Sulla questione della direzione spirituale - Seconda Parte (2/3)

  Sulla questione della direzione spirituale 

Seconda Parte (2/3)

Il direttore spirituale svolge un ruolo speciale

nell’aiutare il giovane a scoprire la propria vocazione.

In linea di massima non spetta al sacerdote proporsi a un fedele come guida spirituale. Quello che può capitare è che nell’amministrare il sacramento della Confessione, per esempio a un giovane, il sacerdote s’accorga di capire a fondo l’anima di quel giovane, anche perché questi si sente portato a non limitarsi alla denuncia dei peccati, ma, scoprendo di essere profondamente compreso dal confessore, che gli ispira fiducia, avverte la possibilità di trovare in lui un aiuto per far chiarezza sulla volontà di Dio su di lui. Il giovane può scoprire da sè la propria vocazione oppure può essere lo stesso confessore che, avendo intuìto la vocazione del giovane, gli manifesta che cosa vuole Dio da lui.

Nell’opera formatrice dei seminaristi o dei novizi e dei frati in formazione degli Istituti religiosi può essere opportuno, utile o necessario che l’opera del direttore spirituale sia affiancata da quella dello psicologo. Tuttavia oggi certi Superiori sono troppo facili a rivolgersi allo psicologo e tendono a dargli troppa importanza, credendo che egli possa avere un discernimento circa le attitudini spirituali e morali cristiane o la vocazione dell’alunno, discernimento che in realtà appartiene solo al sacerdote.

Può però capitare che il giovane mostri qualche segno o qualche comportamento tali da richiedere il parere di un buon psicologo. Questi tuttavia deve stare strettamente entro i limiti della sua specifica competenza, senza travalicarli e chiedere alla sua competenza più di quanto essa può dare.

Infatti la competenza dello psicologo abbraccia tutta l’area della vita psicoemotiva e la motilità neurofisica del soggetto, ma non raggiunge l’area delle funzioni spirituali della coscienza, dell’agire morale, dell’intelletto e della volontà, soprattutto nel campo della condotta di fede, campo molto più delicato, di stretta competenza del sacerdote o comunque della direzione spirituale.

Comunque sia, io ricordo che da novizio il Padre Maestro voleva sottopormi ad un esame della mia dimensione psichica mediante l’uso del metodo Rohrschach, la cui capacità interpretativa è suppergiù quella del livello della lettura della mano fatta dalla chiromante o dell’oroscopo delle riviste a rotocalco. 

Io mi sentii profondante offeso ed umiliato, considerando soprattutto che mi trovavo in una Casa di formazione domenicana, dalla quale avevo tutto il diritto di attendermi formatori che ispirassero i loro criteri valutativi alla psicologia tomista e non a miserabili superstizioni, tanto più che già da dieci anni studiavo la psicologia tomista.

Il direttore non deve tollerare i difetti del diretto per compiacergli e impedire che lo abbandoni; deve invece dirgli chiaramente, anche se con tatto e delicatezza, senza umiliarlo, qual è la sua situazione e di quali medicine ha bisogno, anche se il diretto non ritiene di essere malato, pronto anche ad essere abbandonato.

L’aiuto che ricevetti dal mio direttore spirituale

nella scoperta della mia vocazione domenicana.

Ricordo che io a circa 16 anni di età, dopo essermi imbattuto in Cartesio – la più grande disgrazia che mi sia capitata nella mia vita - al secondo anno di liceo classico, rimasi sconvolto dal sofistico dubbio di Cartesio che le idee che abbiamo delle cose esterne non corrispondano alle cose stesse. Cartesio infatti considerava un falso pregiudizio ragionare a questo modo. Mi turbò inoltre profondamente la sua tesi che i sensi ingannano, per cui di essi non ci si può fidare. Faticavo a rispondere a queste due tesi, a vederne la falsità. Rischiavo di perdere la fiducia nella verità della conoscenza. Quindi una crisi di scetticismo.

