L’avventura della metafisica - Parte Seconda (2/6)

 

L’avventura della metafisica

Parte Seconda (2/6) 
 

Gli apporti di San Tommaso alla metafisica di Aristotele[1]

Nell’affrontare Aristotele, poi, Tommaso non si limita a riprendere quanto di buono trova nella sua Metafisica, ma la fa progredire, migliorandola con l’apporto che proviene dalla Rivelazione cristiana, che comporta il concetto dell’essere (esse, einai) al di là dell’ente (ens, on), al quale si fermava Aristotele, e quindi la distinzione fra l’essenza (essentia, usìa) e l’essere come atto dell’essenza (esse, einai), mentre Aristotele si fermava alla considerazione dell’essenza.

Tommaso accetta la definizione aristotelica della metafisica come scienza dell’ente in quanto ente e delle sue proprietà. Riconosce infatti che la nozione dell’ente è la prima ad essere concepita e la più universale di tutte le nozioni (ens commune) e quella nella quale si risolvono tutte le altre.

Nel Prooemium al commento alla Metafisica di Aristotele, Tommaso introduce alla nozione di metafisica mostrando l’esistenza di un sapere razionale universale, supremo e fondamentale, appunto la metafisica, avente per scopo quello di ordinare tutte le scienze e le arti alla beatitudine dell’uomo. Ora, osserva Tommaso, spetta all’intelletto il governo delle cose, il cui essere è effetto del pensiero divino.

Come Tommaso spiega a partire dal Prooemium fino alla Lectio I di commento al libro III di Aristotele, la metafisica è la scienza dell’ente comune o universale, per cui, dato che la scienza è scienza della verità e l’ente comune è la verità universale, la metafisica è la scienza più universale ed è la scienza della verità universale. Essa è il sapere necessario, primario, fondamentale, radicale, originario, incontrovertibile, più certo e più evidente, più nobile e più sublime.

Seguendo Aristotele, Tommaso insegna che l’ente oggetto della metafisica è principalmente e, sotto il punto di vista del reale, anzitutto l’ente in senso pieno, che è la sostanza[2], ossia l’ente esistente in sé o sussistente, composto di soggetto sussistente, essenza ed essere.

Secondariamente sono gli accidenti, che sono enti inerenti alla sostanza, relativi a lei e dipendenti da lei, che la perfezionano nell’essere. Se nella sostanza c’è la materia, il soggetto è la materia; se si tratta di pura forma, il soggetto è l’essenza. La sostanza è l’ente singolo. L’ente comune è l’oggetto generico, la sostanza è l’oggetto specifico della metafisica. La metafisica si può quindi definire come scienza degli enti. Non che non esista una nozione universale di sostanza. Ma questa è una semplice essenza. Se vogliamo considerare l’esistenza, l’oggetto diventa necessariamente molteplice.

Considerando invece l’ente non dal punto di vista della nozione, ma dell’essere, allora l’oggetto principale della metafisica è la causa prima, l’ente supremo, sommo bene e fine ultimo, Dio, che è pura sostanza senza accidenti, perché essi perfezionano la sostanza, mentre la sostanza divina è sostanza già perfettissima in se stessa[3].

Tommaso nota inoltre come spetta alla metafisica fondare la certezza del sapere nella massima universalità e radicalità. Essa infatti ha per oggetto l’ente universale e per conseguenza la verità universale. Ora, come osserva Tommaso[4], «ogni cosa, come si atteggia rispetto al suo essere (se habet ad hoc quod sit), così si atteggia rispetto al suo esser vera (se habet ed hoc quod habeat veritatem).

D’altra parte Tommaso, riprendendo Aristotele, osserva come nella ricerca della verità in qualche scienza, al fine di determinare quale sia la verità, il ricercatore deve affrontare e risolvere dubbi e difficoltà che gli vengono dagli avversari. Ora, l’ufficio della metafisica è quello di fondare la certezza nella sua massima universalità, atteso che il suo oggetto è lo stesso ente in universale. 

Per questo, se nelle altre scienze il dubbio concerne l’oggetto particolare di quelle scienze, il metafisico parte da una «universalis dubitatio de veritate»[5]. È quello che ha fatto anche Cartesio, con la differenza però che egli dubita irragionevolmente circa la veracità dei sensi, per cui non ha risolto il dubbio facendo ricorso alla loro veracità, ma facendo violenza al senso col sostituire la certezza del cogito a quella del senso, come se il senso fosse incapace da solo di conoscere la verità sensibile senza l’intelletto[6], oltre al fatto che la certezza del cogito non è quella del pensare l’ente, ma la certezza di dubitare, il che ovviamente non fonda nessuna certezza, ma la certezza nasce da un atto di violenza della volontà sull’intelletto obbligandolo di suo arbitrio a dar per certo ciò di cui esso non è certo e  per conseguenza a dubitare di ciò che è certo, come vediamo per esempio oggi nella teologia dei modernisti, che dubitano dei dogmi, ma danno come assolutamente  certe le idee di Schillebeeckx o di Rahner.

Così per Tommaso la metafisica è il sapere più intellettuale che conosce le realtà più intellegibili, le realtà supremamente scibili, cercate per se stesse, oggetto di pura speculazione, al vertice delle quali c’è Dio, sommo ente e sommo bene, causa prima e fine ultimo di tutte le cose.

