Mediatori di pace - Quarta Parte (4/4)

 

 Mediatori di pace

Quarta Parte (4/4)
 
 Pregi e difetti del Concilio

 Ogni Concilio, grazie all’impulso dello Spirito Santo, fa avanzare la Chiesa sulle vie del regno di Dio, ma in quanto opera umana, contiene sempre limiti e difetti pastorali, i cui effetti negativi richiedono un nuovo Concilio che vi rimedi e così via fino alla fine del mondo. Il Vaticano II non fa eccezione. Esso certamente ha aperto un’epoca nuova, rimediando all’eccessiva severità che era stata avviata dal Concilio di Trento sia all’interno della Chiesa che nei confronti del mondo.

Per capire l’opera del Concilio nei suoi pregi e nei suoi difetti bisogna leggere i discorsi di San Giovanni XXIII in preparazione al Concilio o il famoso discorso inaugurale[1], che danno al Concilio la sua impostazione. Il pregio della pastorale di San Giovanni XXIII, che ha indotto a convocare il Concilio è stato l’aver capito che occorreva che la Chiesa assumesse i valori della modernità.

Il Papa ci dice che occorre saper riconoscere gli aspetti positivi della modernità ed integrare nella Chiesa i progressi attuati dalla modernità. È lo stesso programma di riforma della Chiesa, che era già stato proposto da grandi teologi come Journet, Maritain e Congar. Qualcosa c’era anche in De Lubac, Von Balthasar e Rahner, ma misto ad errori modernistici.

C’è tuttavia in questo atteggiamento ottimista di Papa Giovanni un’ombra di ingenuità, ingenuità che non aveva Pio XII, spirito acuto e vigilantissimo, che era ben consapevole del rinato modernismo, celato sotto la proposta di progresso avanzata dalla théologie nouvelle.

Inoltre, in collegamento con questo eccessivo ottimismo, un’altra ombra nella pastorale di San Giovanni XXIII è il non aver voluto far conoscere integralmente il messaggio della Madonna di Fatima. Ella ci avverte che l’umanità è decaduta, è ribelle a Dio e pertanto incombono castighi divini. Maria ce li fa presenti non per spaventarci, ma per incutere in noi odio per il peccato e per stimolarci alla conversione.

Certo non si deve esagerare nel rilevare i mali del nostro tempo: occorre riconoscere anche i lati buoni. Ma evidentemente a Giovanni XXIII non parve opportuno parlare della minaccia del castigo. E difatti nel Concilio non si fa mai parola di castighi divini, che pure sono un luogo tradizionale della predicazione cristiana riformatrice basata sul genuino Vangelo.

Invece tutti i riformatori della tradizione cristiana, compreso lo stesso Lutero, sulla via dei profeti veterotestamentari, hanno sempre inserito nella loro predicazione la minaccia dei castighi divini. Infatti, se qualcuno ci fa una calorosa esortazione a fare certe cose, ma non ci avverte delle conseguenze negative del non farle, crediamo che si tratti di cose puramente facoltative, che se non le facciamo non succede niente. Così per molti è stato il messaggio conciliare: belle proposte; ma poi preferisco regolarmi diversamente. Per i modernisti il Concilio ci presenta un Dio misericordioso che non castiga nessuno. Per i lefevriani il castigo divino incombe su chi accetta il Concilio.

Il Papa pensò, in parte illudendosi, che sarebbe bastato nei confronti del mondo moderno un atteggiamento di benevolenza e di esortazione per poterlo persuadere. È qui che vediamo il punto debole della pastorale del Concilio, non nella dottrina, che è ottima, checché ne pensino i lefevriani.

Sembra che il Papa abbia catalogato le profezie di Fatima tra i profeti di sventure. Certo il profeta ci annuncia cose belle. Ma occorre un certo prezzo per ottenerle, mentre, col pretesto che sono doni della grazia le vorremmo avere subito e senza fatica e senza alcun sacrificio. Ma non è questo il piano di Dio. Esso è costato il sangue di Cristo.

Un conto sono i profeti di sventura e un conto sono gli avvertimenti della Madonna a Fatima. Chi vede nella modernità solo decadenza e prevaricazioni certamente sbaglia. Tuttavia è vero che abbiamo bisogno di convertirci e di recuperare i valori dimenticati.

Benedetto XVI è stato l’unico Papa del postconcilio che parlando ai lefevriani espresse critiche al Concilio, facendo loro presente che se volevano essere in comunione con la Chiesa, dovevano accettare le dottrine nuove del Concilio, ma che nel contempo era lecito «discutere la parte pastorale».

Affermazione della massima importanza perché finalmente, dopo quasi cinquant’anni dalla fine del Concilio giungeva un riconoscimento sommamente autorevole di una certa posizione critica che si manifestò sin dall’immediato postconcilio non riguardo alle dottrine, ma all’impostazione pastorale secondo i seguenti punti.

I punti in discussione del Concilio

1.    La mancanza dei tradizionali canoni e del tradizionale linguaggio teologico formale scolastico sono sostituiti con un linguaggio colloquiale moderno e corrente, il quale, se da una parte ricorda il linguaggio di Gesù stesso, mette a proprio agio e non suscita timore o soggezione ma piuttosto confidenza, tuttavia per la sua imprecisione offre delle scappatoie a chi vuol fare il furbo e sottrarsi al dovere di accettare quanto il Concilio insegna e prescrive. Ciò dà spazio a interpretazioni interessate, come di fatto è avvenuto (vedi i modernisti) o a timori infondati (vedi i lefevriani).

2.    L’idea di confrontarsi col pensiero moderno, mai avuta prima da nessun altro Concilio, è stata una buona idea. C’era effettivamente bisogno che la Chiesa facesse questo lavoro, perché da troppo tempo essa, da secoli occupata nel condannare errori e nella semplice esplicitazione del suo patrimonio dottrinale, aveva perduto il contatto col progresso moderno delle scienze e della filosofia, né mai si era confrontata seriamente con le altre religioni. Tuttavia, se la denuncia degli errori del pensiero moderno si trovava già nei precedenti documenti della Chiesa, il Concilio non ha messo in luce gli errori delle altre religioni. 

3.    La visione del mondo moderno proposta dal Concilio sembra troppo ottimistica e sa di ingenuità, soprattutto per l’assenza del riferimento apocalittico della lotta della Donna contro il Drago e della vittoria finale di Cristo. L’opera evangelizzatrice della Chiesa ha il sapore di un’attività tranquilla con la quale la Chiesa risponde al bisogno di un mondo assetato di Dio, il che purtroppo non è, stanti le conseguenze del peccato originale, che inducono la Chiesa all’occorrenza ad assumere nei confronti del mondo toni severi e di condanna, come del resto aveva sempre fatto.

Sembra che qui giochi una reazione esagerata, di tipo buonista e misericordista, al precedente atteggiamento improntato ad un’eccessiva severità. Ciò che quindi occorre oggi, è un moderato recupero della severità senza trascurare i progressi nella misericordia.

4.    Per quanto riguarda le dottrine, è vero che il Concilio non presenta nuove definizioni dogmatiche solenni, ma ciò non toglie che possegga una parte dogmatica, come è indicato da due Costituzioni sulla Rivelazione (Dei Verbum) e sulla Chiesa (Lumen gentium), nel senso di insegnamenti dottrinali da ricevere come Magistero autentico, che, trattando di temi di fede o di morale, richiede l’ossequio religioso dell’intelletto e della volontà nella fiduciosa certezza che la dottrina è vera e non falsificabile. Il dissentire certo non è eresia, però è mancanza di fede nella dottrina della Chiesa.

