La dignità del peccatore - Seconda Parte (2/2)

 La dignità del peccatore

Seconda Parte (2/2)

La dinamica della superbia

Dobbiamo osservare inoltre che la molla fondamentale del peccato non è l’avarizia, non è la lussuria, non è l’ira. Non sono le passioni dell’appetito sensitivo, ma è la superbia, generatrice dei vizi spirituali: l’egoismo, l’egocentrismo, l’autodivinizzazione, la cecità e la sordità spirituali, la menzogna, la doppiezza, l’empietà, la presunzione, l’ipocrisia, l’eresia, l’orgoglio, l’ingiustizia, la prepotenza, la durezza di cuore, l’invidia, la gelosia, l’odio, la crudeltà, la discordia, l’accidia.

Ciò che spinge innanzitutto a peccare non è la tentazione della carne o la spinta delle passioni, non è uno stimolo che provenga dal corpo, dai beni materiali o dal sesso, ma è uno stimolo che proviene dall’intimo stesso della volontà, dal «cuore», come dice Cristo. Non è che la materia sia così cattiva da indurre a fare il male, ma la causa prima del male e del peccato è nella cattiva volontà della persona nella sua disobbedienza alla volontà di Dio, sia essa umana o angelica.

Con la superbia l’uomo ha travalicato il limite imposto dalla legge, ma questo atto di arroganza o di protervia fà sì che il limite per compensazione gli si rivolga contro, sicchè ciò che egli voleva negare ha a sua volta negato lui, e poiché l’uomo è andato oltre il lecito nel vivere, ha preteso una vita superiore che non gli spetta, la vita gli si è rivolta contro causandogli la morte. Per questo Cristo dice che Satana è menzognero perché ha ingannato l’uomo ed è omicida, perché illudendolo di poter fruire di una libertà infinita, gli ha causato la morte.

Il superbo pretende di cancellare la cesura o stacco che esiste fra lo spirito finito e lo Spirito infinito, pretende di attraversare da sé la distanza infinita che esiste fra il finito e l’infinito, crede che l’infinito sia un vertice supremo, una sommità,  che egli può raggiungere rafforzando e potenziando il suo spirito all’infinito, crede di poter andare da sé oltre il limite, oltre il finito, di poter tras-gredire (trans-gredere, camminare-oltre) e trans-cogitare, da cui tracotanza (ybris),  cosa che in realtà è assurda, perché in realtà il meno non può causare il più e tanto meno il finito può causare l’infinito o diventare infinito, se non solo nell’immaginazione aritmetica.

La distinzione che esiste fra finito-umano e infinito-divino, peraltro, non impedisce affatto che essi possano unirsi, ma non fondersi fra di loro o mutare l’uno nell’altro. Possono separarsi, quando l’uomo pecca: l’uomo si separa da Dio. Ma  di fatto la perfetta unione delle due nature avviene nell’unica persona divina del Verbo incarnato, nel quale il finito, ossia la natura umana, si distingue senza confondersi dall’infinito, ossia la natura divina.

Eppure è tanta la cecità del superbo, che si convince di farcela in questa folle impresa dell’autodivinizzazione e si mette nell’impresa ignorando ogni legge morale e regola del pensare scialacquando e sparpagliando all’infinito il pensare e il volere in ogni direzione. Ma che gli succede? Che resta «nudo» (Gen 3,6).

 A questo punto si verificano i saggi proverbi popolari «chi troppo vuole, nulla stringe» e «chi non si accontenta dell’onesto, perde il manico con tutto il cesto». Vale a dire che il soggetto alla fine dell’impresa non si trova affatto arricchito all’infinito come credeva, ma impoverito al massimo, come non sospettava.

E come mai? La cosa è abbastanza logica. Dio, l’Infinito assoluto, è l’Essere assoluto. Noi uomini siamo certo qualcosa, abbiamo una dignità, ma siamo finiti e causati e proveniamo dal nulla. Se noi, invece di aprirci a Dio, di cercare Dio, di obbedire a Dio, ci ripieghiamo su noi stessi e crediamo così di raggiungere la felicità e la grandezza da soli, senza far ricorso a Dio, senza alimentarci alla vita di grazia che Egli ci offre, per forza a un certo punto ci ritroviamo col nostro nulla o, come si suol dire, «in braghe di tela».

