Uomini segni di contraddizione per l’umanità - Seconda Parte (2/2)

 Uomini segni di contraddizione per l’umanità

Seconda Parte (2/2) 

 

La Chiesa è la comunità dei figli di Dio, mossi dallo Spirito Santo,

ma ha le sue basi umane nella cultura greco-romana.

 

Il messaggio di Cristo è un messaggio rivelato da Dio, di una sapienza divina superiore alla ragione e quindi all’opera della ragione, che è la cultura. Tuttavia non è possibile comprendere questo messaggio, che è fatto per l’uomo, senza che l’uomo utilizzi, a tal fine, l’opera culturale della ragione. Per questo la Chiesa cattolica Romana sin dagli inizi si è preoccupata di assumere la cultura romana per l’interpretazione e la spiegazione della Parola di Dio. Successivamente, a partire dal sec. IV, la Chiesa ha cominciato ad utilizzare, per mezzo dei Padri, anche la filosofia greca di Platone ed Aristotele.

All’inizio i Padri preferirono Platone, perché sembrava più spirituale e più religioso di Aristotele. Ma a partire dal sec. XIII, grazie alla segnalazione di Sant’Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino, la Chiesa si accorse che era meglio Aristotele per il suo realismo, per la sua antropologia unitaria, a differenza dell’antropologia dualista di Platone e perché Aristotele, ponendo Dio al termine di un processo conoscitivo a posteriori e non come dato iniziale della coscienza, allontanava meglio di Platone il pericolo del panteismo.

In tal modo insieme col dogma cattolico, nacquero la teologia e la cultura cattoliche. Oggi si parla troppo di culture e troppo poco di cultura. Ora la cultura non è opinione ma scienza. Non è proibito parlare di una pluralità di culture. Esse effettivamente esistono. Ma ai fini dell’unità della fede, per la loro molteplicità non offrono alcun interesse e non incidono affatto nel contenuto oggettivo ed universale della verità di fede cattolica, perché la base razionale della dottrina cattolica nella sua universalità deve essere necessariamente una cultura universale, tale che vada bene per tutti gli uomini in ogni tempo e luogo, quale che sia la loro particolare cultura. Così similmente un trattato di fisiologia o anatomia umana, vale per qualunque individuo della specie umana, non importa che sia medioevale o contemporaneo, americano, europeo o cinese.

Alcuni però a questo punto potrebbero domandarsi: ma allora che senso ha l’inculturazione, della quale parlano insistentemente gli ultimi Papi a partire da San Giovanni Paolo II? Essa è un’utilizzazione delle culture al fine dell’evangelizzazione, utilizzazione, che non esclude affatto il mantenimento e la diffusione della cultura greco-romana nel mondo, come supporto razionale della dottrina della Chiesa. 

Da 2000 anni, come sappiamo, esiste dunque la Chiesa, fondata da Gesù, e perdurante nella successione apostolica sotto la guida del Papa, Successore di Piero, maestra infallibile di verità, assistita dallo Spirito Santo, luce del mondo, capace di confutare tutti gli errori.

Ma ciononostante quegli errori persistono. Non solo, ma le grandi conquiste della Grecia, ossia la sapienza di Aristotele e Platone, nonché il concetto di religione e del diritto lasciatoci dalla civiltà romana, nozioni che erano state integrate dai Padri e dai Dottori nel patrimonio della dottrina cattolica, a partire da Lutero hanno cominciato ad essere respinte in nome di una falsa interpretazione della Chiesa, contraria al dogma cattolico.

Per questo oggi più che mai molti cattolici perdono la fede, sono finti cattolici o abbandonano la Chiesa per altre religioni o per le idee del mondo o la guastano dal di dentro con le loro eresie. È necessaria una vigorosa e convinta ripresa della base razionale della fede che ci è fornita dalla cultura greco-romana, così come essa, per opera dei Padri e dei Dottori, è entrata a far parte del tessuto vivo e perenne della Chiesa, a dar sostanza razionale ai dogmi della fede e dalla dottrina cattolica, mentre nel contempo occorre che, in ascolto di «ciò che lo Spirito dice alle Chiese», la Chiesa sia luce del mondo e sale della terra, in modo tale, che, «innalzata da terra, possa attirare tutti a lei» (cf Gv 12,32).

