinseco al peccato stesso, tanto che un atto umano non castigato
o non castigabile non sarebbe peccato. Chi nega il castigo del peccato, nega l’esistenza del peccato e chiama
bene ciò che è male, perché è solo l’atto buono che non merita castigo.
Dice
Neuhaus:
«Del crollo della torre di Siloe Gesù parla nel capitolo 13 del
Vangelo di Luca: “Quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li
uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”».
Nel caso
della torre di Siloe Gesù non dice affatto che possono capitare disgrazie anche
ad innocenti. Non dice che quei 18 fossero innocenti, tutt’altro. In
quell’occasione invece Gesù intende far riferimento a quel principio di
giustizia proporzionale, che dice che a maggior peccato deve corrispondere un
maggior castigo.
Quei 18
erano castigati, benché non avessero peccato maggiormente di altri che erano
scampati. Alle parole di Gesù è sottesa anche la constatazione ovvia per tutti
noi che in questa vita le pene purtroppo non sono proporzionate alle colpe, ma
capita che chi commette peccati leggeri riceve duri colpi dalla sorte, mentre
riceve una pena mite un assassino o uno stupratore. È sottinteso che penserà
poi Dio a riequilibrare le sorti.
La
conclusione di Gesù è tutto il contrario di quanto vorrebbe farci credere
Neuhaus, con la sua falsa tesi di un Gesù che «contraddice la logica religiosa
di stretta dipendenza tra colpa e castigo». Avverte infatti Cristo: «SE NON VI
CONVERTITE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO» (Lc 13,5).
Come risulta
chiaramente dalla Bibbia, certamente Dio, quando crede, adotta o usa anche un
castigo esterno e successivo al
peccato, castigo che quindi Egli può procrastinare
o perché ciò entra fra le conseguenze disordinate del peccato originale o per
dar tempo al peccatore di ravvedersi o perchè permette le lentezze o le
negligenze della giustizia umana, difetti, che Egli si riserva di correggere al
momento giusto.
In certi
casi, sempre stando agli insegnamenti scritturistici, Dio annulla il castigo
infernale per chi si accusa davanti a Dio, pentito, di peccati mortali,
meritevoli di per sé dell’inferno, per esempio il buon ladrone; o perché il
peccatore rimanda la purificazione a dopo la morte in purgatorio (cf I Cor
3,5); o perché il peccatore, per esempio il ricco epulone, avendo trascurato di
far penitenza dei propri peccati, precipita nell’inferno. Dio, nella sua bontà,
può anche mitigare la sua ira[2];
può sospendere il castigo minacciato (Giona agli abitanti di Ninive); può
annullarlo del tutto (col figliol prodigo).
Dice
Neuhaus:
«La guarigione del cieco nato è narrata nel capitolo 9 del Vangelo
di Giovanni, con i discepoli che chiedono a Gesù: “Rabbì, chi ha peccato, lui o
i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?”. E Gesù che risponde: “Né lui ha
peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere
di Dio”, cioè appunto la sua guarigione ad opera di colui che è “la luce del
mondo”».
Gesù in quel
racconto vuole insegnarci che persone buone possono essere colpite dalla
sventura, che pertanto non va considerata come un castigo per peccati
personali, perché non si castigano le opere buone, ma i peccati. Resta in ogni
caso che le pene della vita presente, anche per i più buoni, sono conseguenze
del peccato originale. Per la persona buona, più che castighi, sono prove della
sua virtù, come è avvenuto per Giobbe.
Ancora
Neuhaus in conclusione del suo articolo:
«Quando tutto sembra oscuro, il discepolo di Gesù è chiamato a
irradiare la certezza che il tempo delle tenebre è limitato, che Dio sta
venendo e che la Chiesa è chiamata con la preghiera e la testimonianza a
preparare questa venuta. Ciò significa che la nostra lettura della parola di
Dio nella Bibbia deve tradursi in un messaggio di Buona Notizia che richiama
alla conversione un mondo in crisi, non in un giudizio moralistico o in una
profezia di sventura».
Sì,
d’accordo. Certo si deve evitare il moralismo farisaico. Ma dovrai ben dare un
prudente giudizio morale positivo o negativo sulle loro azioni, incoraggiare
dove fanno bene, correggere dove sbagliano, prospettare loro il premio che li
attende e nel contempo avvertirli su che cosa capita a coloro che non si
convertono.
Ancora:
«C’è un tema che attraversa
la Bibbia cristiana dall’inizio alla fine: Dio non ha permesso, non permette e
non permetterà mai al peccato, all’oscurità e alla morte di prevalere».
Non è
esattamente così. In realtà Dio per alcuni “non permette e non permetterà mai
al peccato, all’oscurità e alla morte di prevalere”. Per altri invece sì. Ci
lascia liberi. Chi Gli obbedisce, vince il peccato, l’oscurità e la morte. Chi
Gli disobbedisce, è vinto dal peccato, dall’oscurità e dalla morte.
Che
significa tutto ciò? Che dire? Dio non riesce a vincere il male in tutti? Non
possiamo dire che non ci riesce. Negheremmo la sua onnipotenza. Bisogna dire
allora che non vuole, perché, se volesse, vincerebbe dappertutto. Ma come mai
allora non lo fa? Forse che Dio è vinto laddove c’è qualcuno che lo odia e si
lascia vincere dal male? No, Dio non è vinto da nessuno. In realtà vince
dappertutto, ma in due modi diversi. Vince quando permette il peccato, perché
fa trionfare la giustizia, e vince quando lo impedisce, perché fa trionfare la
misericordia. Se volesse, potrebbe togliere o impedire ogni peccato. Se non lo
fa, vuol dire che vuole così. Vuole che trionfi il male in qualcuno? Si tratta
di un male di pena, che è effetto della giustizia. E la giustizia è un bene.
Dio vuole la
sofferenza come buon medico e buon educatore. Volendo questa sofferenza Dio ci
si mostra buono, giusto e misericordioso. Personalmente non pecca ed odia il
peccato, non vuole che noi pecchiamo e tuttavia ci lascia liberi, ci dà la
possibilità di scegliere fra il bene e il male. Potrebbe impedire che
peccassimo, ma non lo fa, perché vuol ricavare dal peccato un bene più grande.
Cristo
innocente si è fatto carico del castigo del peccato, che è la morte, per
espiare col suo sacrificio i nostri peccati, soddisfare al nostro posto
all’offesa arrecata al Padre col peccato, ed ottenere con la sua potenza divina
dal Padre la liberazione da ogni male, il perdono dei peccati e il riacquisto
della grazia perduta, consentendoci di ottener grazia e perdono facendo nostra
la morte di Cristo, e noi abbiamo la faccia tosta di chiedere al Padre che ci
liberi dal male e dalla morte senza accettare il castigo dei nostri peccati,
farne penitenza ed espiarli in unione alla croce di Cristo?
P. Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
10 maggio 2020
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