Si tratta delle realtà più nobili, spirituali, massimamente universali, lontanissime dai sensi, raggiungibili per astrazione dal sensibile, le più difficili per noi da conoscere, abituati come siamo a trattare di cose sensibili. Per questo, se la metafisica ha il suo punto di partenza in nozioni semplicissime note a tutti, volendo scovarne le virtualità, si giunge al punto di arrivo che è la scoperta della causa prima.

San Tommaso spiega che la metafisica è la scienza della totalità della realtà ovvero di tutte le cose, non certo nel dettaglio di ciascuna, cosa possibile solo a Dio, ma nell’orizzonte dell’universalità dell’essere, quello che Jaspers chiama «orizzonte circoscrivente» (Umgreifende). Infatti il metafisico è in possesso delle nozioni più universali, al di sotto delle quali stanno tutte e singole le cose. E quindi in certo modo e in questo senso conosce tutte le cose.

E per questo la metafisica, basata sui primi princìpi del pensare e dell’essere, alla ricerca delle prime cause delle cose, sale dalla conoscenza dell’ente materiale a quello spirituale e introduce alla teologia[7]. A questa scienza, osserva San Tommaso, spetta il nome di «sapienza»[8].

La metafisica, ci spiega sempre San Tommaso al seguito di Aristotele, è altresì un sapere sommamente libero ed espressione di libertà, un sapere liberante e sorgente di libertà, se è vero che il libero è chi governa se stesso; infatti è un sapere razionale, che l’uomo acquista con le proprie forze e gli fa godere del sommo bene, Dio, che essa arriva a conoscere come primo Ente, causa dell’ente.

Per questo essa è un sapere fine a se stesso, non finalizzato a scopi superiori, perché non c’è nulla al di sopra di Dio e non c’è nulla di meglio della contemplazione di Dio.  Tuttavia è un sapere divino, degno di Dio, per cui, se essa è il supremo sapere della ragione, appare anche come sapere superiore all’umano, dato che Dio trascende l’uomo. Per dirla con Jaspers, la ragione «naufraga» davanti a Dio, ma per dirla con Leopardi, è «dolce naufragar in questo mare».

Essa quindi non è ordinata all’utile o al fare o all’agire per il proprio bene, ma per essa l’uomo trova il proprio bene nel finalizzarsi a Dio. Essa infatti è un sapere degno di Dio. Ma a causa di ciò è in qualche modo un sapere sovraumano, giacchè Dio è trascendente. Tuttavia essa nel contempo orienta l’uomo al conseguimento del fine ultimo che è Dio e fornisce quindi il sapere morale necessario per raggiungerlo.

L’uomo, d’altra parte, osserva sempre Tommaso con Aristotele, con le sue miserie, non riesce ad avere di questo sapere sublime un possesso sicuro. Da qui gli scoraggiamenti e gli scetticismi. Da qui le illusioni e le stolte vanterie: l’uomo s’accorge che la metafisica è un sapere divino e montatosi la testa come Icaro o invaghitosi del proprio pensare come Narciso o sopravvalutando le proprie forze come Prometeo, pretende di possedere tout court a priori la scienza e onnipotenza divine diventando quegli «empi» dei quali parla il libro della sapienza (Sap 1,16), «che invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica e consumandosi per essa e con essa concludono un’alleanza, perché son degni di appartenerle».

 Tommaso distingue così l’ente comune dall’ente in quanto ente[9]. L’ente comune è il massimo genere logico, il più astratto di tutti, che ha sotto di sé le differenze, per esempio, finito e infinito, creato e increato, mutevole e immutabile, materiale e spirituale, necessario e contingente, possibile e attuale, ecc.

L‘intuizione dell’ente porta con sé naturalmente e include implicitamente e virtualmente la percezione di un insieme ordinato e sistematico di distinzioni ontologiche, elementari, primarie e spontanee, note a tutti, che fanno il contenuto della metafisica, nozioni chiare e misteriose ad un tempo, base irrinunciabile e necessaria di tutte le altre, nozioni innegabili e irrisolvibili, evidenti, intuitive, all’interno dell’ente, le quali, pertanto, non necessitano di essere spiegate, definite o dimostrate o motivate, ma semmai simboleggiate o descritte, per cui o si capiscono o non si capiscono. Ma non si capiscono perché non le si vuol capire o si capiscono senza rendersene conto.

Esse sono la distinzione fra l’essere e il non-essere, fra l’essenza e l’essere, fra la sostanza e l’accidente, fra l’univoco e l’analogo, fra le categorie e i trascendentali, fra il finito e l’infinito, fra l’effetto e la causa, fra l’agente ed il fine, fra lo spirito e la materia, fra il necessario e il contingente, fra il possibile e l’attuale, fra il possibile e l’impossibile, fra il relativo e l’assoluto, fra l’ideale e il reale, fra il pensiero e l’essere, fra l’essere e il divenire, fra l’essere e l’agire, fra l’essere e l’apparire.

Chi qui nega, confonde o contrappone, si confuta da solo perché per prender tale posizione è costretto ad usare queste stesse distinzioni che vorrebbe negare o non vuol capire.

La distinzione già presente in Aristotele (l’on e l’alethés) tra ente reale ed ente di ragione o ideale, la rappresentazione e il rappresentato, è poi connessa in Tommaso al realismo gnoseologico che distingue l’ente extramentale (ens extra snumam) dall’ente mentale (ens in anima), che spiega come sia possibile che nel conoscere, mentre l‘intelletto è distinto dal reale, il contenuto conoscitivo è lo stesso nella mente e fuori della mente.