5.    Il Concilio non raccomanda più la teologia scolastica, come ancora fece Pio XII, eppure raccomanda la dottrina di San Tommaso, che è il principe dei teologi scolastici. Del resto, che cosa è la teologia scolastica se non quella scuola di teologia, della quale la Chiesa ha avuto sempre cura per la formazione del clero e oggi anche dei laici? Dietro dunque alla raccomandazione a favore dell’Aquinate è chiaro che occorre vedere la raccomandazione per quella teologia che la Chiesa insegna nelle sue scuole e che serve in modo eccellente rispetto ad altre scuole per l’interpretazione della Scrittura, per una migliore conoscenza del dato rivelato, e per la preparazione delle nuove formule dogmatiche.

6.    La riforma del rito della Messa promossa dal Concilio, senza mutare in nulla il suo significato essenziale dell’offerta da parte del sacerdote ministeriale del sacrificio di Cristo in modo incruento per la remissione dei peccati, corrisponde a un intento ecumenico di accoglienza del valore del sacerdozio comune dei fedeli, della commemorazione della Cena del Signore e del suo valore di annuncio pasquale del banchetto messianico.

7.    La Costituzione dogmatica Dei Verbum presenta la Rivelazione (n.4) non solo come insegnamento orale e verbale fatto da Cristo della sua dottrina, ma anche come insegnamento fatto con la sua stessa presenza, i suoi gesti, i suoi atti, la sua vita, i suoi miracoli, la sua passione, morte e risurrezione e salita al cielo.

8.    Quando la Costituzione dice che la Tradizione «progredisce e cresce» non intende dire che i contenuti mutino o aumentino, ma si riferisce alla conoscenza dei contenuti, che progredisce e cresce «con la riflessione e lo studio dei credenti» (n.8).

9.    Essa ribadisce che «la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura» (n.9), ma anche dalla Tradizione, sicchè quando dice che la Tradizione e la Sacra Scrittura in unum coalescunt, non vuol dire, come crede Gherardini, che qui il Concilio riduca la Rivelazione alla sola Scrittura, ma che le due fonti convergono tra di loro fino a formare una cosa sola, ad esprimere la loro stretta unione.

10.          La Costituzione dogmatica Lumen gentium presenta la Chiesa come comunità guidata dallo Spirito Santo (n.4) in modo tale che l’aspetto istituzionale relativo ai gradi del sacramento dell’Ordine si collega con l’aspetto carismatico, fondato sul Battesimo, e caratterizzante la condizione e l’essenza del laico.

11.          Essa, affermando che la Chiesa cattolica sussiste nella Chiesa di Cristo (n.8) non intende dire che questa sia più ampia, così da contenere anche altre Chiese non cattoliche, ma si riferisce semplicemente al sussistere della Chiesa cattolica come la Chiesa che contiene la pienezza delle verità salvifiche, mentre «al di fuori del suo organismo visibile si trovano parecchi elementi di santificazione e di verità, che spingono verso l’unità cattolica».

È la stessa dottrina che troviamo nell’Unitatis redintegratio, dove si parla delle comunità cristiane non cattoliche, che sono già in parziale comunione con la Chiesa cattolica e sono chiamate a realizzare la piena comunione con lei. Dire che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica e dire che è la Chiesa cattolica è la stessa cosa espressa sotto due predicati diversi: nel primo caso facciamo riferimento al sussistere, nel secondo, all’essenza. Si potrebbe dire che la Chiesa di Cristo nella sua pienezza è e sussiste nella Chiesa cattolica; le altre Chiese sono e sussistono partecipativamente nella Chiesa cattolica.

12.          Importante nella Lumen gentium il n.16, dove si afferma ciò che finora la Chiesa non aveva mai insegnato, e cioè che «la Provvidenza non nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio e si sforzano non senza la grazia divina di condurre una vita retta». Non si tratta degli atei, come crede Rahner, e neppure della rahneriana «esperienza trascendentale», ma di vera conoscenza di Dio, benché implicita sotto l’immagine del prossimo, come coloro che, secondo le parole di Cristo in Mt 25, hanno servito Cristo nel servire il bisognoso.

13.          Riguardo alla collegialità episcopale la Lumen gentium si esprime in un modo che può dare l’impressione di mettere in pericolo il primato del Papa sui vescovi. Dice infatti che non solo il Papa ma anche il collegio dei vescovi «è soggetto di piena e suprema potestà su tutta la Chiesa» (n.22). Parrebbe qui delinearsi una diarchia alla pari vescovi e Papa sulla Chiesa. Ma leggendo le parole che seguono, l’apparenza scompare, perché il Concilio precisa: «insieme con il suo capo il romano Pontefice e mai senza questo capo: con il consenso del Romano Pontefice» (ibid.).

 

14.          Riguardo al grado di autorità delle dottrine del Concilio (n.25), purtroppo il Concilio non è chiaro, né quello che San Paolo VI disse in merito apportò chiarezza. C’è voluto San Giovanni Paolo II con la Lettera apostolica Ad tuendam fidem del 1998 per precisare qual è grado di autorità: dottrina permanentemente vera e non falsificabile, e tuttavia da credersi non con fede divina come nel caso della definizione dogmatica (1° grado), ma con fede nella Chiesa cattolica (2° grado), o con ossequio religioso dell’intelligenza e della volontà nei confronti del Magistero autentico della Chiesa (3° grado). Così si chiude ogni scappatoia sia ai lefevriani che ai modernisti per sottrarsi all’obbedienza alla Chiesa col pretesto dell’assenza di definizioni dogmatiche.

15.          Altro punto dove si nota la tendenza buonistica della pastorale conciliare è laddove si parla della funzione di governo propria del Vescovo, cosa che mette in gioco ovviamente tutti i gradi della gerarchia, dal diacono, al Cardinale, al Papa. Ebbene, purtroppo anche qui si nota l’assenza o quanto meno la debolezza del dovere di far giustizia, punendo i rei e premiando i buoni, difendendo il gregge dai lupi.

Si insiste giustamente sulla misericordia, ma non appare come essa non è vera misericordia se non è coordinata alla giustizia. Israele loda la misericordia divina appunto perché Dio lo ha liberato dal faraone sul quale ha esercitato la sua giustizia. La misericordia che trascura la giustizia è una falsa bontà. Il vescovo che in nome della misericordia non punisce il malfattore in pratica acconsente a che egli continui a mal fare con la certezza dell’impunità, per cui il buonismo (tutti buoni, tutti perdonati, tutti salvi) è sostanzialmente malvagità. Le conseguenze di questo errore pastorale le abbiamo sotto gli occhi da 60 anni.

Anche qui la reazione all’eccessiva severità dei vescovi del passato è a sua volta eccessiva e produce un modello di vescovo opportunista e pavido, non all’altezza del suo ufficio. Non buono, ma bonaccione, il che è altra cosa.

È interessante confrontare le foto di vescovi prima del Concilio e dopo il Concilio. Prima appaiono molto seri e quasi accigliati. Dopo li vediamo ridere a bocca aperta come attori del cinema. Così oggi purtroppo abbiamo vescovi «imboscati», deboli, opportunisti ed incerti, che non sanno guidarci, non sanno indicarci con chiarezza il cammino e la meta, non ci mostrano i pericoli per la fede, non ci danno sicurezza e affidamento, non ci proteggono, non ci difendono, non ci incoraggiano, non ci confortano, non ci consolano, ma ci abbandonano a noi stessi col pretesto che anche noi comuni fedeli abbiamo lo Spirito Santo e dobbiamo essere fedeli liberi e maturi.