Vediamo allora brevemente quali sono queste basi filosofiche e giuridiche della dottrina della Chiesa, basi solide ed indistruttibili. È la roccia sulla quale è costruito l’aspetto umano, naturale razionale della Chiesa e del cristianesimo. Questa roccia è confermata e rafforzata dalla Parola di Dio, oggetto della fede. Il piano naturale e quello soprannaturale della dottrinale della vita cristiana costituiscono un solidissimo edificio, contro il quale si accaniscono le forze del male. Occorre che il cristiano rimanga all’interno di questo edificio, che è la Chiesa, la casa del Signore e non esca, perché se no cadrebbe sotto i colpi o nelle insidie del demonio.

Quando dunque Papa Francesco parla di «Chiesa in uscita» non intende che il cristiano per andare verso il mondo debba uscire dalla Chiesa, ma è la Chiesa che, uscita da Dio e venuta come Cristo nel mondo, va verso il mondo per salvarlo e per farlo entrare nella Chiesa, vincendo l’opposizione del demonio. Il cristiano è dall’interno della Chiesa, ben difeso contro il demonio, che deve combattere il demonio e deve chiamare alla Chiesa quel mondo verso il quale è mandato all’interno della Chiesa, che esce verso il mondo.

Aristotele

La teologia di Aristotele, come è noto, segna il vertice della teologia greca, ponendo l’ente primo e sommo alla sommità degli enti. La mente umana ne scopre l’esistenza applicando per analogia il principio di causalità col partire dall’esperienza delle cose e lo scopre ordinatore degli enti composti di materia e forma, nonché Signore della condotta umana, ossia dell’animale ragionevole dotato di libero arbitrio, capace di scegliere fra il bene e il male. 

Da qui la saggezza dell’etica aristotelica, la cui prospettiva è quella di un ragionevole dominio della volontà sulle passioni del corpo, dominio avente per fine l’unità del composto umano, essendo tanto il corpo quanto l’anima componenti essenziali della persona umana.

Per Aristotele l’uomo regola la sua condotta etica personale, sociale e politica sulla base e sul presupposto della sua animalità come componente essenziale della sua natura, per cui la volontà per Aristotele si sforza di accordare negli ambiti suddetti, lo spirito col corpo.

Ne sorge un’etica che tiene conto armoniosamente di tutto l’uomo, anima e corpo, sul piano personale, sociale e religioso, a differenza dell’etica platonica, per la quale il corpo è semplice dato di fatto materiale, col quale lo spirito si scontra, un ostacolo alla sua libertà e dal quale desidera liberarsi per salire o tornare interiormente all’iperuranio a contemplare l’Idea del Bene.

Il Maritain fa notare come per Aristotele

«l’uomo è chiamato a qualche cosa di migliore di una vita puramente umana. Nell’Etica Eudemia leggiamo similmente: “come nell’universo anche nell’anima il principio del movimento è Dio. Ora, il punto di partenza della ragione non è la ragione, ma qualche cosa di più potente. E che cosa vi è di più potente persino della scienza e dell’intelletto, se non Dio? Non la virtù, perché la virtù è uno strumento dell’intelletto”»[1].

Possiamo aggiungere il seguente brano conclusivo della medesima opera[2].

«Dio non è un governante al quale si possa comandare, ma è il fine in vista del quale la saggezza comanda (e la parola «fine» è ambivalente, ed è stata determinata altrove), perché Dio non ha bisogno di nulla. Perciò quella scelta e possesso di beni naturali che conferirà maggiormente alla contemplazione di Dio (siano essi beni corporei o di ricchezze o di amici o di altre cose), sarà la migliore; e questo è dunque il miglior criterio di riferimento; invece qualsiasi cosa che, o per difetto o per eccesso, impedisce di servire o contemplare Dio, sarà cattiva. L’uomo ha questa facoltà nell’anima e questo è il miglior criterio regolatore dell’anima, quello cioè di sentire il meno possibile la parte irrazionale dell’anima in quanto tale».