Viceversa noi saremo grandi e ci saremo procurati i nostri autentici interessi alla sola condizione, come ci insegna Cristo, che non cerchiamo anzitutto la nostra anima, ma che siamo pronti a perderla per Lui e per il prossimo. Solo così la ritroveremo e mille volte migliore a com’era alla partenza. «Chi si esalta, sarà umiliato; chi si umilia, sarà esaltato». Non esaltiamoci per conto nostro, ma lasciamolo fare a Dio, Che se ne intende.

Non esiste alcuna comunicazione o continuità fra l’infinito divino e il finito creaturale, quasi fossero vasi comunicanti. Non c’è nessun passaggio graduale e senza soluzione di continuità dal finito all’infinito, simile allo sviluppo dal piccolo al grande di una medesima sostanza, non esistono fasi intermedie come fra il giorno e la notte, ma uno stacco infinito ed invalicabile se non da Dio con la sua grazia. Tuttavia Dio, donandoci la grazia, ci rende partecipi della sua natura. Come questo è possibile? Perché la grazia è al contempo un dono creato e corruttibile per il suo modo di esistere accidentale in noi, ma è nella sua essenza della stessa essenza divina.

La superbia può assomigliare al progresso spirituale, all’intraprendenza dell’audacia, all’elevazione spirituale, al trascendere la finitezza per raggiungere il trascendente. Può assomigliare al transcende teipsum agostiniano. Ma in realtà c’è una differenza abissale.

L’elevazione propria dello spirito alle cose del cielo e a Dio, è atto nobilissimo e salvifico, che suppone la netta distinzione ontologica fra l’io e Dio e consegue all’umiltà di riconoscersi creature e di aver bisogno di Dio come proprio sommo bene. La superbia, invece, come abbiamo visto, è il ritenersi di essere da sé capaci di acquistare un essere infinito, assoluto e trascendente.

Col peccato l’uomo non perde la sua dignità umana

San Paolo, per esprimere le conseguenze disastrose del peccato originale, usa toni enfatici, che vanno intesi bene e non devono essere presi alla lettera, come fece Lutero, perché porterebbero a delle assurdità. Egli presenta l’uomo come fosse diventato una bestia («carnale»), senza spirito, cieco, schiavo, morto, totalmente corrotto.   

Ma se le cose stessero veramente così, l’uomo non sarebbe né recuperabile né salvabile. Per salvare o guarire una persona bisogna che essa conservi delle forze sane, sulle quali far leva per far sì che la natura recuperi le sue forze. Nessun medico si occupa di cadaveri o di far sì che una bestia diventi uomo.

La resurrezione dal peccato della quale parla San Paolo non significa che Dio ridia esistenza a una volontà che non esiste più, ma che, supponendo nel peccatore l’esistenza di un libero arbitrio indebolito, gli ridona mediante la grazia le sue forze naturali, così da essere capace di compiere sempre il bene e di evitare il peccato. È questa la giustificazione del peccatore.

Anche il peggior peccatore conserva dei lati buoni e delle risorse positive, sui quali può basarsi per correggersi e convertirsi e sui quali può fare leva chi lo vuol liberare dal peccato.

Inoltre, il peccatore a certe condizioni può essere scusato, per cui occorre fare attenzione a non colpevolizzarlo, perché ciò potrebbe scoraggiarlo e indurlo a peccare di più. È possibile infatti commettere ciò che oggettivamente è peccato senza sapere che è peccato ed anzi credendo che sia bene. La violenza della cattiva passione diminuisce la colpa, perché diminuisce il volontario e la colpa è legata al volontario.

Il peccato compiuto sotto la spinta della concupiscenza è compiuto da una volontà più irruente ma meno libera. Ora, siccome la volontà è caratterizzata dalla sua libertà più che dalla sua forza, e quindi la responsabilità dipende dalla deliberazione, anche se la volontà è stata rafforzata dalla concupiscenza, l’atto è stato meno volontario di quello compiuto senza di essa e per questo è meno colpevole.

Certo la volontà non può essere violentata, perché essa per sua natura non può essere costretta; o agisce e allora è libera, oppure non agisce e al suo posto agisce l’istinto o la demenza. Se essa, allettata o impaurita dalla tentazione, cede perché non ce la fa a resistere, è scusata perché non lo fa liberamente.

 Può essere obbligata dal dovere; ma questo legame col dovere non sopprime la sua libertà, ma al contrario la esalta, perchè la volontà è sommamente libera quando obbedisce alla legge. In lege libertas, come dicevano i Romani. La legge non schiavizza, ma libera la volontà.

