La conoscenza dello spirito - Prima Parte (1/3)

La conoscenza dello spirito

Prima Parte (1/3)

Come la cerva anela ai corsi d’acqua,

          così l’anima mia anela a Te, o Dio.

            L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente

Sal 42,2

O Dio, Tu sei il mio Dio, all’aurora Ti cerco, di Te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua.

Sal 62, 1-2. 

La scoperta dello spirito

Parliamo spesso dello «spirito». Ma sappiamo veramente che cosa è? Nel Simbolo della Fede proclamiamo che Dio è creatore dei visibilia e degli invisibilia. Gli invisibilia sono le creature spirituali: l’anima umana e l’angelo. Ma se sono realtà invisibili, come le conosciamo? Esse sono invisibili ai sensi, ma non all’intelletto, che è facoltà spirituale. Ma allora siamo daccapo: che cosa è questo spirito che vede le realtà spirituali?

Il dibattito sulla natura dello spirito, delle idee, della coscienza, del pensiero è oggi nelle mani degli idealisti. Ma dovremmo renderci conto una buona volta dei guai che essi hanno combinato con la loro saccenza ed arroganza. Certo, non che manchino di intuizioni geniali e di conoscenza della realtà dello spirito, ma non possiamo seguirli quando vorrebbero darci ad intendere che il nostro io empirico non è che l’apparire contingente dell’Io assoluto.  Occorre riprendere questo dibattito in modo serio e veramente critico, perché ne va del senso stesso della nostra vita e delle sorti dell’umanità.

Al di fuori degli idealisti, chi oggi discute seriamente sul problema dell’essere, della realtà, della conoscenza, della verità? A chi interessa fornire prove convincenti dell’esistenza di Dio o dell’immortalità dell’anima? Chi è che si preoccupa di stabilire un concetto preciso della natura divina? Il Dio della Bibbia è lo stesso del Dio di San Tommaso, di Lutero, di Cartesio, di Kant, di Hegel, di Bontadini, di Rahner?

Chi si preoccupa di fissare gli attributi di Dio? Dio è concettualizzabile? È immanente alla coscienza? È il primo oggetto del sapere? Soffre? Muta? Diviene? È connesso con l’uomo, col mondo, con la materia? È creatore? Castiga? Vuole sacrifici? Esige soddisfazione per il peccato? Ci impone delle leggi di condotta? Ha voluto la morte di suo Figlio? Perdona chi non si pente? Il Dio cristiano è lo stesso Dio dei musulmani e degli ebrei?

La domanda che allora sorge in noi, ineludibile e impellente, è la seguente: come fa il Salmista ad esprimere un tale desiderio di vedere Dio, quale quello che si manifesta nei versetti citati all’inizio di questo articolo, uno dei tanti dei quali è cosparsa la Bibbia? Che cosa è che spinge l’animo del Salmista ad esprimersi con tanto fervore e con paragoni così corposi? Come da questi paragoni possiamo risalire all’esperienza del Salmista, per dirla con Santa Caterina da Siena che se ne intendeva, all’«infocato desiderio» del Salmista»?

Non assomiglia forse tale desiderio a un appassionato desiderio sessuale, come quello espresso dal Cantico dei Cantici? Forse che il desiderio dell’unione con la donna può in qualche modo rappresentare o introdurre alla comprensione dell’unione mistica con Dio, al di là dell’immensa differenza tra piacere sessuale e piacere spirituale?

Prima di rispondere a questa sconvolgente domanda, la quale, se fraintesa, potrebbe condurci completamente fuori strada, facciamo un viaggio indietro nella storia della filosofia, per trovare le scaturigini originarie di quella dinamica dello spirito unito al senso, che ci porta a farci simili domande. Ricordiamo allora alcune pietre miliari sulle quali l’occidente ha costruito a partire dalla Grecia e da Roma a vantaggio anche dell’oriente, le basi della scienza e della civiltà. Il vero progresso è costruire su quelle basi.

Platone, lo scopritore dello spirito

Il primo filosofo che ha capito che in noi non c’è solo un potere visivo fisico, che ha per oggetto le cose sensibili esterne, ma esiste anche un potere visivo superiore, immateriale, appunto intellettuale e spirituale, che vede le cose dello spirito, molto più preziose di quelle sensibili, attinenti alla virtù, alla sapienza, alla bellezza e alla religione, è stato Platone, il quale ha scoperto che in noi c’è la possibilità di contemplare le idee o ideali delle cose, che sono entità mentali, interiori alla nostra coscienza, appunto immateriali, eterne, immutabili, oggettive ed universali, modelli e paradigmi delle cose sensibili, in base alle quali possiamo giudicare se, quanto e come le cose ne sono o non sono il riflesso o l’imitazione o la partecipazione.