In questo brano ci par di capire perché Aristotele rifiuta il concetto di sacrificio cultuale e con ciò lo statuto di virtù alla religione, perché, consapevole che Dio non ha bisogno di nulla, per lui non ha senso fare delle «offerte» a Dio, come se dovesse essere risarcito o trarne beneficio. Salvo però ad ammettere che è possibile compiere un’«azione cattiva che impedisce di servire o contemplare Dio».  E quale può essere questa azione che è ordinata servire Dio e alla contemplazione, se non la religione? Tuttavia da una mente eccelsa come quella di Aristotele, ci saremmo aspettati qualcosa di più di queste quattro parole, per giunta soltanto allusive.

Aristotele sembra pertanto non afferrare con chiarezza  che, come poi spiegherà S.Tommaso[3], esiste effettivamente una giustizia verso Dio, che è il fondamento della religione, e che è da intendersi in un modo diverso dalla giustizia che esercitiamo verso il prossimo, il quale sì che può ricevere qualcosa da noi. L’offesa a Dio non toglie qualcosa a Dio, ma toglie la sua grazia a colui che l’offende. Quindi alla fine chi ci perde non è l’offeso, ma l’offensore. Ciò non impedisce alla Bibbia e alla Chiesa di esprimere il peccato contro Dio sul modello del peccato contro il prossimo, fatte le dovute differenze.

Così si può parlare di giustizia nei confronti di Dio, in quanto siamo noi che offrendo il sacrificio, facciamo una cosa giusta e diventiamo giusti noi stessi.  Cristo offrendo il sacrificio di Sé al Padre, ripara al nostro peccato e ottiene che il Padre renda giusti noi stessi per sua misericordia.

Platone

Il filosofo che comunque più sta vicino ad Aristotele è Platone, filosofo di elevato pensiero, ardente per il bene (l’eros platonico), e di spirito ascetico, tanto ammirato da Sant’Agostino e dai Padri Greci. Ma. tutto sommato, la spiritualità platonica, che sembra più alta di quella di Aristotele, fino a raggiungere la mistica, in realtà ha basi meno solide, perché non parte dall’esperienza oggettiva delle cose esterne, delle quali diffida, ma dall’autocoscienza, che certo dà sicurezza, ma il cui mondo non è il reale, bensì l’ideale.

E quindi in Platone c’è una sottile antipatia, diffidenza, disprezzo e insofferenza, dettata da mancanza di umiltà, per la materia e per il corpo, che in fin dei conti falsifica l’unità della persona umana come composta di spirito e corpo. E quindi esagera le esigenze e le possibilità dello spirito umano, come fosse un puro spirito che non ha bisogno di nessun corpo per costituire l’uomo. È troppo comodo, inoltre, dar la colpa alla materia delle deviazioni del nostro spirito e scaricare su di essa quelle che sono le nostre responsabilità. Il peccato, come avverte chiaramente Cristo, proviene dal di dentro dell’uomo, dal «cuore» (Mt 15,19), dallo spirito e non dalle cose esterne.

L’«uomo spirituale» del quale parla San Paolo (I Cor 2,15), e che egli chiama anche «uomo interiore» (II Cor 4,16; Ef  3,16) sembrerebbe potersi accostare all’uomo-spirito di Platone; ma non coincide del tutto. Certo Paolo e Platone fanno riferimento allo spirito umano. Ma mentre la spiritualità paolina è quella dello Spirito Santo, che interiormente vivifica lo spirito umano, che a sua volta anima il corpo, lo spirito platonico appare come spirito preesistente, che, caduto nel corpo, aspira a liberarsene.

Inoltre in Platone la ricerca di Dio ha un tono troppo intimistico, individualistico ed elitario. Sembra che per Platone tutto il problema della vita umana si risolva in un mero rapporto di coscienza fra l’anima e Dio. Non si percepisce l’interesse e l’amore per il prossimo. Manca il rapporto sociale.