Ma è necessario ammettere questo, distinguendo appunto l’essere intenzionale rappresentativo (esse intentionale, similitudo entis, verbum interius) dall’essere reale (res), cosa necessaria perché sia possibile la verità del sapere, giacchè, se ciò che ho nella mente non è ciò che c’è nella realtà, vuol dire che sono nell’errore. Dice infatti Aristotele che «non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra».

Gli idealisti, confondendo le due cose, materializzano il pensiero che diventa la pietra (la materia pensante di Locke), e vanificano la pietra, rendendola una loro idea (l’esse est percipi di Berkeley). La differenza fra realisti ed idealisti si può ridurre a queste semplici definizioni, che per il realista oggetto del sapere è la realtà, per l’idealista è l’idea.

L’ente logico, immanente alla ragione, il concetto (ens rationis), è dunque distinto dall’ente in quanto ente (ens reale), ossia l’ente metafisico, è sovragenerico, ossia analogico, è uno e molteplice, perchè contiene in sé implicitamente le sue differenze, non astrae completamente da esse, altrimenti, se esse dovessero star fuori dall’ente, dato che fuori dall’ente non c’è nulla, essere sarebbero nulla, come succede nell’essere di Parmenide.

Potremmo chiederci dove Tommaso ha attinto l’ispirazione per la sua sublimazione della metafisica di Aristotele e come ha potuto trovare in essa il materiale migliore per l’edificazione della metafisica cristiana. La risposta è molto semplice e molto logica: penetrando nella conoscenza degli insegnamenti metafisici di Cristo.

Tommaso, come nessun altro Dottore della Chiesa, ha capito con tanta profondità ed esattezza la metafisica di Cristo, ha scoperto Cristo come metafisico, cosa alla quale nessuno come lui e quanto lui, prima e dopo di lui hanno pensato. È meditando sulla Parola del Signore che Tommaso ha potuto capire come utilizzare, valorizzare, correggere e completare Aristotele in metafisica.

È strano che finora a nessun filosofo cattolico sia venuto in mente di mettere in evidenza le nozioni metafisiche di Cristo, quelle che hanno fatto da stella polare a Tommaso per l’edificazione della metafisica cristiana.

Non so quanto ci sono riuscito, anche perché non disponevo di opere di questo genere che mi avessero preceduto, alle quali rifarmi. Ma altri potranno fare meglio di me. È un debito che abbiamo tutti verso Nostro Signore Maestro di verità.

Nessuno infatti ha mai pensato a Cristo come metafisico: lo ha scoperto Tommaso e io non ho fatto altro che mettere in luce le nozioni metafisiche di Cristo alle quali si è ispirato l’Aquinate e che gli sono servite per vedere che cosa nella metafisica di Aristotele si poteva raccogliere. Ho pensato io col mio libro a far capire questa operazione di Tommaso, libro che avrei voluto intitolare La metafisica di Gesù, se l’Editore, forse per il timore che il libro apparisse strano e poco vendibile, non lo avesse intitolato Gesù Cristo fondamento del mondo[10].

La metafisica nasce dal sapere spontaneo della ragione

La nozione dell’ente metafisico, quindi, non è la più semplice, come crede il Beato Duns Scoto, perché l’ente è composto di elementi ancora più semplici, il soggetto, ciò che esiste, (quod est), essenza (quidditas, quid est, essentia) ed essere (an est, esse). Tommaso accoglie da Aristotele che l’ente non ha quindi un unico significato, ma «si dice in più modi» (pollacòs legòmenon), è una nozione analogica, senza per questo diventare equivoca perché, benchè diversificata, tende comunque all’unità, si volge all’unum, universale, versus-unum.

In tal modo questa nozione è implicitamente presente nella mente del fanciullo sin da quando egli forma le sue prime nozioni tratte dall’esperienza sensibile. Egli s’interessa dell’essenza di ciascuna cosa e comincia a nominarla. Ma non è ancora capace di astrarre la nozione di ente, che per lui è troppo universale, anche se ovviamente pensa sempre nell’orizzonte dell’ente. Il fanciullo non usa la parola ente, perché non ha ancora la nozione esplicita dell’ente, che ottiene solo il metafisico e comunque l’adulto per mezzo di un opportuno processo astrattivo.

Il fanciullo, quindi, ha già la nozione dell’ente, ma siccome non ne è cosciente, non sa nemmeno far uso della parola ente e non ne conosce coscientemente il significato. Invece usa con disinvoltura il verbo essere, il che fa capire che ha già intuìto che cosa è l’essere.

E coniugando il verbo essere al presente e nei suoi tempi, il bambino mostra di saper distinguere l’essere temporale dall’essere come tale. Col concetto dell’essere il fanciullo capisce l‘opposizione dell’essere al non-essere, e quindi sa che cosa è il nulla e ciò si ricava dal fatto che sa usare la parola nulla o niente[11].

Aristotele inoltre vedeva nell’einai solo la copula del giudizio e aveva capito che la verità del pensare è connessa col giudicare se una cosa o ente esiste o non esiste. Ente, di per sé, indica l’essenza, ma non afferma o nega la sua esistenza: per questo occorre il predicato dell’essere o dell’esistere.