Platone ha capito che noi possiamo vedere con l’intelletto le idee delle cose materiali e spirituali. Si tratta di una ripresa e chiarimento della morale di Socrate, che aveva capito che noi possiamo essere giusti in base ad un ideale di giustizia. Platone però tende ad ipostatizzare le idee senza chiedersi quale mente forma queste idee. Esse sembrano quindi un insieme di divinità sul solco del tradizionale politeismo greco.

Platone ha capito che il pregio dello spirito è la conoscenza, ossia il divenire immaterialmente l’altro in quanto altro: l’assumere immaterialmente le forma dell’altro da sé: la mente ha la possibilità di far proprie quelle idee, quelle forme, quei logoi, che essa contempla nell’intuizione intellettuale. Già Socrate faceva questa operazione per i valori morali, ma non si preoccupava di sapere come ciò poteva avvenire, perché non indagò sul potere della conoscenza spirituale.

Platone ha capito invece che oggetto dell’intelletto umano e non umano è la sostanza spirituale, che per lui era l’idea. Non aveva invece chiaro il fatto che per raggiungere questo oggetto bisogna partire dall’esperienza sensibile, cosa che sarà chiarita da Aristotele.

Platone è anche lo scopritore dell’autocoscienza, che è squisitamente atto dello spirito che riflette su se stesso. È lo scopritore dell’esistenza dell’anima immortale perché contempla le idee eterne. In quanto realtà le vede al di sopra di sé; in quanto pensate, le vede nella propria anima. Ma allora ciò vuol dire che l’anima vede se stessa. Ecco l’autocoscienza. Questo non vuol dire che l’interesse dell’anima si esaurisca nel conoscere se stessa, come intenderanno gli idealisti tedeschi del sec. XIX[1].

Infatti, come scoprirà Aristotele, solo Dio è soddisfatto della conoscenza di se stesso (nòesis noèseos), perchè egli è il primo e sommo Ente; ma l’anima, nel suo desiderio di sapere, non può essere soddisfatta dell’autocoscienza, perché il suo essere è causato.

Aristotele riprende Platone nel concepire la conoscenza come rappresentazione dell’altro da sé. È questa la base del realismo gnoseologico. Tuttavia capisce che Dio non ha bisogno di conoscere l’altro da sé, perché egli è il Primo, è Tutto, è l’Assoluto. Per questo a Dio interessa essenzialmente solo conoscere se stesso.

Non così per noi, perché noi troviamo davanti a noi una realtà esterna sensibile ed intellegibile, per cui per noi il conoscere non è tanto il conoscere noi stessi, quanto piuttosto il conoscere questa realtà, realtà sensibile per mezzo della quale scopriamo con l’intelletto l’esistenza della Causa prima e del Motore immobile.

Aristotele scoprirà pertanto che l’ente non è solo spirito autocosciente, ma esiste anche l’ente materiale composto di materia e forma, esterno al nostro spirito e inizialmente attingibile dai sensi per essere poi compreso dall’intelletto.

Comunque sia, Platone ha avuto l’acutezza di intravvedere quella che è la conoscenza dello spirito e dell’anima separata dopo la morte. L’anima vede gli spiriti: se stessa, le altre anime dei defunti e gi angeli. E Dio? Platone non è arrivato a porsi questa domanda, perché non ipotizzava la visione di Dio, ma solo delle idee. La Bibbia risponderà che la visione di Dio dopo la morte è riservata a coloro che muoiono in grazia di Dio. Ma Platone nulla sapeva della grazia.

Quanto ai dannati dell’inferno, essi, secondo la Bibbia, sanno chi è Dio, ma non desiderano affatto vederlo, perché tale desiderio nasce dall’amore per Dio, cosa che i dannati detestano assolutamente. Essi vanno all’inferno proprio per stare lontano da Dio, non importa per loro se ciò comporta una pena eterna: l’importante è non vedere Dio!

Tuttavia, per Platone l’anima che vede le idee e se ne innamora, non è creata dal nulla da un Dio creatore, ma preesiste ab aeterno all’esistenza del corpo, nel quale è precipitata come in un carcere a seguito di una misteriosa caduta primordiale, dove viveva beata nella contemplazione delle idee. Senonchè la caduta le ha fatto dimenticare tutto quello che vedeva nell’iperuranio e adesso, immersa nelle illusioni dei sensi e avvinghiata dalle seducenti attrattive dei corpi, se vuol recuperare la libertà perduta, le tocca di rammemorare tutto quello che aveva dimenticato.