Se io giudico necessario fare una data cosa per il mio bene, l’atto che consegue non è necessitato come quello di un cane o di un nubifragio, ma è un atto libero e quel necessario nel nome del quale ho agito, era un fine sì necessario alla mia salvezza, ma liberamente scelto. È questa la verità che purtroppo Rahner non capisce, credendo cha la persona, per essere libera, deve essere legge a se stessa e quindi non sentirsi obbligata da una legge morale oggettiva creata da Dio.

C’è inoltre da osservare che sono vinti dalla concupiscenza i soggetti che hanno una volontà buona ma debole o l’hanno già inclinata al peccato a causa del vizio contratto. Certamente il peccato commesso in queste condizioni, salvo i casi nei quali il volere sia totalmente bloccato, resta un atto volontario e quindi libero, perché la volontà o è libera o non è volontà, salvo che si tratti della sua inclinazione naturale al bene. Ma qui non si tratta di questo, ma bensì della scelta di un bene particolare e qui il volere, se è vero volere e non è istinto, è sempre libero.

La condotta di Dio verso il peccatore

Il peccatore è una persona, sostanza spirituale-corporea dotata di intelletto e volontà. In quanto persona, il peccatore possiede una dignità altissima che la rende simile a Dio per la potenza dell’intelletto e della volontà. Lo spirito umano, benché finito nelle sue forze, spazia nell’infinito. Per questo la tentazione a cui è soggetto da parte del demonio è quella di credersi infinito e uguale a Dio. Se illuminato da Dio è capace di vedere Dio, quindi di essere intenzionalmente Dio, benché finitamente. Mens capax Dei, come diceva Sant’Agostino.

La volontà può volere un bene infinito e assoluto, Può desiderare, amare e volere Dio pur avendo una forza finita. L’uomo nella sua superbia sente i suoi limiti naturali come fossero degli intralci o dei vincoli, come una schiavitù e crede di potersene liberare, quasi fossero accidentali o imposti. Non si sente libero e sogna una libertà divina.

Il demonio lo illude di poterla raggiungere disobbedendo a Dio, che con la sua legge, sembra imporre intralci o impedimenti alla piena espansione e potenza dello spirito. Il peccatore non sa che proprio i vincoli imposti da Dio sono le condizioni per la sua vera divinizzazione donatagli dalla grazia.

Tuttavia Dio tiene a che l’uomo eserciti la sua volontà e scelga liberamente. Egli vuole pertanto essere oggetto di libera scelta da parte dell’uomo. Certo non approva la scelta di coloro che lo rifiutano. Eppure muove la volontà di tutti. Muove a fare il bene chi ha predestinato alla salvezza, mentre lascia che compia il male chi rifiuta la sua misericordia. Se muove la volontà del peccatore, non è certo responsabile del suo peccato, perché Egli la muove solo ontologicamente, ma è il peccatore che la muove a fare il male.

 Avrebbe potuto, se avesse voluto, muovere la volontà di tutti gli uomini a scegliere Lui come sommo Bene e Fine ultimo, ma non lo ha voluto fare, e pur di lasciare l’uomo libero di scegliere liberamente, accetta anche di essere respinto. Naturalmente non può impedire che chi si comporta così subisca le conseguenze, mentre con tutto ciò Egli chiama a Sé ogni creatura umana e vuole che tutti gli uomini siano salvi.

Noi vediamo quindi quale rispetto ha Dio anche dei dannati, figuriamoci dei peccatori nella vita presente, anche degli atei, dei bestemmiatori e di quelli che Lo odiano o Lo disprezzano o se ne infischiano.

Dio infatti continua a considerarli come sue creature e come tali continua ad amarli, giacchè tutto ciò che Dio crea è ontologicamente buono e se non fosse tale, non lo creerebbe, giacchè il creato è l’ente, e l’ente è per sua essenza buono e amabile.

Il processo della giustificazione del peccatore[1]

La questione della giustificazione del peccatore assurse ad un’importanza e ad un interesse di primo piano con la vicenda di Lutero, il quale, come è noto, fece di questa questione l’articulus stantis et cadentis Ecclesiae, dandogli con ciò stesso un’ eccessiva importanza, anche se resta sempre vero che la Chiesa è stata certamente istituita da Cristo per la salvezza dei peccatori.

Ma essa non è una semplice casa di cura o un ospedale, ma è l’inizio già da quaggiù del regno Dio, è l’inizio già da adesso della Gerusalemme celeste, è, nella fede, la pregustazione della visione beatifica, è la famiglia dei figli di Dio, i quali, mossi dallo Spirito Santo, pregustano già da adesso la gioia della resurrezione.