Il comunismo statale platonico, per quanto affascinante e continui a sedurre i moderni regimi comunisti, è una mera e pericolosa utopia, è una strampalata elucubrazione da intellettuali, senz’alcuna base reale ed oggettiva. Non c’è alcun rispetto per i diritti individuali, delle comunità intermedie, delle famiglie. È l’illusione il credere di poter realizzare adesso quello che la Bibbia, tolti certi difetti, prevede solo nella vita eterna.

Agostino e i Padri si sono bene accorti di questa grave ombra nella sapienza platonica e si sono premurati di evitarla alla luce della Scrittura, che con la massima chiarezza possibile insegna che non ci può essere amore di Dio senza amore del prossimo.

Non che Platone, sulla scorta di Socrate, non creda a valori morali assoluti di giustizia e di onestà; ma il suo idealismo, nel trattare dei rapporti col prossimo, finisce per giocargli un brutto scherzo: la sua diffidenza nei confronti dell’esperienza sensibile gli fa trascurare che gli altri non sono delle semplici anime, ma corpi animati con bisogni e diritti ben concreti, che ci interpellano tassativamente, se è vero che noi cerchiamo Dio, giacché gli altri  sono appunto creature di Dio, amando le quali soltanto noi possiamo esser certi di avere Dio con noi. 

Il rischio che nasce, allora, nel platonismo, è quello di assolutizzare le proprie idee, sedotti dalla loro sublimità, compresa l’idea di Dio, che non è detto però che corrisponda al Dio reale, per quanto elevata possa essere, se essa non è ricavata da una dimostrazione dell’esistenza di Dio come Causa prima del mondo (cf Rm 1,20; Sap 13,5).

 Giustamente tuttavia nota l’Ipponense che

«i platonici sono giunti a conoscere che l’anima dell’uomo, immortale e ragionevole, non può conseguire la felicità se non mediante la partecipazione alla luce di Colui, dal quale essa e il mondo furono creati, ed ammettono che non possono raggiungere la beatitudine da tutti desiderata, se non coloro che aderiscono con la purezza del casto amore all’unico ottimo, immutabile Dio»[4].

Per questo Platone si fa paladino della religione:

«C’è da temere che se non ci comportiamo bene verso gli dèi, di essere spaccati in due e di andare un giro come le figure modellate di profilo sulle stele, segati a metà lungo la linea del naso, trasformati in contrassegni, come i due frammenti di un dado spezzato. Proprio per questo bisogna esortare ogni uomo ad agire con riverenza riguardo agli dèi, in tutti i punti, al fine, da un lato, di sfuggire a qualcosa e, dall’altro lato, di cogliere qualcosa, secondo che ci guida e ci comanda Eros. Nessuno agisca contro di lui – contro di lui, peraltro, agisce chiunque si renda odioso agli dèi – perché, se diventiamo amici del dio e ci riconciliamo con lui, scopriremo e incontreremo proprio la nostra fanciullezza, il che accade a pochi degli uomini di oggi»[5].

Tuttavia ciò che sta supremamente a cuore a Platone, al di là del sacrificio a Dio, è il poter essere ispirato, mosso ed entusiasmato da Dio, consapevole, come poi lo sarà anche Aristotele, che Dio ci rivela cose che superano la ragione, che sono espresse nella poesia. Da qui, come è noto, l’importanza delle Muse nella spiritualità platonica:

«La Musa infonde divino alito nei poeti e, valendosi di questi, partecipi ormai del divino e ispirati, attira in un divino anelito penduli gli altri uomini, … E un poeta è pendulo alla catena di una Musa, un altro a quella di un’altra»[6].

Ancora sull’ispirazione divina:

«I più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di pazzia (manìa), datoci per dono divino. Infatti appunto la profetessa di Delo, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione, hanno ottenuto per la Grecia tanti benefìci, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o nulla. Tralascio ancora di parlare della Sibilla e di quanti altri profetizzano per ispirazione divina, i quali con le loro anticipazioni hanno spesso e a moltissimi indicato una giusta strada per il futuro»[7].