Quindi, entrando nel mondo, i sensi, secondo Platone, non le servono affatto per imparare l’ignoto e acquistare la conoscenza delle cose e dello spirito, ma al contrario, l’anima deve allontanare con decisione ed energia la seduzione e l’inganno dei sensi, perché distraggono l’anima e le impediscono di raccogliersi in se stessa, per recuperare il sapere nell’intimo della propria coscienza. Qualcosa di simile esiste nell’ascetica cristiana. È vero che una certa pratica della solitudine e l’entrare in se stessi isolandosi dalle sollecitazioni dei sensi e dell’immaginazione possono essere utili per mettere a fuoco i valori dello spirito, della morale, della coscienza e della religione.

Sarà Agostino, dal canto suo, a capire che le idee archetipiche di Platone non possono che essere prodotte dalla mente di Dio. Ma in Platone l’idea di Dio non è chiara. Non è così sicuro che egli fosse monoteista. Egli pone infatti una distinzione fra l’idea del Bene e il Demiurgo, che plasma le cose guardando alle idee e non s’accorge che la formazione delle cose non può che dipendere dal sommo Bene che è Dio.

Platone scopre dunque l’esistenza delle idee e sa che la nostra beatitudine sta nel contemplarle. Ciò vuol dire che ha capito che la nostra beatitudine consiste nella conoscenza dello spirito. Ma non è giunto alla nozione di persona, ossia della sostanza spirituale che è l’unica ed adeguata spiegazione dell’esistenza delle idee. Ha capito che esse sono contemplate dall’intelletto, ma non ha pensato al fatto che esse sono prodotte da un intelletto, che è l’intelletto divino, ideatore e creatore, mediante la volontà, delle cose. Ha affidato al Demiurgo la formazione del mondo, senza capire che il mondo non è semplicemente formato plasmando una materia preesistente, ma creato dal nulla. E chi può averlo creato? Platone non se lo chiede. La risposta la darà la Bibbia.

Manca in Platone la nozione analogica di persona. Egli percepisce il valore della relazione interpersonale a livello umano e sociale, ma non capisce la relazione della persona umana con la Persona divina, con Dio inteso come persona. L’Idea del Bene non è ancora una Persona, sebbene sia vero che in Dio essere e pensare coincidono. Ma occorre aggiungere l’agire. E l’idea come tale non suggerisce ancora l’agire, iI volere. Ciò che agisce è il Bene, non l’idea del bene.

È vero che per Platone il sommo Bene è epèkeina tes usìas, al di là dell’essenza, il che ha portato il benevolo San Tommaso a intendere Platone come se dicesse che l’agire supera il semplice essere, per cui «il fine è la causa delle cause». Cioè Platone intenderebbe significare il primato dell’amore sul sapere.

Se così fosse, andrebbe bene. Ma c’è anche chi interpreta Platone in senso indiscretamente apofatico, come se il bene fosse al di sopra dell’essere. Ma un bene che non è essere, come fa ad essere intellegibile? Ecco allora il rischio di una mistica, come quella dell’Areopagita, che conclude nel buio assoluto[2]: tanta fatica per apprendere gli articoli e i dogmi della fede, per elaborare i concetti teologici che ne discendono, per poi eliminare tutto alla fine? Ma allora a che cosa serve la Bibbia? Tutta fatica sprecata? Che cosa è venuto a rivelare Gesù Cristo, se ne sappiamo su Dio e sullo spirito tanto quanto prima, cioè niente?

Non confondiamo la mistica col nichilismo e l’oscurantismo. Non confondiamo il silenzio mistico col silenzio del sasso. Qui possiamo lasciar parlare Hegel: l’Assoluto di questi mistici è la notte dove tutte le vacche sono nere. Ma è veramente questa la mistica platonica? Forse è San Tommaso che coglie nel segno. È la mistica dell’amore.

È solo così che si ha la pienezza della realtà dello spirito. In Platone, quindi, non c’è il dialogo fra l’io umano e il Tu divino, come vediamo nei Salmi della Scrittura. Non esiste un colloquio fra l’uomo e Dio. Io vedo in me stesso le idee, mi sforzo di metterle in pratica nella convinzione che così mi libero dal corpo perchè la mia anima o il mio spirito, che sono io stesso, possa dopo la morte contemplarle in eterno. La vita spirituale per Platone è tutta qui.