Tuttavia Aristotele non sapeva concepire l’essere (einai) se non come congiunzione di soggetto col suo predicato nel giudizio. Invece Tommaso, nel commentare questa tesi di Aristotele[12], osserva che l’essere non significa principalmente la sintesi del giudizio, ma significa innanzitutto «ciò che cade nell’intelletto nel modo di attualità assolutamente; infatti, detto semplicemente, significa essere in atto; e quindi significa a modo di verbo». L’essere quindi significa già da solo, per conto proprio, indipendentemente dal fatto che sia la copula del giudizio. Tommaso potrà dir questo alla luce della Scrittura, dove l’essere sussistente diventa addirittura l’essenza di Dio (Es 3,14).

L’essere ha significato da se stesso senza bisogno di un soggetto del quale sia predicato, perché in Dio e come Dio è soggetto per se stesso e da se stesso, e senza bisogno che sia determinato da un predicato, perché è il predicato di tutti i soggetti.

Tommaso esplicita dunque la nozione aristotelica dell’ente alla luce dell’essere. L’ente è l’esistente, ciò che esiste o può esistere, è ciò che ha un’essenza in atto d‘essere, ciò che ha l’essere in un’essenza. Tommaso accoglie la distinzione aristotelica fra ente come pura forma (usìa coristè), corrispondente al puro spirito o all’angelo e l’ente come sinolo di materia e forma. L’ente può partecipare dell’essere oppure può essere essere per essenza, essere sussistente, Dio.

La metafisica tomista, come quella aristotelica, è realista, cioè l’oggetto del conoscere non è l’idea, il concetto, il pensiero, il pensare, il pensato, l’io, la coscienza, lo spirito o cose del genere, ma è il reale esterno materiale e spirituale, sensibile e intellegibile, reale oggettivo, ossia che gli sta davanti (ob-jectum) e fuori del pensiero (extra animam), perché il nostro intelletto non produce la realtà, ma la rappresentazione (species, eidos) o immagine (similitudo, imago) della realtà; è questa che è nella mente, non la realtà in se stessa, che non è prodotta dalla mente, ma è creata da Dio, creatore pure della mente.

La realtà, dunque, ha il primato sull’idea; l’essere trascende il pensiero. Un ente può essere l’attuazione di un’idea pratica; ma è l’ente ad essere la misura del pensare; non è l’uomo, come credeva Protagora, soggettivista ed idealista ad un tempo. Già Platone confuta Protagora chiarendo che non l’uomo, ma Dio è la misura di tutte le cose.

Aristotele considera inoltre l’ente principalmente come sostanza, ma non considera l’atto d’essere (actus essendi).  Tommaso mantiene l’ente come oggetto della metafisica ma precisa che non si tratta del semplice ente, ma dell’ente esistente in atto, col suo atto d’essere.

D’altra parte la metafisica non diventa, con Tommaso, una metafisica dell’essere, come pensarono Bonaventura, Rosmini e Bontadini, perché porre l’essere come oggetto della metafisica comporta il rischio di sostanzializzarlo. Ora solo l’essere divino è sussistente. Quindi si corre il rischio del panteismo.

Formiamo il concetto dell’essere

quando cominciamo ad usare il verbo essere

 L’essere sta di fronte all’intelletto di chiunque. L’essere però non ci appare subito all’inizio del funzionamento del nostro intelletto, giunti all’età di ragione. Iniziamo infatti col concepire degli enti che cadono sotto i nostri sensi, ma senza ancora scoprire il fatto che essi esistono, per cui non ci viene ancora da pensare al loro esistere o al loro essere. Cominciamo ad avere coscienza del nostro io, ma non ancora del suo esistere. Pronunciano dei nomi, ma non usiamo ancora i verbi.

Ma ecco che a un certo punto improvvisante il nostro intelletto comincia a formare una frase, un giudizio che comporta l’uso della parola «è», la terza persona del verbo essere. Questo è il segno che abbiamo scoperto l’essere!

Tutti sappiamo, almeno implicitamente, che cosa è l’essere. Ciò appare evidente dall’uso del verbo essere. L’essere è ciò che intendiamo quando usiamo il verbo essere all’infinito. Dal punto di vista grammaticale, l’ente è il participio presente del verbo essere. E l’essenza è l’astratto del termine «ente» così come bontà è l’astratto del termine «buono».

Per la scoperta della metafisica, fondamentale è l’uso delle prime tre persone del verbo essere: io sono, tu sei, egli è, un uso che appare già nella prima infanzia. Mentre parlando di persone umane aggiungiamo un predicato, per esempio, io sono un bambino, la Scrittura ci insegna che queste voci del verbo essere, usate per designare Dio, l’essere sussistente, sono prive di predicato: Io Sono ed Egli È (Colui Che È) sono predicati che Dio assegna a Se stesso. Invece il predicato Tu Sei lo assegna a Dio l’orante nella preghiera[13].

La metafisica è un sapere per invenzione, non per apprendimento, come sono le scienze sperimentali, storiche e positive. Il fanciullo capisce da solo che cosa è l’essere al sentir pronunciare un giudizio; nessuno glielo insegna; dopodiché comincia ad usare il verbo essere, che esprime appunto nella parola ciò che la mente del fanciullo ha intuìto. Siccome tutti usiamo il verbo essere, è chiaro che tutti sappiamo che cosa è l’essere, anche se non riusciamo a darne la definizione. Si può pero descrivere, come fa San Tommaso[14].