Tuttavia Platone avverte che occorre distinguere la pazzia vera e propria dalla pazzia indotta dal dono divino:

«Vi sono due generi di pazzia, uno prodotto dall’umana debolezza, l’altro da un divino straniarsi dalle normali regole di condotta. Della pazzia divina abbiamo distinto quattro tipi attribuendoli a quattro dèi: l’ispirazione profetica ad Apollo, quella mistica a Dioniso, quella poetica alle Muse e un quarto tipo che abbiamo definito il più alto, la pazzia d’amore, ad Afrodite e ad Eros»[8].

 E tuttavia Platone pone alla sommità del sapere e quindi come oggetto della teologia e dell’eros, non l’ente reale, ma l’idea del bene e quindi Dio non sta al vertice degli enti, ma dei beni e delle idee. Dunque Dio non come ente, ma come Idea e come Bonum o meglio come Idea del Bene.

Platone non specula, come Aristotele, sotto il segno del reale, ma dell’idea. Platone sente Dio nella sua coscienza, parte dall’Idea di Dio e, sentendosi illuminato da questa Idea, giudica delle cose e dei valori morali. Aristotele invece parte dall’esperienza delle cose e arriva alla conoscenza di Dio e solo adesso, cosciente dell’esistenza di Dio, alla luce di tale coscienza, giudica delle cose e dei valori morali. Platone rischia il panteismo confondendo Dio con la coscienza umana di Dio. Aristotele distingue chiaramente l’uomo da Dio. Nasce il conflitto: o io sono Dio o io sono soggetto a Dio.

Per questo San Tommaso, commentando la critica di Aristotele al «Bene separato» di Platone, scrive:

«Aristotele non volle che quel bene separato fosse l’idea o la ragione di tutti i beni, ma che il bene fosse principio e fine. Oppure anche sono dette buone tutte le cose piuttosto in senso analogico, ossia per proporzione, così come la vista è il bene del corpo e l’intelletto è il bene dell’anima. Per questo Aristotele preferisce questo modo d’intendere il bene, perché appare inerente alle cose. Invece il parlare di un bene separato non è un modo appropriato di parlare del bene»[9].

Anche Aristotele dunque ammette il sommo bene, come Platone. Solo che mentre per Platone il sommo bene è la somma idea, per Aristotele è il sommo ente. Aristotele è preoccupato di evitare che il sommo bene si risolva ad essere un’idea dell’uomo. No, egli dice, il sommo bene supera infinitamente l’uomo nella sua finitezza. È dunque questo il vero sommo bene, fine ultimo dell’uomo e non un’idea astratta, per quanto sublime.

Anche Aristotele dunque pone come felicità dell’uomo e premio alla virtù un bene sommamente amato, che è Dio; ma questo bene per Aristotele è l’ente sommo, mentre per Platone è la somma idea, l’Idea del Bene. Per Aristotele la beatitudine sta nella conoscenza del sommo ente, per Platone nell’amore per la somma idea, l’idea del Bene. Tuttavia Aristotele non dimentica del tutto la lezione platonica circa il mondo ideale.

Egli sa benissimo che è il mondo dello spirito, dell’intelletto e della volontà.  Per questo Aristotele concepisce la vita e la felicità divine come Pensiero del Pensiero. Quell’identità di pensiero ed essere che Parmenide afferma nel concepire l’essere, Aristotele la riserva giustamente all’essenza di Dio, evitando da una parte il panteismo e raggiungendo dall’altra il vertice della speculazione greca su Dio, che suona affine all’ipsum Esse per se subsistens di tomistica memoria.