Per lui Dio si nasconde, certo, dietro le idee e la suprema Idea del Bene, oggetti supremi della contemplazione filosofica, ma tutto finisce qui. Il rapporto con gli altri non fa capire il rapporto con Dio. L’eros platonico ci fa innamorare delle idee, ma non del prossimo. La relazione al prossimo è certamente improntata socraticamente a un senso di onestà e senso del dovere, ma niente di più.

L’orientamento pratico verso il prossimo per Platone dev’esser certo improntato alla virtù, ma non ha nulla a che vedere con l’orientamento speculativo verso la visione delle idee. Al contrario, nella Bibbia il camminare verso il prossimo e verso Dio vanno di pari passo e si richiamano a vicenda. Il rapporto col prossimo, in quanto implicante la corporeità, per Platone è destinato a cadere. Solo il rapporto con le idee è destinato a durare in eterno.

Per Platone solo l’invisibile, lo spirito è eterno. Il visibile, il corporeo è la parvenza, è l’effimero, lo spregevole, il corruttibile, destinato a dissolvesi e sparire nel nulla. Anche il cristiano sa bene che il corporeo è corruttibile; come del resto esiste anche una corruzione spirituale, che è quella del peccato. Ma il corporeo è corruttibile non per se stesso, come tale, ma solo perchè il peccato originale lo ha reso corruttibile.

Nell’originario piano edenico l’uomo, anima e corpo, era immortale. Dunque per il cristiano non si tratta di rifiutare il corpo, ma di liberarlo dalla corruzione. sì che, purificato dalle conseguenze del peccato, possa risorgere da morte a vita immortale. Dunque vediamo che tra Platone e nel cristianesimo si dà un’opposizione radicale circa il destino finale del corpo: in Platone il corpo è destinato al nulla, va a finire in polvere. Per la Bibbia, certo, il corpo momentaneamente finisce in polvere non per sua natura, ma perché guastato dal peccato. Il corpo, creato da Dio buono come parte essenziale della natura e della persona umana, è destinato a risorgere alla vita eterna[3]. Qui vediamo un abisso fra Platone e il cristianesimo. Nietzsche, che diceva che il cristianesimo è un platonismo per il popolo, evidentemente non aveva capito niente del cristianesimo.

Platone non vede nel prossimo un’immagine di Dio e non la vede neppure nel proprio io. Platone conosce l’ispirazione divina, non ignota al mondo pagano, ma essa serve solo ad elevare lo spirito al mondo delle idee; non ispira, come nella Bibbia, una condotta morale che imiti l’agire divino verso l’uomo.

Non c’è, come nella Bibbia, un Dio che guarisce, purifica, libera, salva e solleva a Sé mediante la grazia. L’uomo deve arrangiarsi da solo come può mediante lo sforzo ascetico, il compimento del dovere e l’esercizio della contemplazione nel purificarsi e nell’innalzarsi al mondo del divino, nell’autotrascendersi verso l’eterna visione delle idee.

La pratica dell’amore del prossimo in Platone non serve a raggiungere la visione delle idee e quindi l’unione con Dio. Non sorge dal bisogno di imitare la bontà divina o di obbedire alla sua legge o alla sua volontà. Le idee mi illuminano, ma non mi parlano. Mi muovono verso di esse, ma non verso il prossimo. Nel rapportarci agli altri non apprendiamo come comportarci con Dio. L’amore che riceviamo dagli altri per Platone non ci fa capire l’amore di Dio per noi. Platone non raggiunge lo spirito per queste vie, diversamente dall’insegnamento biblico, molto ricco su questi argomenti.

Platone ha capito però che all’atto della visione intellettuale fa seguito l’atto della volontà, che desidera il bene visto dall’intelletto. L’idea platonica è quindi modello dell’azione morale e ad un tempo oggetto di contemplazione e di amore, sorgente di felicità. Platone ha capito che esiste una gerarchia nelle idee: la nostra conoscenza inizia con le idee delle cose sensibili e successivamente sale alla scoperta delle idee di realtà sempre più nobili ed elevate fino a giungere alla somma Idea, che è quella del Bene, dalla quale tutte le altre idee dipendono e che illumina tutte le altre idee. È l’idea di Dio.