Questa è la prestazione della metafisica non più originaria, intuitiva ed elementare del fanciullo, ma elevata allo stato di scienza nel metafisico. La metafisica a questo livello si impara da un maestro, per apprendimento. Occorre la scuola. Così si è formata e sviluppata, in un continuo progresso secolare, soprattutto a partire dal sec. XII, la filosofia scolastica cattolica approvata, autorizzata, promossa, protetta e raccomandata dalla Chiesa, fino ai nostri giorni, sempre incompresa, derisa e disprezzata da tutti gli eretici, gli stolti, gli ignoranti e i ciarlatani.

È la metafisica critica, cosciente di sé e della propria dignità di sapere razionale supremo e fondante di tutte le scienze, che nulla ha a che vedere con quella caricatura del sapere critico che è il cogito di Cartesio o di Kant o di Fichte o di Husserl.

Bisogna distinguere il predicato dell’essere da quello dell’esistere. L’essere dice perfezione, l’esistere è il semplice essere fuori dal nulla. L’esistere, pertanto, non ha bisogno di un predicato nominale, che fa riferimento all’essenza, mentre l’esistere significa semplicemente fuori dal non-essere. L’esistere può essere attribuito sia a Dio che dalla creatura. Io posso dire io esisto e Dio esiste, perchè non siamo il nulla. Invece io non posso dire semplicemente io sono senza precisare che cosa sono. Di Dio invece possiamo dire semplicemente che Egli È, perché in quell’È c’è già tutto,

Invece il predicato dell’essere ha bisogno di un predicato nominale nella creatura, perchè questo predicato esprime la limitatezza della creatura, mentre Dio non ne ha bisogno perchè è l’essere infinito[15].  Dio può dire di Sé Io Sono. E noi possiamo dire Dio È, Ma io non posso dire di me stesso io sono, né dire semplicemente Socrate è, senza aggiungere un predicato nominale.

Aggiungiamo che con l’intuizione dell’essere prendiamo contatto con la realtà e iniziamo il cammino del sapere e della verità. Ci accorgiamo di pensare e che nostro dovere è quello di adeguare il pensiero e il giudizio all’essere, se vogliamo acquistare conoscenza ed essere nella verità. Ecco dunque che dopo aver iniziato con questo ente, con qualcosa, scopriamo l’ente, la cosa, il reale. Sappiamo che esiste e cogliamo l’essere. Ci chiediamo qual è l’essenza delle diverse cose.

L’ente infatti partecipa dell’essenza come il buono partecipa della bontà.  Partecipa anche dell’essere, così come lo studente partecipa dello studiare e ed è in atto d’essere così come lo studente che sta studiando è in atto di studiare. San Tommaso ci parla dell’essere in un modo magistrale, come ho detto sopra[16], ci dice che cosa intende con la parola essere, comprendiamo e avvertiamo quanto è vero ciò che ci dice, ma non ci dice come si arriva a coglierlo in un concetto. Dice che non è oggetto della semplice apprensione (simplex apprehensio), ma è affermato nel giudizio.

Dunque fa riferimento al verbo essere. Come poi arriviamo a cogliere l’essere e quali espressioni linguistiche usare (esperienza, comprensione, senso, intuizione[17], intellezione), mi pare debba lasciarsi alle preferenze di ognuno. L’importante è intendere l’essere come atto, seguendo San Tommaso e non confonderlo col pensiero. Solo a questa condizione infatti si capisce il senso di Es 3,14 e l’espressione «Io Sono» usata da Gesù.

Semmai l’ipsum Esse può essere oggetto della teologia naturale. Lo stesso Aristotele aveva capito che la metafisica è preambolo alla teologia, ma solo perché considera Dio come causa, fine e motore dell’ente, non come Essere sussistente e creatore. Questi sono di per sé dati metafisici, che però provengono di fatto dalla rivelazione biblica.

Come per Aristotele anche per Tommaso la metafisica conduce alla teologia, perché, se la metafisica è la scienza dell’ente, questo ente è analogico, per cui si predica sia del mondo che di Dio. La nozione di causa è analogica, per cui l’uomo è causa similmente a come Dio causa.

Nello studio dell’ente la ragione passa dall’effetto alla causa, dal sensibile all’intellegibile, dai molti all’uno, dal temporale all’eterno, dal contingente al necessario, dal corruttibile all’incorruttibile, dal mutevole all’immutabile, dal mobile all’immobile, dalla materia formata (il sinolo) alla pura forma sussistente, lo spirito o persona (usìa coristè). Ora appunto Dio è necessario, causa prima, agente primo, sommo bene, motore immobile, persona, spirito, forma sussistente, fine ultimo.

Per quanto riguarda il concetto di Dio, Tommaso, alla luce della Scrittura, vede Dio non solo come Motore immobile, ma come creatore; per conseguenza, Dio come provvidente e conservatore di tutti gli enti da Lui progettati, voluti, creati ed amati, soprattutto l’uomo.