Il cogito cartesiano non mi diceva assolutamente nulla: io penso. Ma se non penso delle cose esterne, della cui esistenza dubito, che senso ha il pensare? Io esisto? Ma se che esisto lo ricavo dal fatto che penso e se il pensare cartesiano è un pensare vuoto, un pensare senza le cose pensate, anche il pensare è nulla e il mio esistere è nulla. Quindi il dubbio sulla mia esistenza. Ancora nichilismo.

Sorse pertanto in me il problema di quale valore poteva avere il mio esistere. Mi venne in mente l’idea che esistere o non esistere fosse la stessa cosa o fosse indifferente. Era l’esistenzialismo sartriano. Mi pareva che l’esistere non aggiungesse nulla al nulla. Ero diventato un nichilista. Ma non era finita. Se era indifferente esistere o non esistere, era indifferente vivere o morire, mantenersi in via o togliersi la vita.

I miei pii genitori, allarmati, si accorsero della crisi nella quale mi trovavo, benché non abbia mai smesso di andare a Messa. Tuttavia Dio suggerì loro di esortarmi ad esporre i miei problemi al mio insegnante di religione, il dotto e santo don Giovanni Buzzoni, dal quale trovai subito luce e conforto, perché mi mostrò la dignità del mio esistere facendomi riflettere che io ero qualcosa, che non potevo non determinarmi in un senso o nell’altro. Ero qualcosa (aliquid), dunque ero un ente, una realtà. Così Don Giovanni distruggeva il nichilismo al quale conduce Cartesio per sostituirlo con l’ente tomistico. Il reale era riconquistato!

Questa fu la base sulla quale Don Giovanni cominciò a ricostruire il mio pensiero distrutto da Cartesio. Il pensiero non pensa sé stesso, ma pensa l’ente, il reale fuori di me (extra animam), sensibile o spirituale che sia. Dunque la verità della conoscenza (adaequatio intellectus et rei) era riconquistata, contro il dubbio cartesiano.

Era nel contempo la scoperta del principio d’identità dell’ente, di ogni ente, principio d’identità e di non-contraddizione, del quale quello stolto di Cartesio si prendeva gioco. Riconquistato l’ente, Don Giovanni mi mostrò che l’ente agisce: io agivo, mi autodeterminavo come qualcosa. Passò allora all’affermazione del principio di causalità e a quello di finalità: l’ente agisce, ed è causa che produce un effetto per un fine, che è buono ed amabile. Ecco dunque il principio della morale. Era la rimessa in moto, la rivitalizzazione del mio spirito inaridito e paralizzato dal nichilismo e dallo scetticismo.

Il lumicino che mi era rimasto in tante tenebre, principio di salvezza capace di utilizzare la salvezza che mi veniva da Don Giovanni, era l’umiltà. Che cos’era infatti che mi turbava in Cartesio se non la sua superbia? Che cosa è infatti questo io cartesiano ripiegato su sé stesso se non superbia? Che cosa è questo rifiuto di accettare le cose esterne, dalle quali si ricava l’esistenza di Dio, se non la superbia dell’ateo? Che cosa è allora tutta la religiosità di Cartesio se non un’immensa ipocrisia?

Viceversa, che cosa era l’adaequatio intellectus et rei che mi proponeva Don Giovanni se non l’incoraggiarmi nell’umiltà e nel mio rifiuto della superbia cartesiana? Che cosa è infatti l’umiltà se non obbedire a ciò che ti dicono le cose esterne, che ti guidano verso Dio? Che cosa è il rifiuto di riconoscere le cose come sono se non disonestà? Non avevo perduto il bisogno di onestà e l’apprezzamento dell’onestà che mi avevano insegnato i miei genitori.

Che vantaggi dà la doppiezza? Che vantaggi dà l’astuzia? Che vantaggi dà l’ipocrisia? Questa era l’eredità che avevo ricevuto dai miei genitori e che, grazie a Dio, ero riuscito a conservare nonostante la tentazione al nichilismo.