Merito di Platone è stato quello di distinguere l’intelletto dal senso, l’intellegibile (noetòn) dal sensibile (aisthetòn). Non spiega però come il senso è superato dall’intelletto, il quale sembra compiere semplicemente un balzo dalla terra al cielo. Ciò significa che Platone non riesce a collegare i due atti, i quali addirittura sembrano contrastanti e l’intelletto pare smentire ciò che percepisce il senso. La verità sembra esser raggiunta solo dall’intelletto, mentre il senso resta nel mondo delle sembianze e delle opinioni. Il senso, quindi, più che un aiuto all’intelletto, sembra essere un intralcio.

Ma questo scetticismo del senso corrisponde ad una concezione pessimistica della realtà materiale. Platone ha creduto infatti che lo stimolo a peccare non venga dall’intelletto e dalla volontà, perché emananti dallo spirito, cioè dal mondo ideale, che non può che essere buono, anzi divino, ma venga dal confuso e torbido mondo dei corpi, ingannevole, illusorio, mutevole, coercitivo e corruttibile, principio quindi di malvagità e non di bontà, di morte e non di vita.

 Platone sentiva fortemente quanto le nostre passioni e la nostra stessa volontà sono sedotte e sviate dalla concupiscenza e dai desideri sensuali, ma credette che quegli stimoli cattivi venissero dalla stessa natura del corpo e delle passioni e non sapeva, come c’insegna la Bibbia, che invece essi sono conseguenze del peccato originale, giacchè corpo e passioni, ben lungi dall’essere nemici dell’uomo, concorrono di per sé a costituire l’integralità della natura umana creata da Dio.

Così ne veniva la conseguenza che, per acquistare la libertà e la virtù, bisogna che il nostro spirito, con la morte, si affermi in tutta la sua purezza, si liberi dal carcere e dalle impurità del corpo, dalle vane illusioni e attrattive dei sensi e delle passioni, e vada a contemplare in eterno le Idee eterne.

Platone, quindi, non ha conosciuto la distinzione fra lo spirito buono e lo spirito maligno, perché non lo spirito, ma la materia istiga al peccato. Per Platone lo spirito non può che essere buono. Lo spirituale, per il fatto stesso di essere spirituale, è buono e desiderabile.

D’altra parte, se il corpo è malvagio, e Dio spirito è buono, per Platone il corpo non può avere origine da Dio. Ma nasce il rischio di ipotizzare un dio cattivo come autore della materia. Platone non arriva fino a questo punto, per cui la materia se ne sta da sé increata accanto a Dio, e tuttavia Platone lascia aperta quella possibilità, che non mancherà di essere attuata dal manicheismo, appunto con la teoria del dio cattivo, autore della materia cattiva.

Aristotele non arriva ad ammettere la creazione della materia, ma si avvicina alquanto, dato che la potenzialità materiale (dynamis) appartiene all’ambito dell’essere e quindi è buona.

D’altra parte, Platone, per spiegare il fatto che lo spirito umano si trovi nel carcere del corpo e in un’oscura caverna, avanza l’ipotesi di una caduta originaria – non si sa perché - dal mondo delle idee, che ricorda in qualche modo il peccato originale. Il successivo neoplatonismo, ripreso nel sec. XIX da Hegel, spiegherà questa caduta dello spirito finito dallo Spirito assoluto come una necessità dello stesso Assoluto di tornare a se stesso (epistrofè), dopo essere uscito da sé (proodos) nella permanenza in sé (monè)[4].

Ma c’è una grossa differenza della dottrina neoplatonica della caduta dalla dottrina biblica del peccato, che mentre nel neoplatonismo la caduta dello spirito finito fa parte di un processo divino necessario, nella Bibbia lo spirito umano lascia il principio divino a causa del peccato, atto della volontà, per cui la tentazione al male non viene dal corpo, ma dal «cuore», come dice Cristo. Il problema, allora, per il cristiano, non è tanto evitare la corporeità, quanto piuttosto la conversione del cuore e un sano dominio del corpo, di per sé buono[5].

In terzo luogo Platone non riesce a capire il rapporto fra spirito e corpo nell’uomo. Non riesce a vederne l’armonia e come l’uno si unisca all’altro a formare quell’unica sostanza che è la persona umana. Passa da un estremo all’altro: dal conflitto alla confusione. Da una parte, il corpo è concepito come pericolo e danno per lo spirito.

Ma dall’altra, il senso e la passione sono semplici partecipazioni ed imitazioni dell’intelletto e della volontà, senza quindi un’essenza autonoma simile e diversa da quella dello spirito. Sembrano invece partecipare o imitare l’essenza dello spirito, assumendo l’essenza stessa dello spirito sia pur per imitazione o per partecipazione.