Dio in Tommaso non è solo Autocoscienza assoluta (nòesis noèseos), ma ipsum Esse per se subsistens. Dio è causa creatrice, causa l’essere delle cose, le fa essere, le fa passare dal non-essere all’essere, mentre Aristotele si fermava alla causa del moto o del divenire dell’ente; non s’interrogava sul perché, pur essendo contingenti, esistono. Ha la nozione dell’ente, ma non quella dell’essere, benché il suo realismo, con la percezione del reale extramentale, lo mettesse sulla buona strada. Ma non è riuscito a fare il salto dall’essenza all’essere.

In tal modo Tommaso sostiene la creazione sia della materia che della forma, mentre per Aristotele esse sono dei semplici presupposti. Tommaso si accorge che la dottrina della creazione comporta una distinzione reale nella creatura fra la sua essenza e o suo essere, giacchè l’essenza resta se stessa, anche se solo possibile o privata del suo essere. Tommaso s’accorge quindi dell’accidentalità dell’esistenza dell’ente creato.

L’esistere non gli è essenziale, non lo ha da sé o di per sé, ma è aggiunto da Dio così da farlo passare dalla possibilità all’attualità. In tal modo la creatura non si risolve nel suo esser creata, perché la sua essenza resterebbe tale, come possibile, anche se non fosse creata. L’atto creativo, che s’identica con Dio, è distinto dall’ente creato come la causa è distinta dall’effetto.

 Emerge inoltre con Tommaso la nozione di persona umana, attinta dalla Scrittura, come sussistenza di una natura umana singola, mentre Aristotele si ferma alla considerazione della semplice natura umana; per Aristotele ciò che conta non è l’individuo singolo ma la specie o essenza universale: solo questa può essere oggetto di scienza.

Il Dio aristotelico merita di essere amato, come sommo bene e sommo fine; ma a sua volta non s’interessa se non degli enti più nobili, le forme pure incorruttibili, che superano la dignità dell’uomo mortale. Non si preoccupa di salvare l’uomo dalla corruzione, perché l’uomo è naturalmente corruttibile. A differenza della Scrittura, non ha nulla da rivelare all’uomo in ordine alla sua salvezza, né l’uomo può attendersi da Dio la rivelazione di un piano di salvezza.

Tommaso estende l’uso del ragionare per analogia dall’orizzonte del creato al rapporto fra Dio e il mondo. In tal modo trova un’analogia, dietro suggerimento della Scrittura, tra l’essere, il pensare e l’operare umani e l’essere, il pensare e l’operare di Dio; applica la dottrina platonica delle idee al modo di pensare di Dio, cosa alla quale Aristotele non aveva pensato.

Tommaso si accorge del valore metafisico della dottrina platonica della partecipazione per spiegare i gradi dell’essere e i rapporti della creatura col creatore, in quanto, mentre il creatore è essere per essenza, la creatura possiede un essere per partecipazione.

Inoltre Tommaso vede la possibilità di collegare in una mutua reciprocità la dottrina aristotelica della causalità, che pone il primato della causa sull’ effetto, con quella platonica della partecipazione, per la quale l’effetto partecipa del potere causale della causa.

Il tentativo idealista di mediare fra realismo e idealismo

Il tentativo cartesiano di costruire una metafisica del sum anziché dell’ente, porterà gli idealisti a rinunciare a chiamare il loro sistema come «metafisica», rendendosi conto che solo i realisti avevano il diritto di usare questo termine. Allora, per non confondersi con i realisti, abbandonarono il termine metafisica, per adottare francamente il nome di «idealismo», fino a Bontadini.

Nel contempo, i metafisici cattolici continuarono, nell’insieme, salvo eccezioni, come per esempio Malebranche, ad essere fedeli alla metafisica tomista criticando aspramente Cartesio e gli idealisti del sec. XIX.  Solo in quel secolo in Germania, con Günther, Hermes e Frohschammer, in Francia con gli ontologisti e un Italia con Rosmini, si fece strada l’idea di una possibile conciliazione della metafisica tomista con l’idealismo di Cartesio, di Kant e di Hegel. Ma la Chiesa disapprovò questi progetti perchè solo il realismo e non l’idealismo è compatibile con le verità di fede.

Il tentativo si è ripetuto ai tempi del modernismo, e di nuovo fu disapprovato da San Pio X. Ma certi metafisici cattolici della prima metà del secolo scorso tentarono di nuovo l’impresa: il Card. Mercier pensò di poter collegare S.Tommaso con Cartesio; Maréchal collegò Tommaso con Kant; Rahner pensò di poter identificare l’essere tomista con l’essere di Hegel o quello di Heidegger; Ingarden ed Edith Stein pensarono che la fenomenologia di Husserl potesse servire a introdurre alla metafisica tomista, così come nel conoscere passiamo dalla percezione del fenomeno a quella dell’essenza.

Bontadini credette di poter utilizzare Gentile per inverare lo stesso idealismo e nel contempo per ottenere un compiuto idealismo con un ritorno al realismo parmenideo; altri hanno pensato di accostare l’essere tomistico a quello severiniano, così da vedere in questo il significato radicale dello stesso essere tomista, che ne sarebbe una derivazione realista.

Non possiamo negare in questo confronto alcuni punti di contatto fra realismo ed idealismo: entrambi sanno che lo spirito comporta un ritorno su di sè, entrambi pongono a tema Dio, il reale, l’ideale, l’essere, il divenire, lo spirito, il trascendentale, il pensiero, la certezza, il sapere, la verità, la libertà, l’oggettività, la ragione, l’io, l’autocoscienza, la persona, l’assoluto, l’eterno, l’infinito, la totalità, l’unità, l’universale. Dove sta l’insanabile contrasto, l’errore di fondo dell’idealismo? Nella confusione del pensiero con l’essere, confusone che, come nota S.Tommaso, comporta due aspetti: uno che riguarda l’oggetto del pensiero e l’altro che riguarda l’essenza del pensiero.