Del resto, qual è la fine dell’esaltazione cartesiana dell’uomo se non l’autodistruzione dell’uomo? Diceva bene Don Barsotti: l’ateo, se fosse coerente, dovrebbe uccidersi, giacché, se odia Dio come principio dell’essere, dovrebbe odiare anche quell’essere, cioè l’uomo, che deriva da Dio.

Pieno dunque di gioia, venni fuori dalle «tenebre e dall’ombra della morte» (Sal 107,10) e la vita tornò in me. Tornai ad apprezzare la verità, il pensiero, l’essere e il vivere. E da qui l’agire, la prassi, l’amore, la libertà. Mi ero liberato per sempre di Cartesio per aprirmi al realismo tomista. Infatti, quel sacerdote era un maritainiano.

Gli chiesi allora entusiasta dove e come avrei potuto chiarire, approfondire e rinsaldarmi in questi princìpi. Ed egli, come il buon medico che prescrive la medicina, mi disse: devi studiare la metafisica. Sentita questa parola e mettermi immediatamente a studiare la metafisica, naturalmente quella tomista, che per il momento Don Giovanni mi mediò attraverso Maritain, fu un tutt’uno. Ma non passarono quattro anni che cominciai ad affrontare direttamente i testi di San Tommaso. E da allora fino ad adesso non ho mai cessato di diventare sempre più ferrato in metafisica.

Naturalmente dalla frequentazione con Don Giovanni, che scelsi anche come Confessore, rinacque la mia fede cattolica periclitante, giacché è chiaro che se uno dubita della verità, non può non dubitare della fede, che è verità. Ma se la ragione funziona, allora vive anche la fede, che suppone e supera la ragione.

Ma il bello è che la scoperta della metafisica coincise esattamente, in germe e senza che allora me ne rendessi conto, a quella che 14 anni dopo sarebbe stata la mia vocazione domenicana tomista.

Don Giovanni comprese dunque la mia attitudine alla metafisica e la favorì facendomi leggere le opere di Maritain e all’età di 19 anni passai a San Tommaso, che non ho più abbandonato. Ricordo che Don Giovanni, constatando questi miei interessi speculativi, mi disse: «di queste cose dovrebbero occuparsi i Domenicani». Sul momento queste parole non mi fecero un particolare effetto. Eppure era il germe della vocazione che Don Giovanni aveva gettato nel mio cuore. A 30 anni nel 1971 mi feci Domenicano.

Non posso dire d’aver sempre incontrato in esso la stima per la metafisica e per San Tommaso, ma d’altra parte, tutto sommato, devo esprimere la mia profonda gratitudine a questo Ordine, che mi ha formato, perché proprio nei suoi migliori teologi e nei miei maestri ho scoperto una sapienza metafisica assente in altri Istituti religiosi.

Perché ho raccontato tutta questa storia? Per portare l’esempio di una sapientissima guida spirituale. Infatti il lettore non creda affatto che Don Giovanni, grandissimo educatore di giovani, stimolasse le vocazioni proponendo a tutti la metafisica! Tutt’altro: l’arte del direttore spirituale sta nell’individuare i bisogni e le inclinazioni di ciascuno.

E in ciò Don Giovanni eccelleva. Usava un metodo educativo adatto a ciascuno. A me propose la metafisica, perchè si accorse che avevo bisogno di metafisica. Ad altri proponeva mete ben diverse, conformemente a ciò, che nel loro caso, poteva realizzare la loro vocazione.

Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 gennaio 2021

mi mostrò la dignità del mio esistere facendomi riflettere che io ero qualcosa, che non potevo non determinarmi in un senso o nell’altro. Ero qualcosa (aliquid), dunque ero un ente, una realtà 

Il ragazzo dal panciotto rosso (Le Garçon au gilet rouge) -  Paul Cézanne, 1890-1895 -  Zurigo, fondazione Bührle

Ragazzo con giacca blu -  Amedeo Modigliani del 1919 - Museum of Art di Indianapolis, negli Stati Uniti  

Immagini da internet

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