Lutero ricordò contro Pelagio che l’iniziativa del processo della giustificazione spetta alla grazia, la quale muove il cuore umano al pentimento dopo il peccato e alla richiesta a Dio di essere perdonato, così da poter riacquistare la grazia perduta e che il peccato sia cancellato.

La giustificazione, quindi, è quell’azione della misericordia divina, per la quale Dio, infondendo la grazia alla volontà cattiva del peccatore, la muta da cattiva a buona, sicchè se prima essa era attaccata al male, passa all’amore per il bene, dall’odio contro Dio all’amore per Dio, dalla disobbedienza all’obbedienza a Lui. E quindi riacquista la grazia perduta.

L’uomo, oppresso dal peso della colpa e terrorizzato dalla divina giustizia, viene reso giusto dal perdono divino, che tuttavia non cancella necessariamente il castigo, ma lo trasforma, grazie al sacrificio di Cristo, in mezzo di espiazione e di riparazione della colpa.

Ma Lutero si ferma qui a metà strada. Infatti il processo della giustificazione a questo punto non è ancora terminato, perché lo scopo di essa è quello di rendere l’uomo capace di agire soprannaturalmente meritando soprannaturalmente un aumento della graziafino a meritare il premio eterno in paradiso.

Il guaio invece della concezione luterana della giustificazione, come è noto, è che per Lutero, l’uomo riceve la grazia senza che essa muova il libero arbitrio dal peccato alla giustizia, senza quindi togliere, rimettere o cancellare la colpa, ma lasciandola nell’anima insieme con la grazia. 

Ne viene allora che la grazia non diventa una proprietà o una qualità dell’anima, che resta macchiata dal peccato, ma è concepita come la grazia o giustizia di Cristo stesso, il quale copre la bruttura dell’anima, così che essa appaia bella, rivestita della stessa grazia di Cristo, agli occhi del Padre, il quale sa benissimo che il peccato rimane, ma fa finta di non vedere guardando a Cristo.

Si è anche troppo buoni a qualificare la concezione luterana come giustificazione «forense» per il semplice fatto che è una giustificazione semplicemente computata come tale, per cui sarebbe una fictio juris. Giudicarla così è offendere il principio giuridico della fictio iuris, che è un istituto del tutto legittimo e dignitoso, per il quale il diritto finge di avere regolarmente elargito un beneficio, del quale il beneficiato liberamente si priva.

 Nel caso della concezione luterana, invece sarebbe meglio parlare di finzione disonesta o di ipocrisia. In realtà, infatti, nella concezione luterana l’uomo non è affatto giustificato, ma resta in stato di peccato, coperto da una falsa dichiarazione di giustizia da parte di un Dio che non chiude un occhio solo, ma li chiude tutti e due, dunque o un Dio, del quale ci fa beffe o un Dio segreto complice del peccato e che premia chi non lo merita.

Lutero respinge giustamente il concetto pelagiano del merito, per il quale l’uomo avrebbe l’iniziativa nel processo della giustificazione, si darebbe alle buone opere, le quali sarebbero premiate con la grazia. Ma purtroppo egli scambia il concetto cattolico del merito, che suppone la grazia, con quello pelagiano, per cui nel rifiutare questo, respinge anche quello, sicchè cade nell’idea eretica per la quale l’uomo pretende di salvarsi senza merito.

Lutero trascura quindi il preciso avvertimento di Nostro Signore, che, se vogliamo entrare nella vita, dobbiamo osservare i comandamenti (cf Mt 19,17). Invece, Lutero pone la salvezza come effetto della sola grazia, senza alcun concorso del libero arbitrio, che, per lui non serve alla salvezza, perché resterebbe schiavo delle conseguenze del peccato originale. Solo in paradiso, per Lutero, il libero arbitrio sarà veramente libero e quindi non più schiavo del peccato.

Con tutto ciò la grazia, per Lutero, fruttifica sì nelle buone opere, le quali, però, non sono veramente ed intrinsecamente buone, ma solo computate da Dio per tali, atteso il suo principio condannato da Leone X, secondo il quale «il giusto pecca in ogni opera buona» (Denz.1485). Per questo, l’uomo, anche in grazia, non può compiere opere che meritano un aumento della grazia, fino a meritare il premio celeste. L’uomo va in paradiso, per Lutero, solo perché è predestinato, ma senza alcun merito; anzi, stando ai meriti, dovrebbe andare all’inferno.