16.          Importante è il c. VIII della Lumen gentium, dove è presentata la persona della Beata Vergine Maria come modello della donna e modello della Chiesa (n.63). Sicchè possono trarsi le seguenti conseguenze: la femminilità mistica della Chiesa[2]; la donna e la Chiesa rimandano a Maria come loro immagini; la donna rimanda alla Chiesa come immagine della Chiesa.

17.          La Costituzione pastorale Gaudium et spes propone un programma pratico di rapporto della Chiesa col mondo moderno come mai nella storia dei Concili era avvenuto, poiché essi si erano sempre limitati o a precisare nozioni dogmatiche o a condannare errori. In questo Concilio invece la Chiesa non solo prende in considerazione gli aspetti positivi del mondo, ma si ferma a parlare di una mutua relazione fra Chiesa e mondo, tale per cui non solo la Chiesa aiuta il mondo, e questo lo si è sempre saputo, dato che essa salva il mondo, ma anche riceve un aiuto dal mondo (nn.40-44) e ciò ha dato occasione ai modernisti per negare la trascendenza della Chiesa nei confronti del mondo e sostenere che il fine della Chiesa non trascende il mondo, ma è la semplice felicità di questo mondo.

18.          Nella Gaudium et spes viene ribadita la finalità procreativa del matrimonio, ma nel contempo si riconosce un valore intrinseco all’atto coniugale come espressione dell’amore (n.49), sicchè è consentito pensare, come spiegherà poi S.Giovanni Paolo II, che l’unione dell’uomo e della donna sarà ricostituita alla futura risurrezione, allorchè il procreare sarà cessato, ma non sarà cessato l’amore.

19.          Ampio spazio dà la Gaudium et spes al problema di come il cattolico deve affrontare il pensiero moderno (nn.60-63). Non c’è alcuna condanna della filosofia moderna, come troviamo in San Pio X, anzi si nota uno sguardo benevolo, seppur affinato dal discernimento che fa distinguere il vero dal falso.

Attenzione, però! Qui non siamo davanti a un cedimento al modernismo, come credono i lefevriani, né si tratta di un’approvazione del modernismo, come credono i modernisti, ma è solo una questione di significato delle parole. Da come infatti Pio X parla di filosofia moderna si capisce benissimo a chi si riferisce: all’idealismo e all’ateismo nati da Cartesio e non intende certo colpire quanto c’è di buono nella modernità.

Il linguaggio del Concilio è più preciso e meno si presta all’equivoco, perché, nel momento in cui ribadisce la condanna degli errori moderni, usa giustamente l’espressione «filosofia («cultura») moderna» nel suo senso più ovvio e naturale, come la filosofia che esiste oggi. Che poi il moderno debba essere migliore dell’antico, lo si suppone, ma non è sempre detto.

20.          La Gaudium et spes propone inoltre ai laici impegnati nella politica un grandioso programma di azione liberatrice di giustizia sociale ed economica (nn.63-76), la quale, mantenendo sempre la fede che spetta a Dio operare la piena giustizia nell’umanità alla fine del mondo, sorretta tuttavia dalla potenza della grazia divina, può essere in grado di realizzare fin da adesso, seppur solo inizialmente e imperfettamente quella fratellanza, uguaglianza e libertà, che dovranno caratterizzare l’umanità gloriosa e felice della futura risurrezione.

I modernisti tuttavia, influenzati dal marxismo, hanno perso di vista il fatto che questa azione liberatrice, a meno che non orientarla a obbiettivi meramente politici, non possiamo portarla a termine in questo mondo, dove l’ingiustizia non può mai essere tolta del tutto, ma solo nel mondo futuro trascendente della risurrezione dopo la morte. Per questo, non sempre un regime tirannico può essere abbattuto: nel qual caso resta utile e necessaria la pazienza mettendosi nelle mani di Dio, attendendo dal suo soccorso la liberazione dagli oppressori.

Viceversa la cosiddetta «teologia della liberazione», nata da questo fraintendimento del messaggio sociale del Concilio[3], adottava lo schema dialettico marxista, di origine hegeliana, secondo il quale è la stessa classe oppressa che da sé si libera, mediante la rivoluzione, della classe degli oppressori, così come in Hegel non è il positivo che toglie il negativo, ma è il negativo che, negando se stesso, toglie il negativo e pone il positivo.

21.          Una difficoltà sorge dall’interpretazione del n.22 della costituzione pastorale Gaudium et spes, laddove è detto che «con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo». La frase, staccata da ciò che segue, potrebbe dare adito ad interpretazioni pancrististe o panteiste; ma leggendo ciò che segue ci accorgiamo che il Concilio intende dire semplicemente che Cristo ha voluto rendersi partecipe dell’esperienza di ogni uomo in quanto uomo: «ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, i tutto simile a noi fuorché nel peccato».

22.          Il Decreto sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio) promuove l’attività della Chiesa tesa ad adoperarsi affinchè i fratelli separati, concordi con lei nella conservazione e nel riconoscimento dei valori cristiani rimasti in comune dopo la separazione, nella reciproca carità e nel rispetto reciproco delle diversità, vogliano togliere gli ostacoli alla piena comunione e arrivare alla piena comunione con la Chiesa cattolica.

23.          Nel Decreto sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) la Chiesa per la prima volta nella sua storia assume purificandolo il principio illuminista-liberale della libertà di coscienza già condannato dl Beato Pio IX, come espressione di soggettivismo e indifferentismo, benchè poi il Papa riconosca che

«Coloro che soffrono di invincibile ignoranza circa la nostra santissima religione e conducono una vita onesta e retta osservando diligentemente la legge naturale e i suoi precetti scolpiti da Dio nel cuore di tutti, possono, operante la virtù della luce divina e della grazia, conseguire la vita eterna, dato che Dio chiaramente vede, scruta e conosce la mente, gli animi, i pensieri e gli abiti di tutti, per la sua somma bontà e clemenza non può assolutamente ammettere che uno sia punito con gli eterni supplizi, senza aver reato di colpa volontaria»[4].

Da queste parole di Pio IX dovrebbe apparire che non c’è alcun contrasto, come credono i lefevriani, fra il concetto conciliare di libertà di coscienza e quello di Pio IX. Si suppone sempre che la verità sia la regola della coscienza, sia essa erronea in buona fede o sia verace. La coscienza retta ed onesta si fa misurare sempre dalla verità sia che si sbagli (senza saperlo), sia che ci prenda.

Viceversa, nella concezione liberal-massonica, principio del relativismo e del soggettivismo gnoseologico e morale, è la coscienza individuale che si fa misura della verità, la quale non è più ciò che oggettivamente, universalmente esiste fuori di me e di tutti, davanti a me e a tutti, ciò su cui mi misuro, pur andando involontariamente soggetto ad errare, ma ciò che decido io esser vero o ciò che pare a me come piace a me.

Conclusione

Abbiamo fatto un’analisi della situazione della Chiesa di oggi, abbiamo visto come essa soffra della presenza in lei di due forze contrapposte, modernisti ed indietristi entrambe aspiranti ad esser la vera Chiesa, mentre in realtà ne rappresentano una metà opponendosi all’altra metà. Abbiamo visto pregi e difetti presenti in entrambe. Abbiamo visto le regole da applicare per costruire la pace e trovare l’accordo.