L’esito gnostico della Grecia simile allo gnosticismo indiano

Sappiamo quanta stima avesse San Tommaso per Aristotele; meno per Platone, benché lo utilizzi con cautela nella benevola interpretazione agostiniana e dionisiana. Ma quando si tratta di esporre l’importantissima virtù di religione, Tommaso non si rivolge ad Aristotele o a Platone, ma a Cicerone[10]. E questo perché? Perché Aristotele, benché fosse al corrente dei sacrifici offerti agli dèi, non ritenne di prendere in considerazione questa pratica nella sua etica.

Questo vuol dire che nell’etica di Aristotele manca la comprensione e l’apprezzamento della ragione che giustifica la pratica religiosa naturale: l’offerta alla divinità di un sacrificio per ottenere il perdono del peccato e la riconciliazione con la divinità per l’offesa arrecatale dal peccato.

Ma tale lacuna in Aristotele rivela un’altra lacuna presupposta: la coscienza che noi non abbiamo doveri solo verso il prossimo, ma anche verso Dio, per cui, come manchiamo verso il prossimo, così manchiamo verso Dio. Ora, come si chiama tale mancanza verso Dio, che dev’essere riparata col pentimento e col sacrificio? Si chiama peccato. Il che, in fin dei conti, vuol dire che Aristotele non aveva in pienezza il senso del peccato. In particolare, come tutto il mondo pagano che ignorava la rivelazione biblica, in Aristotele manca la consapevolezza che il peccato è un male così grave, che non può essere riparato neppure dai sacrifici della religione naturale, ma occorre che sia Dio stesso a ripararlo, come poi risulterà dalla rivelazione cristiana del mistero della redenzione di Cristo.

Certamente Aristotele aveva il concetto della cattiva azione, che per lui si risolve nell’ingiustizia (adikìa); ma non concepisce il dovere di una giustizia verso Dio e per conseguenza la possibilità di peccare contro Dio, e per conseguenza il dovere di offrire a Dio sacrifici per i peccati.

Per questo S.Tommaso, per porre una base di ragione all’essenza del peccato[11], non parte da Aristotele, ma ancora da Cicerone. Infatti, questo concetto del peccato contro Dio resta in Aristotele solamente implicito nella sua teoria della felicità ultima, che consiste nella contemplazione amorosa di Dio, concetto  del resto nobilissimo e giustissimo, di origine platonica e presente anche nella sapienza indiana[12].

D’altra parte Aristotele ammette il libero arbitrio e quindi la possibilità di fare il male,  ma non pare tener conto del fatto che il peccato massimo è quello contro Dio, consistente nel rifiuto di orientare la propria vita alla conoscenza e all’amore di Dio. E quindi pare che non consideri la necessità, per giungere alla felicità, di liberarsi o meglio di essere liberati da Dio da questo peccato.

Per questo sorprende moltissimo che colui che Dante chiamò «maestro di color che sanno» non si fermi su questo argomento di capitale importanza nel trattare di etica, ma si limiti a quelle scarne genericissime parole della conclusione dell’Etica Eudemia, che ho citato sopra, quando Aristotele sapeva benissimo delle pratiche religiose del suo tempo.

Può essere che, accorgendosi dell’insufficienza speculativa del politeismo, gli si sia sfuggito che la pratica del sacrificio cultuale espiatorio non è necessariamente legata al politeismo, ma anzi trova maggiore ragion d’essere nel monoteismo, come poi insegnerà la Bibbia.

Così nel trattare con sufficienza gnostica, dall’alto in basso delle pratiche religiose popolari del suo tempo, le considerò probabilmente segno di una rozza mentalità mitologica, incapace di elevarsi alla purezza e sublimità del concetto teologico. Dopo 2200 anni da Aristotele, su questo punto Hegel avrebbe dimostrato, col suo primato della filosofia sulla religione, lo stesso gnosticismo di Aristotele.

 Manca pertanto nell’etica di Aristotele l’umiltà dell’uomo che, riconoscendosi peccatore, riconosce di non riuscire ad obbedire a quella legge divina, che pur sa essere  giusta, come troviamo nel lamento di S.Paolo (Rm 7, 14-23) e dello stesso Seneca[13]. Aristotele sembra farla facile: per lui tutto sembra rimesso alle sole forze della buona volontà, sia pur rafforzate dall’alto, come se l’uomo dicesse a se stesso: «io con la mia ragione so che Dio esiste e che è il mio sommo bene e so che la mia felicità sta nell’amore e nella contemplazione di questo sommo Bene.