È il famoso principio del justus et peccator, che comporta chiaramente, come poi noterà il Concilio di Trento, la confusione fra atto o stato di peccato e la tendenza a peccare o concupiscenza. Nella visione cattolica nel corso della vita ogni peccato può essere cancellato dal perdono divino, salvo poi essere commesso in una successiva occasione e così per tutta la vita.

Ma possono esistere intervalli di tempo fra un peccato e il successivo, anche se brevi, durante i quali l’uomo è innocente. Invece per Lutero non è così. Per lui c’è il peccatum permanens, l’uomo è sempre in colpa, è sempre in stato di peccato, la volontà è permanentemente perversa, anche se non sempre in modo consapevole. È chiaro che egli la confonde con la concupiscenza. Questa sì che  è sempre attiva ed incessante, anche se ad essa in linea di principio l’uomo può resistere con l’aiuto della grazia.

La giustificazione del peccatore è effetto del ministero della penitenza.

Lutero non ha capito che la giustificazione comporta un vero passaggio dalla cattiva alla buona volontà. Nella giusta visione il peccato non è coperto ma cancellato dalla grazia, perché altrimenti appariremmo giusti senza esserlo e questa è un’ipocrisia.

Ma Lutero assurdamente ammette una continua coesistenza nel giusto della buona con la cattiva volontà. L’uomo compie simultaneamente il bene e il male. Non è questa la doppiezza eretta a sistema? Questo principio perverso peserà nei secoli seguenti e darà origine alla dialettica hegeliana del legame necessario tra bene e male (positivo-negativo) fino ad arrivare ad identificare il bene col male.

Dobbiamo osservare che nella visione cattolica e nella realtà della nostra comune esperienza morale è vero che tutti noi quotidianamente - come osserva il Concilio di Trento -, dopo esserci purificati per lo più dal peccato veniale, torniamo a macchiarci.

Questa certo è esperienza di tutti nello stato di natura decaduta, un’esperienza praticamente inevitabile. Così similmente avviene nell’igiene fisica, che dopo un buon bagno dopo breve tempo torniamo a sporcarci. Ma dal constatare questo a parlare di uno stato continuo ed inevitabile di peccato mortale per tutti, come fa Lutero, ci corre parecchio e qui usciamo dalla comune esperienza morale ed entriamo nello psicopatologico.

Nella vita morale cattolica normale il problema è quello di fare una periodica buona confessione nell’alternarsi continuo di cadute e rialzate fino alla fine della vita, mantenendoci perseveranti e zelanti in questa igiene dello spirito. Non ci laviamo forse la faccia tutti i giorni senza drammi e angosce? Lo stesso dobbiamo fare nella pulizia dell’anima, anche se ovviamente non dobbiamo prendere la cosa alla leggera ed evitare di essere recidivi.

Tuttavia, non dobbiamo in questa pratica salutare e spiritualmente consolante e corroborante porci alcun problema o lasciarci travolgere da alcuna angoscia, perchè è il cammino sicuro e normale della nostra santificazione, anche dei più grandi Santi, esclusa ovviamente la Madonna, che era libera dalla concupiscenza conseguente al peccato originale.

Lutero non si rese conto di quale meraviglioso potere di pacificazione e di consolazione Dio lo aveva dotato col conferirgli il sacramento del sacerdozio, solo che si fosse fiduciosamente e docilmente messo a disposizione del potere liberante e santificante di quello Spirito Santo che agisce per il tramite del confessore.

Invece di eccitare gli animi contro il Vicario di Cristo, invece di spaventare le coscienze col gettarle in scrupoli angosciosi, invece di illuderle col far loro credere di essere dispensate dal far penitenza e dalla vita ascetica col pretesto della misericordia divina, perché non si è piuttosto dedicato al prezioso ministero della confessione, che, come dimostra l’esempio di tutti i santi pastori, arreca alle anime la vera pace e incentiva la vera riforma della Chiesa e dei costumi? 

Il sacramento della penitenza, col quale noi sacerdoti siamo chiamati a consolare gli altri, è tale che consola innanzitutto noi stessi. Altrimenti, come potremmo consolare gli altri, se noi per primi non avessimo sperimentato che cosa vuol dire essere consolati da Dio?

Faceva bene, certo, Lutero, a preoccuparsi per la propria salvezza e a temere di perdersi. Ma perché fissarsi nell’idea ossessiva di non riuscire ad esser buono e che qualunque cosa facesse doveva essere un peccato? Da dove aveva tirato fuori un’idea così perversa e malsana e così contraria alla Scrittura – egli che tanto si vantava di studiarla - e allo stesso buon senso, che però in lui scarseggiava?