Abbiamo visto ciò che indietristi e modernisti hanno in comune: l’essere cattolico, che non sta a loro definire, né rivendicare per sé, ma alla Chiesa, se vogliono appartenere alla Chiesa. Abbiamo visto il nodo di fondo del conflitto: l’incapacità di entrambi i partiti di metter d’accordo tradizione e progresso, quando in realtà si richiamano e si completano a vicenda. Abbiamo visto come questo conflitto fa capo all’interpretazione del Concilio Vaticano II. Abbiamo visto pregi e difetti del Concilio. A questo punto non ci resta che rimboccarci le maniche, confidando nella grazia di Dio e dirci l’un l’altro: al lavoro!

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 gennaio 2024

 

 

Tutti i riformatori della tradizione cristiana, compreso lo stesso Lutero, sulla via dei profeti veterotestamentari, hanno sempre inserito nella loro predicazione la minaccia dei castighi divini. Infatti, se qualcuno ci fa una calorosa esortazione a fare certe cose, ma non ci avverte delle conseguenze negative del non farle, crediamo che si tratti di cose puramente facoltative, che se non le facciamo non succede niente. Così per molti è stato il messaggio conciliare: belle proposte; ma poi preferisco regolarmi diversamente. Per i modernisti il Concilio ci presenta un Dio misericordioso che non castiga nessuno. Per i lefevriani il castigo divino incombe su chi accetta il Concilio. 

Il Papa pensò, in parte illudendosi, che sarebbe bastato nei confronti del mondo moderno un atteggiamento di benevolenza e di esortazione per poterlo persuadere. È qui che vediamo il punto debole della pastorale del Concilio, non nella dottrina, che è ottima, checché ne pensino i lefevriani.

Chi vede nella modernità solo decadenza e prevaricazioni certamente sbaglia. Tuttavia è vero che abbiamo bisogno di convertirci e di recuperare i valori dimenticati.

Benedetto XVI è stato l’unico Papa del postconcilio che parlando ai lefevriani espresse critiche al Concilio, facendo loro presente che se volevano essere in comunione con la Chiesa, dovevano accettare le dottrine nuove del Concilio, ma che nel contempo era lecito «discutere la parte pastorale».

Affermazione della massima importanza perché finalmente, dopo quasi cinquant’anni dalla fine del Concilio giungeva un riconoscimento sommamente autorevole di una certa posizione critica che si manifestò sin dall’immediato postconcilio non riguardo alle dottrine, ma all’impostazione pastorale.

Immagini da Internet:
- I Cavalieri dell'Apocalisse, Miniatura (970 circa)
- La Donna dell’Apocalisse, di Rubens


[1] Discorso di indizione del Concilio del 25 dicembre 1961 e discorso di apertura del Concilio dell’11 ottobre 1962.

[2] Cf J.Maritain, De l’Église du Christ. La personne de l’Église et son personnel, Desclée de Brouwer, Bruges 1970.

[3] Denunciai questo fraintendimento del vero messaggio sociale del Concilio già nella mia tesi di laurea in filosofia del 1970 presso l’Università di Bologna «La crisi dell’intellettuale nella società moderna», indicando Maritain e Congar come maestri del rinnovamento conciliare, ricostruttori dell’intelligenza metafisica per l’edificazione di un nuovo umanesimo e una nuova Chiesa.

[4] Dall’enciclica Quanto conficiamur moerore del 10 agosto 1863.

 
 

31 commenti:

  1. Caro padre. Ho letto il suo intero articolo e gli altri correlati, compreso il suo libro "Le verità di fede" (2021).
    Mi sembra che non definisca chiaramente cosa sia il magisterio pontificio e non lo differenzi dall’opinione personale di un papa. La distinzione è molto importante, perché voi attribuite un valore infallibile all'intero magistero pontificio, una posizione quanto mai minoritaria se ce n'è, tra le ermeneutiche del magistero, ad eccezione degli ultramontani così brillantemente confutati dal cardinale san John Henry Newman e perfino dalla lettera di Monsignor Dupanloup approvata da Pio IX.
    D’altra parte, dicendo che la Scrittura o Tradizione è illuminata dal magistero pontificio, le attribuisce un valore di fonte di rivelazione che è in diretta contraddizione con il magistero conciliare (DV), e che appare in alcuni manuali ultramontani della prima metà dell'Ottocento già superati, che parlavano del magistero come fonte prossima della Rivelazione, ipertrofizzandone il valore.
    Ma ecco, mi sfugge la definizione di magistero pontificio. Se parlassimo del magistero ordinario, formulato con il manifesto intento di insegnare a tutta la Chiesa e ribadito da tempo in documenti formali, senza contraddizione con pronunciamenti precedenti e in conformità con la Scrittura e la Tradizione, parleremmo del così-chiamato magistero ordinario infallibile. Ma solo con queste precauzioni. Ad esempio, la dottrina sulla contraccezione. E, naturalmente, non fanno parte di questo magistero (buona parte dei documenti conciliari, soprattutto Gaudium et Spes) i giudizi fenomenologici che non intendono insegnare ma descrivere una realtà agli occhi dell'autore. Né le iniziative pastorali sono contaminate dalla cattiva dottrina (benedizione delle coppie omosessuali o comunione agli adulteri, anche se in questi casi si tratta di errori noti già condannati dal magistero pontificio).

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    1. Caro Davide,
      il magistero pontificio è l’attività magisteriale del Papa in quanto Successore di Pietro e Maestro della Fede. Quando egli, sotto questo titolo insegna in materia di fede e di morale a tutta la Chiesa, fruisce del dono petrino di confermare i fratelli nella fede, in modo tale che insegna sempre la verità e, trattandosi di verità di fede e di morale, si tratta di dottrine irreformabili e non falsificabili.
      Il magistero pontificio è soggetto a tre gradi di autorità. Il 1° grado è il più importante e riguarda la definizione di nuovi dogmi, per cui qui abbiamo il dogma definito. Qui si tratta di verità di fede, che vanno credute con fede divina o teologale. Questo è il magistero straordinario e solenne.
      Al 2° grado il Papa insegna dottrine definitive in materia di fede o di morale, che sono dogmi definibili. Esse vanno accolte con fede nella Chiesa. La materia qui può essere o di pura fede (dato rivelato) oppure di ragione connessa con la fede (prossima alla fede). Questo è magistero ordinario ed è infallibile.
      Al 3° grado abbiamo il magistero ordinario autentico, anch’esso infallibile, che va accolto con religioso ossequio della intelligenza e della volontà. Qui la materia è ancora di fede e di morale, che può essere dichiarata dottrina definitiva.
      Un referente di questa dottrina la può trovare nel libro del Padre Sisto Cartechini, “Dall’opinione al domma”, ed. La Civiltà Cattolica, Roma, 1953.
      Per quanto riguarda l’opinione personale, il Papa può trattare argomenti di fede o di morale, ma senza intenzione di insegnare come Papa. Si tratta di pronunciamenti nei quali il Papa parla, però non come Papa, ma come semplice cristiano e quindi soggetto alla fallibilità. Faccio alcuni esempi: come quando Papa Francesco in una intervista televisiva concessa a Fazio ha espresso come voto personale l’auspicio che tutti si salvino, precisando che non intendeva pronunciare un dogma o parlare come Pontefice. Altro esempio è quello di Papa Benedetto XVI, il quale nella sua trilogia cristologica ha affermato di esprimere opinioni personali, come teologo e non come Pontefice, invitando alla discussione.

      Non ho affatto detto che il Papa illumini la Tradizione e la Scrittura, ma che le interpreta in modo infallibile. È lui che è illuminato dalla Scrittura e dalla Tradizione e, interpretandole, a sua volta illumina noi come Maestro della fede.
      Per questo non è lecito citare la Scrittura o la Tradizione per contestare il Magistero dottrinale del Papa.