 Ebbene, per raggiungere la felicità è sufficiente che io mi ci metta d’impegno a conoscere questo bene e il mio obiettivo è raggiunto. Certo, capita che io possa commettere delle ingiustizie. Ma non occorre drammatizzare e angosciarsi. Sono andato fuori strada? Non ho che da correggere la direzione della mia volontà e da riprendere la strada giusta e il danno è riparato».

Occorre allora dire che anche al fondo del sistema di Aristotele, come in quello di Platone, c’è una sottile e forse inconscia superbia gnostica, simile a quella del brahmano, per la quale il sapiente o meglio colui che si ritiene sapiente, si considera in grado di salire i gradini dell’essere e del sapere verso Dio con la sua sola intelligenza speculativa e la forza della volontà. Entrambi ammettono, è vero, come abbiamo visto, un entusiasmo, un’ispirazione divina, che per loro non hanno la funzione di correggere ragione e volontà, ma semplicemente, per quanto ciò sia importante, di innalzarle al di sopra di loro stesse.

Così, per quanto Platone ed Aristotele avessero, il primo di più, il secondo di meno, contezza dei limiti e dei difetti delle forze umane, la loro etica non prevede che l’uomo,  penitente e pentito del suo peccato contro Dio, implori da Lui misericordia e salvezza, disposto a riparare e ad espiare, ma suppone un soggetto capace da solo di emendare se stesso, di obbedire  alla legge morale, e di innalzarsi alla contemplazione ed unione con Dio, senza bisogno di una sua grazia, che gli consenta di convertirsi e di praticare in pienezza la giustizia.

 Si capisce a questo punto, anche se non si giustifica, lo sdegno e l’odio che il cristiano Lutero, aveva per Aristotele[14], conscio del fatto che il peccato è qualcosa di ben più grave, proprio lui, Lutero, che aveva fatto girare tutto il suo dramma spirituale attorno a una coscienza anche esagerata dei propri peccati, così da risolvere forzatamente tutto il cristianesimo nella pratica della giustificazione.

Il concetto romano della religio

 

Se la Chiesa ha assunto nel dogma e nella morale la filosofia di Aristotele e Platone, nella religione e nelle sue istituzioni giuridiche ha assunto la pietas religiosa romana e le nozioni basilari del diritto romano.

Infatti quasi tutti i concetti attinenti alla virtù di religione sono stati desunti dalla terminologia romana: religio, sacrum, templum, ara, sacrificium, sacramentum, sacrilegium, iusiurandum, hostia, victuma, oblatio, sacerdos, pontifex, ritus, caeremonia, pietas, impietas, oratio, supplicatio, devotio, veneratio, adoratio, expiatio, reparatio, votum, prex, redemptio, satisfactio, gratia, sanctitas, benedictio, maledictio. 

Nell’antica religione romana si trovano tutti gli elementi dell’attività religiosa naturale. Il cristianesimo non ebbe che da assumere questo ricco impianto formale e dare ad esso i contenuti cristiani. L’ostilità di Roma contro il cristianesimo non è affatto l’ostilità dell’ateismo o dell’empietà come avviene nelle società moderne, ma proviene da un concetto politeistico della divinità e, col nascere dell’Impero, dal fatto che il Dio cristiano era presentato dai cristiani come superiore all’Imperatore e quindi un Dio al quale l’Imperatore stesso per primo doveva assoggettarsi.