Certo si suppone che chi entra in confessionale sia pentito e desideroso di liberarsi dalla colpa. Si suppone quindi che intenda confessare umilmente i suoi peccati, che desideri esserne assolto, onde ottenere il divino perdono. Chè se invece mancano in costui queste disposizioni, è chiaro che non può trarre alcun frutto dalla confessione, semplicemente perché non è nelle condizioni di farla, per cui gli conviene che rinunci ad entrare in confessionale, per fare, prima di entrarvi, un buon esame di coscienza.

Come, inoltre e perché a Lutero venne in mente che gli fosse impossibile respingere il peccato? Doveva ben sapere infatti, almeno come dottore in teologia, che Dio offre a tutti il perdono: dipende da noi rispondere sì o no alle sollecitazioni della grazia. E se è vero che il sì è causato dalla grazia, perchè mai non decidersi a dire questo benedetto sì? Perché arrovellarsi in sensi di colpa, visto che essa può essere tolta da un semplice atto di pentimento e di fiducia nella divina misericordia? Perché darsi la zappa sui piedi quando possiamo usarla per zappare la terra?

Le mancanze di rispetto verso il peccatore

1.Il rifiuto di perdonarlo nel caso che si penta e chieda perdono e per conseguenza il rifiuto di riconciliarsi con lui.

2. La giustizia spietata ed inesorabile con l’eventuale ricorso imprudente all’autorità giudiziaria.

3. La mancanza di misericordia e il rifiuto di riconoscere i lati buoni del peccatore.

4. La convinzione infondata di aver ragione noi contro di lui.

5. L’aver frainteso il senso della sua condotta nei nostri confronti, avendola ritenuta peccaminosa mentre era onesta.

6. Il rifiuto di capire le sue eventuali buone intenzioni, di accogliere le sue scuse o di apprezzare le sue ragioni. Questa sfiducia è tanto più grave quanto maggiormente conoscevamo la persona che ci ha fatto il torto vero o apparente ed essa ci aveva dato prove di competenza, di saggezza di credibilità e di affidabilità.

7. Il proposito irremovibile e rancoroso di evitare per sempre con lui ogni rapporto per la sfiducia che possa pentirsi o correggersi.

8. La sfiducia che possa ascoltare la nostra correzione.

9. La sfiducia e il rifiuto di sperare che la grazia possa convertire il suo cuore.

10. Il vero rispetto per il peccatore non richiede, come alcuni credono, che si giudichi il suo peccato semplicemente come un’opzione diversa da quella che faremmo noi, giacchè ciò equivarrebbe semplicemente a non considerarlo nemmeno peccatore, ossia uno che fa il male, ma appunto come uno che semplicemente agisce diversamente. E invece il vero rispetto del peccatore, ossia il vero bene che dobbiamo volere per lui, richiede che gli indichiamo con franchezza e carità il male che ha fatto e dal quale può e deve liberarsi.

Fine Seconda Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 29 maggio 2021

 


La resurrezione dal peccato della quale parla San Paolo non significa che Dio ridia esistenza a una volontà che non esiste più, ma che, supponendo nel peccatore l’esistenza di un libero arbitrio indebolito, gli ridona mediante la grazia le sue forze naturali, così da essere capace di compiere sempre il bene e di evitare il peccato. 

È questa la giustificazione del peccatore.

Il peccatore è una persona, sostanza spirituale-corporea dotata di intelletto e volontà. 

In quanto persona, il peccatore possiede una dignità altissima che la rende simile a Dio per la potenza dell’intelletto e della volontà. 

Lo spirito umano, benché finito nelle sue forze, spazia nell’infinito. 

Per questo la tentazione a cui è soggetto da parte del demonio è quella di credersi infinito e uguale a Dio. 

Se illuminato da Dio è capace di vedere Dio, quindi di essere intenzionalmente Dio, benché finitamente. 

Mens capax Dei, come diceva Sant’Agostino.  

 



Immagini da internet:
- Jacob Andries Beschey, La peccatrice
- Tintoretto, Tentazioni di Sant'Antonio Abate

 


[1] Questo tema è trattato con magistrale competenza e dal Servo di Dio Tomas Tyn in due sue tesi, una di licenza in teologia presso lo Studio Teologico Accademico Bolognese e l’altra, la tesi di dottorato in teologia all’Angelicum di Roma.  http://www.arpato.org/ - http://www.arpato.org/bibliografia.htm

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