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    2. Grazie Padre Cavalcoli. Leggerò attentamente la sua risposta e li farò sapere se vedo qualcosa da chiederti.
      Ma per ora, poi, penso che non si sia espresso bene quando nel suo libro Le verità di fede (2021), nella sezione "Tre gradi di autorità delle dottrine" (non posso citare pagine, perché ho la versione Kindle da Amazon), lei dice, cito: "Lutero si è ingannato gravemente scambiando per opinioni private e per giunta false il Magistero pontificio pretendendo quindi di confutarlo alla luce della Scrittura, quando è proprio la Scrittura a essere illuminata dal Magistero pontificio".

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    3. Caro Davide,
      la sua obiezione è piuttosto acuta e verte, se ho ben capito, sul significato da dare alla parola “illuminare”.
      Qui effettivamente uso la parola illuminare, ma nel senso di interpretare, cioè di rendere chiaro il significato del testo, come quando si dice per esempio “far luce su di un testo”.
      Invece nel mio ultimo intervento ho usato la parola interpretare e lei me l’ha cambiata con la parola illuminare. Io allora, considerando che illuminare può significare anche “possedere una luce superiore che istruisca un discepolo”, intendendo la parola in questo senso, ho detto che il Papa non illumina la Scrittura o la Tradizione in questo senso, ma al contrario ne è illuminato.
      In altre parole, non è che il Papa ci illumini perché egli possieda una luce superiore a quella che viene dalla Scrittura e dalla Tradizione, ma ci illumina nel senso che fa luce meglio di noi su queste verità, perché ha da Dio il dono di interpretarcele in modo infallibile.

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    4. Caro padre,
      Ritengo che qui la questione debba focalizzarsi su quello che lei chiama il terzo grado del magistero, poiché non contestiamo che ciò che il Papa insegna ex cathedra sia infallibile, né ciò che costituisce l'infallibile magistero ordinario. Ma quello che lei chiama terzo grado, nessuno oggi serio lo considera infallibile, soprattutto dopo il documento del cardinale Ratzinger nella CDF "Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo", dove dice chiaramente che le proposizioni appartenenti a questa categoria non sono definitive e non infallibile. In questo riprende la tradizione che inizia con Fessler e san John Newman, contro il pensiero ultramontano che attribuisce infallibilità a proposizioni che non sono ex cathedra o che non hanno pronunciamenti definitivi nella tradizione o nel magistero.
      La sua posizione, che attribuisce automatica infallibilità ai pronunciamenti del Papa che non siano ex cathedra, è del tutto superata, tipica del pensiero ultramontano e ignora l'opera chiarificatrice del cardinale Ratzinger.

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    5. Caro Davide,
      le riporto i brani del Documento che fanno riferimento al 2° o al 3° grado.
      Quando parlo di 3° grado, mi riferisco al 3° grado del quale parla l’Ad Tuendam Fidem (https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_1998_professio-fidei_it.html ).

      Per quanto riguarda l’espressione “ex cathedra”, essa significa “dalla cattedra di Pietro”, vale a dire che si riferisce agli atti del Magistero dottrinale pontificio nei quali il Sommo Pontefice insegna a tutta la Chiesa in materia di fede o di morale, come Successore di Pietro.
      Ora, la Nota illustrativa della CDF del 1998, annessa all’Ad Tuendam Fidem, a firma del Card. Ratzinger, parla di Magistero della Chiesa o Pontificio in materia di fede e di morale a tutti e tre i gradi.
      D’altra parte il termine “infallibilità” fa riferimento ad una dottrina sempre vera, qual è la dottrina di fede e di morale, insegnata a tutti e tre i gradi.
      Quanto alla qualifica di “definitivo”, essa è usata al 1° e 2° grado. Ma il fatto che al 3° grado essa non sia usata, non vuol dire che si tratta di dottrine non definitive, ma significa che qui la Chiesa semplicemente non intende usare questa parola, per evidenziare che si tratta di una autorità inferiore a quella del 1° e 2° grado.
      In realtà, che si tratti di dottrine definitive e sempre vere, ossia irreformabili, si deduce dal fatto che anche qui la Chiesa insegna in materia di fede e di morale e quindi anche qui l’insegnamento non può che essere infallibile, ossia sempre vero.

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    6. Da:
      https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19900524_theologian-vocation_it.html
      ISTRUZIONE DONUM VERITATIS SULLA VOCAZIONE ECCLESIALE DEL TEOLOGO

      16. Il compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il deposito della divina Rivelazione implica, di sua natura, che il Magistero possa proporre «in modo definitivo»[14] enunciati che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono ad esse tuttavia intimamente connessi, così che il carattere definitivo di tali affermazioni deriva, in ultima analisi, dalla Rivelazione stessa[15].
      Ciò che concerne la morale può essere oggetto di magistero autentico, perché il Vangelo, che è Parola di vita, ispira e dirige tutto l’ambito dell’agire umano. Il Magistero ha dunque il compito di discernere, mediante giudizi normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle esigenze della fede e ne promuovono l’espressione nella vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste esigenze. A motivo del legame che esiste fra l’ordine della creazione e l’ordine della redenzione, e a motivo della necessità di conoscere e di osservare tutta la legge morale in vista della salvezza, la competenza del Magistero si estende anche a ciò che riguarda la legge naturale[16].
      D’altra parte la Rivelazione contiene insegnamenti morali che di per se potrebbero essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione dell’uomo peccatore rende difficile l’accesso. È dottrina di fede che queste norme morali possono essere infallibilmente insegnate dal Magistero[17].

      17. L’assistenza divina è data inoltre ai successori degli Apostoli, che insegnano in comunione con il successore di Pietro, e, in una maniera particolare, al Romano Pontefice, Pastore di tutta la Chiesa, quando, senza giungere ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo definitivo», nell’esercizio del loro magistero ordinario propongono un insegnamento, che conduce ad una migliore comprensione della Rivelazione in materia di fede e di costumi, e direttive morali derivanti da questo insegnamento.
      Si deve dunque tener conto del carattere proprio di ciascuno degli interventi del Magistero e della misura in cui la sua autorità è coinvolta, ma anche del fatto che essi derivano tutti dalla stessa fonte e cioè da Cristo che vuole che il suo Popolo cammini nella verità tutta intera. Per lo stesso motivo le decisioni magisteriali in materia di disciplina, anche se non sono garantite dal carisma dell’infallibilità, non sono sprovviste dell’assistenza divina, e richiedono l’adesione dei fedeli.

      18. Il Pontefice Romano adempie la sua missione universale con l’aiuto degli organismi della Curia Romana ed in particolare della Congregazione per la Dottrina della Fede per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. Ne consegue che i documenti di questa Congregazione approvati espressamente dal Papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro[18].

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    7. 23. Quando il Magistero della Chiesa si pronuncia infallibilmente dichiarando solennemente che una dottrina è contenuta nella Rivelazione, l’adesione richiesta è quella della fede teologale. Questa adesione si estende all’insegnamento del Magistero ordinario ed universale quando propone una dottrina di fede come divinamente rivelata.
      Quando esso propone «in modo definitivo» delle verità riguardanti la fede ed i costumi, che, anche se non divinamente rivelate, sono tuttavia strettamente e intimamente connesse con la Rivelazione, queste devono essere fermamente accettate e ritenute[22].
      Quando il Magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto «definitivo», insegna una dottrina per aiutare ad un’intelligenza più profonda della Rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per metter in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza[23]. Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede.