Manca in Platone l‘analogia fra corpo e spirito, analogia che da una parte salva la differenza essenziale, ma dall’altra assicura l’unione e l’armonia. Il rischio, quindi, della spiritualità platonica, così dualista, è quello di provocare proprio ciò che vuole evitare, per essere troppo drastica nel volerlo evitare: lo spirito confuso con la materia; lo spiritualismo ridotto a sensualismo.

Invece è proprio la visione analogica di spirito e corpo, per la quale entrambi sono buoni, benché in modo diverso, che assicura la superiorità dello spirito sul corpo, unendoli in un’unica sostanza umana, senza opporre questo a quello e senza rischiare di ridurre quello a questo.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 25 luglio 2022

  

O Dio, Tu sei il mio Dio, all’aurora Ti cerco, di Te ha sete l’anima mia
 

Come fa il Salmista ad esprimere un tale desiderio di vedere Dio, quale quello che si manifesta nei versetti citati all’inizio di questo articolo, uno dei tanti dei quali è cosparsa la Bibbia?

Che cosa è che spinge l’animo del Salmista ad esprimersi con tanto fervore e con paragoni così corposi? 

Come da questi paragoni possiamo risalire all’esperienza del Salmista, per dirla con Santa Caterina da Siena che se ne intendeva, all’«infocato desiderio» del Salmista»?




Immagini da Internet:

- Mosaico, San Clemente, Roma
- Giacomo Franceschini, Gesù e la Samaritana

 
 
 
 
 
 
 

[1] Questa confusione del sapere umano col sapere divino, dell’autocoscienza umana con quella divina è ben evidente nelle parole con le quali Johannes Baptist Metz delinea la concezione rahneriana dell’autocoscienza, che Metz riconosce esplicitamente dipendere da Hegel, in barba a San Tommaso, che Rahner vorrebbe darci ad intendere di commentare: «il conoscere, nella sua essenza più profonda, non è orientato verso un altro, bensì verso il conoscere stesso: si tratta di un autoconoscere o autocoscienza. In altre parole, il conoscere si presenta come un essere-presso-sé delineandosi su questi due livelli, poiché l’essere-presso-sé cosciente si fonda sull’essere-presso sé ontologico. In breve: l’essere è essere-presso-sé e coincide con l’immediata intuizione intellettuale di se stesso, vale a dire: l’essere è spirito», Introduzione a Karl Rahner, Spirito nel mondo, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. XI-XII. Metz parla in realtà, senza dirlo, dell’autocoscienza divina e l’attribuisce all’uomo.

[2] Cf Dionigi, Mistica teologia, Edizioni ESC-ESD, Bologna 2011.

[3] Sono interessanti qui le conseguenze per quanto riguarda la vita sessuale, evidentemente essenziale al corpo umano. Una certa visione tradizionale, influenzata da Platone, concepisce l’astinenza sessuale come realizzazione incoativa della vita eterna e, se accetta la resurrezione, per essa il sesso non ha alcuna rilevanza. Ma, se consideriamo attentamente, come faccio io da 40 anni, il vero significato cristiano della sessualità e della resurrezione del corpo, ci accorgeremo che la vita sessuale non è affatto esclusa, come se il corpo diventasse asessuato, benché tale vita non sia più procreativa, ma solo espressione dell’amore. Per la spiritualità cristiana il rapporto interpersonale uomo-donna è un fattore essenziale per la comprensione e l’espressione dell’essenza dello spirito. Occorre peraltro fare attenzione che dal rigorismo sessuale platonico si può ricavare paradossalmente una totale dissolutezza, come appare evidente dalla sua famosa scandalosa idea della comunanza sessuale delle donne. Come si spiega tale capovolgimento di prospettiva? Come Platone passa dal puritanesimo alla sensualità? L’ho spiegato in un'altra parte di questo articolo: per il suo stesso concetto equivoco di spiritualità.

[4] Cf W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp.161-172.

[5] Il corpo umano è sessuato e per questo l’idea di un corpo che induce in tentazione ha la sua corrispondenza nella concezione del sesso come forza istigatrice al peccato. La giustificazione platonica dell’astinenza sessuale è assai diversa da quella cristiana. In quella si tratta di anticipare quella libertà dal corpo della quale l’anima godrà dopo la morte; nella visione cristiana l’astinenza è un espediente legato alla presente condizione della natura decaduta in attesa di un esercizio del sesso alla risurrezione futura nella libertà dall’attuale miseria della natura decaduta.

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