Nel primo caso si ha la riduzione dell’essere a pensiero: oggetto del pensiero non è l’essere, ma lo stesso pensiero. O, per esprimerci come si esprime Tommaso, non le cose, non la realtà, ma le nostre idee sono l’oggetto del nostro conoscere[18]. Qui Tommaso dimostra gli inconvenienti che ne seguono.

Nel secondo caso il pensiero è identificato all’essere, sicchè nel conoscente il pensare è il suo stesso essere. Ora ciò – dimostra San Tommaso – è lo stesso pensare divino, coincidente col suo essere[19]. Per cui l’idealista identifica il pensare umano al pensare divino. È lo gnosticismo, che peraltro comporta anche l’identità dell’essere umano con l’essere divino e quindi il panteismo.

Si è voluto vedere nell’idealismo la fondazione e la stessa condizione di possibilità del realismo e in questi un primo approccio al reale, introduttivo alla visione critica della realtà, che sarebbe data dall’idealismo. Senonchè, come dice giustamente il Maritain, dopo una serrata confutazione dell’idealismo, tra realismo e idealismo bisogna scegliere come si sceglie tra il vero e il falso[20], come dobbiamo scegliere tra il nostro io che si fa Dio e Dio che crea il nostro io.

Fine Seconda Parte (2/6)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 marzo 2024

La metafisica, ci spiega sempre San Tommaso al seguito di Aristotele, è altresì un sapere sommamente libero ed espressione di libertà.

È un sapere divino, degno di Dio, per cui, se essa è il supremo sapere della ragione, appare anche come sapere superiore all’umano, dato che Dio trascende l’uomo. Per dirla con Jaspers, la ragione «naufraga» davanti a Dio, ma per dirla con Leopardi, è «dolce naufragar in questo mare».

Nessuno ha mai pensato a Cristo come metafisico: lo ha scoperto Tommaso e io non ho fatto altro che mettere in luce le nozioni metafisiche di Cristo alle quali si è ispirato l’Aquinate e che gli sono servite per vedere che cosa nella metafisica di Aristotele si poteva raccogliere. Ho pensato io col mio libro a far capire questa operazione di Tommaso, libro che avrei voluto intitolare La metafisica di Gesù, se l’Editore, forse per il timore che il libro apparisse strano e poco vendibile, non lo avesse intitolato Gesù Cristo fondamento del mondo, Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019.

Importante è intendere l’essere come atto, seguendo San Tommaso, e non confonderlo col pensiero. Solo a questa condizione infatti si capisce il senso di Es 3,14 e l’espressione «Io Sono» usata da Gesù.

Dio in Tommaso non è solo Autocoscienza assoluta (nòesis noèseos), ma ipsum Esse per se subsistens. Dio è causa creatrice, causa l’essere delle cose, le fa essere, le fa passare dal non-essere all’essere.

Immaginde da Internet:
- Gesù Cristo, Catacomba di Commodilla


[1] Alcuni trattati di metafisica tomista: Tommaso Maria Zigliara, Ontologia, in Summa philosophica, Beauchesne, Parigi 1926; Vincenzo Remer, Ontologia, Edizioni della Pontificia Università Gregoriana, Roma 1932; Jacques Maritain, Sept leçons sul l’être et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934; Josephus Gredt, Metaphysica, in Elementa Philosophiae aristotelico-thomisticae, Herder&Co., Friburgi in Brisgoviae 1937, 2 voll.; Sofia Vanni Rovighi, Metafisica, vol.II degli Elementi di filosofia, Editrice La Sculola, Brescia 1962; Paul-Bernard Grenet, Ontologia, Paideia Editrice, Brescia 1967; Marie-Dominique Philippe, L’Être. Recherche d’une philosophie première, Editions P.Téqui, Paris 1972; Tomás Alvira-Luís Clavell-Tomás Melendo, Metafisica, Le Monnier, Firenze1987; Adriano Alessi, Metafisica, LAS, Roma 1989; Abelardo Lobato, Ontologia, Edizioni dell’Angelicum, Roma 1981, 2 voll.; Battista Mondin, Ontologia metafisica, Edizioni ESD, Bologna 1999; Saturnino Muratore, Filosofia dell’essere, Edizioni San Paolo, Milano 2006; Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.

[2] Cf Umberto Degl’Innocenti, Il problema della persona nel pensiero di S.Tommaso, Edizioni PUL, Roma 1967; Aimé Forest, La structure métaphysique du concret selon Saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1956.

[3] Per questo il Concilio Vaticano I definisce Dio «una singularis substantia» (Denz.3001).

[4] In XII libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, l.II,c.I, lect.II, n.298, Editrice Marietti, Torino-Roma 1964, p.85.

[5] Ibid., n.343.

[6] Se così stessero le cose, come farebbero gli animali a riconoscere le cose come sono?

[7] Per questo, quei teologi come i luterani, che vogliono fare teologia senza servirsi della metafisica non fanno teologia ma ideologia, mitologia, aneddotica e favolistica.