      33. Il dissenso può rivestire diversi aspetti. Nella sua forma più radicale, esso ha di mira il cambiamento della Chiesa secondo un modello di contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica. Più frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire all’insegnamento infallibile del Magistero, mentre invece, adottando la prospettiva di una specie di positivismo teologico, le dottrine proposte senza che intervenga il carisma dell’infallibilità non avrebbero nessun carattere obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno. Il teologo sarebbe quindi totalmente libero di mettere in dubbio o di rifiutare l’insegnamento non infallibile del Magistero, in particolare in materia di norme morali particolari. Anzi con questa opposizione critica egli contribuirebbe al progresso della dottrina.

      38. Infine l’argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria coscienza non può legittimare il dissenso. Innanzitutto perché questo dovere si esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di una decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato dottrinale. Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla. La coscienza non è una facoltà indipendente ed infallibile, essa è un atto di giudizio morale che riguarda una scelta responsabile. La coscienza retta è una coscienza debitamente illuminata dalla fede e dalla legge morale oggettiva, e suppone anche la rettitudine della volontà nel perseguimento del vero bene.

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    8. È chiaro: "senza giungere ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo definitivo»...": non sono infallibili, come devono dirglielo perché smettano di ripetere che sono infallibili? Un'altra cosa è il grado di sicurezza o l'obbligatorietà di una dottrina, è una questione a parte.

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    9. Caro Davide,
      l’espressione “definizione infallibile” è usata solo per il 1° grado per sottolineare l’importanza e la solennità della proclamazione di un nuovo dogma.
      Le faccio presente ancora una volta che l’espressione “infallibile” significa semplicemente “sempre vero”. Ora, la Chiesa insegna la verità di fede anche al 2° e al 3° grado, per cui anche per questi due gradi si può parlare di infallibilità. Quindi, anche se l’espressione “definizione infallibile” non è usata per gli altri due gradi, non vuol dire che quando la Chiesa tratta di materia di fede o morale nei due gradi inferiori possa sbagliare o mutare dottrina o ritrattare quanto detto. La terminologia serve a distinguere i tre gradi di livello di autorità.
      In poche parole: alcuni dogmi definiti al 1° grado sono stati espressi nel tempo al 2° e al 3° grado. C’è come una salita di grado, man mano che la Chiesa col passare del tempo raggiunge una sicurezza sempre maggiore circa le dottrine di fede e di morale. Inoltre i tre gradi corrispondono a tre modalità via via crescenti nei quali la Chiesa intende sottolineare l’importanza di una data dottrina.
      Per quanto riguarda i contenuti, nel 1° grado abbiamo i puri e semplici misteri rivelati. Al 2° grado si tratta di una verità di ragione connessa con la verità di fede. Al 3° grado si tratta di due verità di ragione connesse tra di loro e con la verità di fede.
      Per esempio, la scienza conduce alla filosofia, la filosofia è il presupposto della fede. Se si nega il valore della scienza, crolla la metafisica, se crolla la metafisica la fede è impossibile.
      Tenga inoltre presente che i gradi di sicurezza o di obbligatorietà aumentano con l’aumentare dell’importanza della verità insegnata dalla Chiesa. Per cui, se al 3° grado la Chiesa dovesse essere fallibile, non darebbe alcuna sicurezza o certezza di quello che dice.

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    10. Non sono d'accordo, infallibile non significa "sempre vero", significa "non può sbagliare". Lei confonde i termini, ripeto che è un errore di ultramontanismo che già san Giovanni Newman sfatava nella sua Lettera a Norfolk e Fesser, per non parlare di Dupanloup quando scriveva che non tutto il Syllabus era infallibile (contro gli ultramontani).
      Vado al ragionamento del penultimo paragrafo, è un sofisma. Ciò non deriva dal fatto che una dottrina sia sicura di essere vera o di essere infallibile. Una persona con coscienza erronea può essere invincibilmente certa del suo errore e ciò non significa che la sua coscienza sia vera e ancor meno infallibile.

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    11. Caro Davide,
      le ripeto ancora una volta il mio ragionamento. La Nota dell’Ad Tuemdan Fidem dice chiaramente che i tre gradi di autorità dottrinale della Chiesa trattano materie di fede o di morale.
      Ora è noto ad ogni cattolico che la verità di queste materie è una verità assoluta, immutabile, irreformabile, non falsificabile, inconfutabile, perenne, sempre vera, che non passa.
      D’altra parte, che cosa significa “infallibile”? Che non può fallire. Ma il fallire, nell’ambito del sapere, che cos’è? Lo sbaglio, l’errore, l’inganno, la menzogna, la frode, il fraintendimento.
      Dunque, considerando le proprietà suddette delle materie di fede e di morale, è evidente che l’attributo di infallibile si attaglia perfettamente alle proprietà delle verità di fede e di morale, quale che sia il grado di autorità.

      A complemento della mia definizione di infallibilità, le allego quandto dice l’autorevole vocabolario Treccani: “infallìbile agg. [dal lat. tardo infallibĭlis, der. di fallĕre «fallire, ingannare», col pref. in-2]. – 1. a. Che non sbaglia e non può sbagliare; che non può ingannarsi né ingannare altri circa la verità di ciò che crede, che afferma, che giudica, che sente, che prevede, ecc.: Dio solo è i.; nell’insegnamento delle verità di fede, la Chiesa si dichiara i.;”.
      Per quanto riguarda l’attributo della certezza e della sicurezza che la Chiesa assegna alle verità di fede al 3° grado, è chiaro che si tratta di una certezza oggettiva e non c’entra per nulla la certezza e sicurezza soggettive della coscienza erronea in buona fede.
      Tenga inoltre presente che l’infallibilità di 1° grado appartiene a proposizioni già note nei gradi inferiori, per cui, se questa infallibilità non ci fosse già in questi gradi inferiori, non potrebbe esserci neppure nel grado supremo.
      La fallibilità, nel pensiero cattolico, non tocca il magistero dottrinale o dogmatico, ma soltanto le sue direttive pastorali, liturgiche, giuridiche, disciplinari, ed inoltre riguarda le opinioni personali del Sommo Pontefice, le dottrine pastorali dei Concili Ecumenici, le direttive pastorali e giuridiche degli organismi della Curia Romana, le dottrine e la pastorale delle singole Conferenze episcopali, le opinioni teologiche dei singoli vescovi, nonché le dottrine dei teologi.

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  2. IHS

    Caro padre Cavalcoli:

    Se il cosiddetto Magistero ecclesiastico "autentico" è, come lei dici (ed è una cosa che solo lei sembri sostenere, a mio avviso priva di fondamento), se è (ripeto) infallibile, allora l’interpretazione data dai vescovi della regione di Buenos Aires ad Amoris laetitia, secondo la quale interpretazione è lecito in certi casi amministrare la Santa Comunione a chi oggettivamente vive in adulterio (cioè a chi separato che vive "more uxorio" con un'altra persona che non sia loro coniuge (ancora in vita), allora tale interpretazione sarebbe infallibilmente vera (secondo la sua posizione): non solo perché il Sommo Pontefice l'ha approvata dicendo "Non ci sono altre interpretazioni", ma perché nel Rescriptum che compare nell'AAS egli dice, riferendosi alla Lettera dei Vescovi di Buenos Aires e alla risposta del Santo Padre: "Summus Pontifex decernit ut duo Documenta quae praecedunt edantur per publicationem in situ electronico Vaticano et in Actis Apostolicae Sedis, velut Magisterium authenticum".

    Ergo, se tale dottrina (chiaramente erronea) è, secondo la sua posizione, infallibilmente vera, dovresti accettarla...