[8] Con ciò noi abbiamo l’aggancio al concetto biblico di sapienza (hokmà) attorno al quale si raccolgono i libri sapienziali, quella Sapienza creatrice, che è lo stesso Logos divino. Quindi chi pretende, come Lutero, di opporre la metafisica di Aristotele e San Tommaso alla sapienza biblica, dimostra di non aver capito né l’una né l’altra.

[9] Commento alla Metafisica di Ariistotele,  Prooemium.

[10] Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019.

[11] Non c’è bisogno di risolvere l’essere nel tempo come fa Heidegger per apprezzare la temporalità dell’essere, giacchè non esiste solo l’essere temporale, ma anche quello eterno. È ciò che Edith Stein fa notare ad Heidegger col suo poderoso studio Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Città nuova, Roma 1988. Il divenire non è un’alternativa all’essere, ma non è altro che l’essere diveniente, che viene espresso nei tempi del verbo essere.

[12] Commento al Perì Hermeneias di Aristotele, libro I, c.III, lect.V, nn.70-72, Edizioni Marietti, Torino 1964, pp.28-29.

[13] Vedi il Canone della Messa «In eterno Tu Sei nel tuo regno di luce infinita»; «Da sempre e per sempre Tu sei, Dio» (Sal 90,4).

[14]Vedi i passi di Tommaso citati da Cornelio Fabro in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969, pp.111-113.  

[15] Ciò non toglie, come si fa in teologia naturale e come fa la Scrittura, che si possano e si debbano attribuire a Dio dei predicati nominali (bontà, eternità, onnipotenza, infinità, sapienza, immutabilità, ecc.), ma può bastare anche il solo essere, perché nell’essere divino c’è tutto e ogni perfezione.

[16] Nota 12.

[17] Cf Benôit-Marie Simon, Esiste una «intuizione» dell’essere? Edizioni ESD, Bologna 1995. L’Autore esamina le posizioni del Garrigou-Lagrange, del Maritain e del PadreMarie-Dominique Philippe.

[18] Sum.Theol., I, q.85, a.2.

[19] Ibid., q.14, a.4.

[20] Distinguer pour unir. Les degrés di savoir, Desclée de Brouwer,Bruges 1959, p.195.

2 commenti:

  1. Mi corregga, Padre, se sbaglio il cuore della questione: la questione idealismo/realismo consiste nello stabilire se l’Assoluto, ciò da cui dipende il mondo e il nostro pensiero, sia il pensiero umano o qualcuno altro. Se è vera tale premessa, potrebbe individuare il punto chiave, o i punti chiave, che la mente umana, filosofica, dovrebbe cogliere innegabilmente per affermare che il pensiero umano non è in grado di porre né se stesso né il mondo e gli argomenti che invece l’idealismo oppone nel sostenere il contrario? Sarebbe anche interessante sapere perché tali argomenti non sono efficaci per dimostrare l’idealismo. D’altra parte mi verrebbe da pensare anche che, visto che di idealismo/realismo si continua a discuterne, sia difficile per la mente umana, filosofica sapere appunto da chi hanno origine il mondo e il pensiero umano. Rinnovo i miei ringraziamenti, Padre Cavalcoli e i miei riveriti saluti. Francesco Orsi

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    1. Caro Francesco,
      l’idealismo trae tutto il suo fascino dalla considerazione della grandezza e della potenza del pensiero. Egli lo vede come un qualcosa di assoluto, di infinito e di eterno. L’idealista quindi sa bene che cosa è lo spirito ed è portato a concepire il pensiero come autocoscienza. Ma poi, che cosa gli capita? Che, affascinato in questo modo dalla potenza del pensiero, che include ed immanentizza in se stesso l’essere, dimentica che certamente l’uomo ha la facoltà di pensare, ma nell’uomo il pensiero non è l’assoluto, ma è l’effetto intermittente di una facoltà, che ora si attua e ora non si attua, mentre d’altra parte l’oggetto del pensiero, ossia l’ente, non è di per sé immanente al pensiero, come avviene nel pensiero assoluto o divino, ma l’ente si trova esterno al pensiero e da lui indipendente. Da qui la confusione del pensero umano col pensiero divino.
      La confutazione dell’idealismo consiste nel dimostrare la distinzione tra queste due forme del pensare.
      Infatti, il pensiero umano è creato, mentre il pensiero divino è creativo. Perché, questo? Perché, mentre il pensiero divino coincide con l’essere, per cui Dio è ad un tempo essere e pensiero sussistente, nell’uomo il pensare è un accidente del soggetto e l’essere è esterno al pensare. Quindi l’uomo non è il creatore delle cose, ma le trova già esistenti indipendentemente da lui.

      L’argomento che l’idealista porta per dimostrare l’idealismo, non ha valore perché egli confonde l’ente pensato, in quanto pensato o in quanto presente nella sua coscienza, con l’ente reale ed esterno, al quale ha attinto per ricavare il suo concetto ossia il suo essere pensato, immanente alla sua cosciente. In poche parole, confonde l’idea con la realtà.
      Inoltre, dato che noi avvertiamo che la realtà non ha origine dal nostro pensiero, si pone il problema della causa dell’esistenza della realtà. E la risposta a questa domanda è che Dio preconcepisce in se stesso col suo intelletto e fa esistere con la sua volontà la stessa realtà, che crea o trae dal nulla.

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