    Li chiedo per favore di avere la cortesia di rispondere a questo mio commento.

    Grazie mille.

    Un cordiale saluto.

    In Domino,

    Federico Ma.

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    1. Caro Federico,
      l’approvazione della proposta dei vescovi argentini da parte del Santo Padre non ha il carattere di un insegnamento dottrinale, ma di una scelta pastorale, la quale di per sé non è infallibile, tanto è vero che un futuro Papa potrebbe tornare alle disposizioni di San Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio al n. 84.

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  3. Caro Padre Cavalcoli,
    i commenti del signor Davide mi ricordano una persona che conosco e che, nonostante l'enorme distanza che esiste tra la mia fede cattolica e le sue idee, considero tuttora mio amico, nonostante la realtà del nostro rapporto sia diversa da ciò che dice strictu sensu la definizione di "amico".
    Colpito dal virus lefebvriano, anzi filolefebvriano, perché, diciamo, quarant’anni fa, in una diocesi governata da uno di quei Vescovi che, avendo partecipato al Concilio Vaticano II e votando all’unanimità con la maggioranza a favore del promulgò testi di Papa Paolo VI, poi ritornò nella sua diocesi che governò quasi come se il Concilio non fosse avvenuto.
    Il mio amico ha ricevuto tutto questo e ora ne subisce le conseguenze.
    Egli parte da presupposti che, espliciti o meno, si possono riassumere in una manciata di idee: il Concilio è l'avanzamento modernista nella Chiesa, il Papa è infallibile solo nelle sue definizioni solenni e quando ripete letteralmente il magistero precedente, e il Papa chi segue le linee guida del Vaticano II è sempre a un passo dal diventare eretico. In effetti, penso che il mio amico creda che Papa Francesco lo sia in molti modi.
    Come si fa a cambiare la tua radicata ideologia filo-lefebvriana con qualcuno che ne ha bevuto per quaranta o cinquant'anni?
    È vero che non c'è nulla di impossibile a Dio, eccetto il peccato e la contraddizione. Ma...
    Ecco, Davide mi ricorda molto questo mio amico, per il quale prego ogni giorno...

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    1. Credo che tutto consista nel seguire Cristo e solo Cristo..., e non i piccoli idoli che mettiamo al posto di Cristo... per quanto santi siano... che si chiamino Lutero, Lefebvre, Newman, o chiunque altro... Se segui veramente Cristo... allora seguirai Colui che ha detto "su questa Pietra edificherò la mia Chiesa" e anche "conferma i tuoi fratelli" e anche "Pietro, ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno"... Guardando a queste cose, tutto consiste semplicemente nel seguire ciò che Cristo ha detto e fatto...

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    2. Caro Silvano,
      mi compiaccio del fatto che lei abbia conservato l’amicizia con quella persona della quale mi parla.
      Anch’io da molti anni ho rapporti con cattolici legati al preconcilio. In certo modo io un po’ li capisco, perché effettivamente col Concilio è avvenuta una svolta epocale, che non è stata facile da capire e da molti è stata fraintesa sia per rallegrarsene, come i modernisti, sia per addolorarsi, come i filolefevriani.
      Che cosa possiamo fare noi, che per grazia di Dio, abbiamo saputo evitare questi due opposti estremismi? Dobbiamo fare ogni sforzo per richiamare questi fratelli ad un cattolicesimo pieno, equilibrato, completo, normale e coerente, nella piena comunione col Santo Padre e nell’autentica comprensione del significato del Concilio Vaticano II.

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    3. Cara Rosa Luisa,
      lei ha colto la sostanza della questione con molta saggezza cateriniana, ricordando semplicemente che il Papa è il Successore di Pietro, dotato di un carisma di infallibilità nel conservare, interpretare, proclamare, difendere e far sempre meglio conoscere il deposito della fede, quale che sia il suo grado di autorità, sia che si esprima in modo solenne e straordinario, definendo un nuovo dogma di fede, sia che si esprima modo ordinario in gradi minori di autorità, ma sempre comunicandoci la verità di fede o connessa con la fede, verità infallibile, immutabile, irreformabile, non falsificabile e perenne.

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  4. Caro padre Cavalcoli:

    La sua risposta ignora completamente il passaggio dell'AAS da me citato, in cui si dice espressamente che sia l'interpretazione dei vescovi di Buenos Aires che la risposta di Francisco costituiscono un "magistero autentico".

    In Domino,

    Federico Ma.

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    1. Caro Federico,
      qui il Santo Padre, con l’espressione “magistero autentico”, evidentemente non intende magistero dottrinale o dogmatico, perché non c’è materia di fede, ma si tratta solamente del magistero pastorale, dal momento che è evidente che la questione se i DR possono o non possono fare la Comunione è una questione che attiene solamente alla disciplina ecclesiale nell’amministrazione dei Sacramenti, materia circa la quale il Sommo Pontefice ha facoltà di conservare, migliorare, innovare, abrogare o mutare a sua discrezione, tanto è vero che come Papa Francesco ha cambiato quello che aveva deciso San Giovanni Paolo II, un Papa successivo a Francesco potrebbe cambiare quello che ha fatto lui.
      L’immutabilità degli insegnamenti magisteriali riguarda le materie dottrinali o dogmatizzabili oppure i dogmi stessi, ma non riguarda le disposizioni pastorali, che sono legate alle circostanze mutevoli di tempo, di luogo e di persona.

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    2. Quindi da un giorno all'altro cambi idea, padre Cavalcoli?
      Fino a poco tempo fa in quel campo parlavo di infallibilità. Poi gli ho raccontato cosa dice al riguardo il Rescriptum dell'AAS. E adesso lo ritiri?
      Sostenere che qualcosa sia lecito o illecito è un insegnamento dottrinale.
      Lei dice: "attiene solamente alla disciplina ecclesiale nell’amministrazione dei Sacramenti, materia circa la quale il Sommo Pontefice ha facoltà di conservare, migliorare, innovare, abrogare o mutare a sua discrezione".

      Sed contra:

      "1. La proibizione fatta nel citato canone, per sua natura, deriva dalla legge divina e trascende l’ambito delle leggi ecclesiastiche positive". "4. Tenuto conto della natura della succitata norma (cfr. n. 1), nessuna autorità ecclesiastica può dispensare in alcun caso da quest’obbligo del ministro della sacra Comunione, né emanare direttive che lo contraddicano".

      PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI
      DICHIARAZIONE
      II. CIRCA L’AMMISSIBILITÀ ALLA SANTA COMUNIONE DEI DIVORZIATI RISPOSATI
      (L’Osservatore Romano, 7 luglio 2000, p. 1; Communicationes, 32 [2000], pp. )
      https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/intrptxt/documents/rc_pc_intrptxt_doc_20000706_declaration_it.html

      In Domino,

      Federico Ma.

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    3. Caro Federico,
      Papa Francesco nell’AL fa presente che i DR possono essere in grazia. Tuttavia è vero che i due potrebbero anche non essere in grazia. È evidente che, se fanno la Comunione senza essere in grazia, fanno sacrilegio. Ma il problema è: è vero che in tutti i casi i DR sono privi della grazia divina, cioè in peccato mortale? Come il sacerdote, che distribuisce la Comunione, può saperlo?
      Nessuno dubita che l’indissolubilità del matrimonio sia di legge naturale. E nessuno dubita che l’adulterio, se commesso in piena avvertenza e deliberato consenso, sia un peccato mortale.
      A questo punto noi dobbiamo distinguere la legge naturale dalla legge ecclesiastica. La prima comanda l’indissolubilità del matrimonio. La seconda è una norma prudenziale di facoltà del Papa, dove un Papa può anche cambiare quello che ha fatto un Papa precedente.
      Questa cosa non deve scandalizzare nessuno, perché il permettere o il non permettere a un fedele di fare la Comunione Sacramentale non ha nulla a che vedere con la legge naturale, per cui il permetterlo a un fedele, che nel passato ha peccato contro la indissolubilità del matrimonio, non ha nulla a che vedere con l’approvazione dell’adulterio, perché, anche ammesso che quando commise l’adulterio l’abbia fatto con malizia, c’è da supporre che nel frattempo il fedele si sia pentito e sia stato perdonato da Dio. Certamente al presente i due hanno un rapporto concubinario, cosa evidentemente contraria alla legge naturale. Tuttavia non possiamo escludere che, sia pure in una alternanza di peccato o di giustizia, essi al momento della Comunione siano in grazia. Perché possono essere in grazia? Perché Dio può perdonare, se sono pentiti, anche senza i Sacramenti.
      Questo è il motivo per il quale Papa Francesco ha detto che possono essere in grazia. Ora, questo giudizio del Papa non ha nulla a che vedere con l’approvazione dell’adulterio.
      Tutto ciò significa che qui non si tratta affatto di offendere la legge naturale, ma di lasciare al Papa la responsabilità di regolamentare l’amministrazione dei Sacramenti.
      C’è inoltre da osservare che questa concessione fatta da Papa Francesco suppone una situazione dei DR tale per cui, per cause di forze maggiori, non si possono lasciare, almeno a breve termine. Ecco le famose attenuanti, di cui parla Papa Francesco.

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  5. Ciò che la Chiesa dichiara come “magistero autentico” è necessariamente vero, sempre, senza alcuna eccezione?

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    1. Caro Anonimo,
      la Nota all’Ad Tuendam Fidem parla di magistero autentico al 3° grado di autorità. L’oggetto del magistero a questo livello è sempre materia di fede e di morale. Tuttavia qui la Chiesa usa espressioni che possono far pensare che la materia possa essere anche di carattere pastorale, materia che di per sé non è immutabile, per cui qui non c’è l’infallibilità.
      Questa interpretazione è confermata appunto dal fatto che Papa Francesco ha qualificato come magistero autentico l’interpretazione dei vescovi argentini, che tratta di materia pastorale, facendo riferimento al permesso dato in alcuni casi ai DR di fare la Comunione.

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    2. In realtà è a questo suo commento che mi riferisco.
      Fino a poco tempo fa in quel campo parlavo di infallibilità. Poi gli ho raccontato cosa dice al riguardo il Rescriptum dell'AAS. E adesso lo ritiri?

      In Domino

      Federico Ma.

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    3. Federico, penso che i tuoi pregiudizi ti impediscano di riconoscere quello che ti viene detto....
      Padre Cavalcoli gli ha già detto che l'infallibilità si riferisce alla materia trattata dal Magistero del Papa... Perciò, quando il Papa tratta questioni di fede e di morale, ...come Maestro per tutta la Chiesa, ...il suo insegnamento è sempre vero e non falsificabile (e ciò significa infallibile) in ognuno dei tre gradi in cui si può collocare il suo insegnamento.
      Tuttavia, nel 3° grado, ci sono momenti in cui la Chiesa usa espressioni che possono far pensare che la questione possa essere anche di natura pastorale, materia che di per sé non è immutabile, motivo per cui qui non esiste infallibilità. Cioè nel caso in cui si tratti di questioni pastorali, governative, disciplinari, ecc. Qui giocano la prudenza e la giustizia di governo del Papa, non la sua autorità magisteriale....
      Quando invece si discerne che tratta di questioni di fede e di morale, il suo insegnamento è sempre vero e non falsificabile, cioè infallibile.

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    4. Caro Federico,
      il Santo Padre concede ufficialmente il permesso della Comunione ai DR in alcuni casi ufficializzati negli AAS, per mezzo della risposta del DDF alle domande del Card. Duka, del 25.09.2023: (https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_pro_20230925_risposte-card-duka_it.html ).
      Non è pensabile che questa determinazione della amministrazione del Sacramento dell’Eucarestia, fatta dal Papa nell’uso della sua facoltà di regolare la disciplina dei Sacramenti, sia in contrasto con la legge naturale, che prescrive l’indissolubilità del matrimonio.
      Anzi, da come si esprime il Santo Padre possiamo dedurre che la Comunione ai DR, in alcuni casi, non contrasti con la legge dell’indissolubilità. Queste infatti sono le parole del Papa: “Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità” (AL 243).

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    5. Cara Rosa Luisa,
      la ringrazio per questo suo contributo, dove mi accorgo che lei ha capito benissimo quanto intendevo dire, cose che sono utili per la chiarezza e la certezza della nostra fede e ci fanno capire qual è l’importanza del magistero del Vicario di Cristo.
      Speriamo che Federico, che mostra un vivo interesse per questa delicata materia, possa comprendere anche attraverso le sue parole quanto, come cattolici, è nostro dovere di dire.

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  6. In queste discussioni che qui si sono svolte sul concetto di "infallibilità" da parte di alcuni commentatori, è inevitabile avvertire una mentalità "indietrista" come dice Papa Francesco. La chiamerei semplicemente mentalità lefebvriana, eretica e scismatica.
    Mi dà l'impressione, no, meglio vado ad essere sincero: mi risulta evidente che sia Davide, e Federico, hanno mentalità lefebvriana, e partono dal pregiudizio di considerare l'infallibilità come una proprietà che ha solo la proclamazione solenne di un dogma, come espresso dal Concilio Vaticano I.
    Ma questo è del XIX secolo. Da allora ha corso molta acqua sotto i ponti. Oggi la Chiesa sa molto più di se stessa che 150 anni fa!
    Nel rifiuto che Davide e Federico esprimono a quanto esposto da padre Cavalcoli, avverto semplicemente un rifiuto del Magistero della Chiesa che si è spiegato nei suoi documenti, come la lettera Ad tuendam fidem e la Nota dottrinale aggiunta. Non è questo un semplice rifiuto di un testo pontificio del postconcilio come i lefebvriani hanno fatto più e più volte negli ultimi cinquant'anni?...

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    1. Caro Dino,
      sono pienamente d’accordo nel rilevare la tendenza lefevriana dei due suddetti Lettori, anche se loro rifiutano questo titolo, ma io bado ai fatti e non alle parole.
      Purtroppo si tratta dell’atteggiamento tipico di coloro che il Santo Padre chiama “indietristi”. Questo indietrismo si nota nel fatto che, come ha rilevato lei, per poter giustificare le loro accuse di eresia fatte alle dottrine del Concilio e al Magistero dei Papi del postconcilio, si appellano alla famosa definizione dell’infallibilità pontificia per ritenersi dispensati dall’accettare il magistero pontificio, di cui ho parlato sopra.
      Siccome però, a causa del loro indietrismo, si rifiutano di accettare la Nota all’Ad Tuendam Fidem, la quale spiega come il Papa, in quanto successore di Pietro, è infallibile non solo al 1° grado, che riguarda le definizioni dogmatiche, ma anche ai due gradi inferiori, ne consegue che essi si permettono di sostenere che il Papa, nei due gradi inferiori, può sbagliare.
      Qual è lo scopo di tutta questa operazione? Non è difficile capirlo. Lo scopo è quello che ho detto sopra, cioè accusare di modernismo tutto l’insegnamento della Chiesa seguente a Pio XII, che iniziando col Concilio giunge fino a Papa Francesco.

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