 

Il diritto romano, base del diritto canonico,

ha perfezionato la sapienza greca

 

In Aristotele abbiamo il concetto del «giusto» (dìkaion), ma non del diritto (ius). Cioè il concetto aristotelico della giustizia (dike) comporta sì il dare a ciascuno il suo, ma in Aristotele questo «suo» oscilla fra il proprio dell’uomo come tale, animale sociale, quindi un «suo» universale ed astratto e il «suo» concreto dell’individuo o della comunità particolare, sicché Aristotele, quando tratta della giustizia sociale, restringe la sua visione alla costituzione della polis, ossia della grecità, ma gli sfugge il concetto ciceroniano della civitas, che supera i limiti della polis greca  ed abbraccia giuridicamente l’intera umanità, lo jus gentium, ossia la prospettiva di un governo dell’intera umanità sulla base non solo della giustizia in generale, ma anche del diritto umano, sulla base dell’humanitas.

Il che è il vero e proprio concetto del diritto, che fa dire a Virgilio: «tu regere imperio populos, Romane, memento: parcere subiectis et debellare superbos». Motto famoso, che servirà a partire dal sec. XVIII a stabilire la carta dei diritti universali dell’uomo.

Inoltre lo jus gentium ciceroniano è l’espressione giuridica della lex naturalis non scripta, ossia quella legge, quel nomos, che in fondo neppure Aristotele negava, nella sua dottrina della giustizia e della prudenza, ma che in Cicerone appare con una chiarezza ignota ad Aristotele:

«Est quidem vera lex recta ratio naturae congruens, diffusa in omnis, constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo, vetando a fraude deterreat; quae tamen neque probos frustra iubet aut vetat nec improbos iubendo aut vetando movet. Huic legi nec obrogari fas est neque derogari aliquid ex hac licet neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum solvi hac lege possumus, neque est quaerendus explanator aut interpres Sexus Aelius, nec erit alia lex Romae alia Athenis, alia nunc alia posthac, sed et omnis gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit, unusque erit commune quasi magister et imperator omnium deus: ille legis huius inventor, disceptator, lator; cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas poenas”; Cicerone, De Republica, III, 22,33.

Certamente importante è il concetto aristotelico dell’epikeia, forma superiore di giustizia, per la quale si accantona una legge inferiore in nome di una legge superiore. Essa precorre le grandi virtù cristiane della tolleranza, dell’equità, della clemenza, dell’indulgenza, della misericordia, della pietà, Ma in ciò Roma non è da meno col suo parcere subiectis virgiliano.

Invece Aristotele restringe il diritto, ossia la legge positiva, al solo governo della polis. Non è capace di immaginare una civilizzazione dei barbari, cosa che invece è stata la gloria di Roma, che le ha permesso di costruire l’Impero romano su scala europea. È su questo progetto di giustizia universale e di diritto naturale che la Chiesa, memore del diritto veterotestamentario, si sarebbe basata per edificare, alla luce della morale evangelica e naturale, il diritto canonico come uso del potere delle chiavi e di legare e di sciogliere.

Ora nessun altro popolo all’infuori di Roma ha avuto una concezione così nobile precisa del diritto, per cui vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per la filosofia platonico-aristotelica: come questa è l’unica filosofia che, per il suo valore assoluto, la Chiesa ha fatta sua per educare alla sapienza e alla fede tutta l’umanità, così il diritto romano è l’unico diritto, che per il suo valore perenne e la sua universalità, la Chiesa ha fatto suo per insegnare il diritto canonico a l’umanità.

Questo non esclude che possano esistere anche altre forme di diritto, come per esempio il diritto germanico o quello slavo o quello giapponese; ma vale anche qui il discorso che abbiamo fatto per la filosofia greca: ogni legittima pluralità di filosofie o di culture non può escludere l’universalità della filosofia greca, così come la molteplicità delle razze umane non toglie ma suppone l’universalità della specie umana, della quale sono tutte diverse espressioni.

È evidente che Cicerone e Virgilio, pur politeisti, erano ispirati da Dio senza che se ne rendessero conto, perché una concezione del diritto e del dovere (officium) del governante così nobile come la loro non può che venire da un’ispirazione divina, che non mancherà di essere riconosciuta ed accolta dai cristiani, e dalla Chiesa. Vedi per esempio l’ammirazione di Dante per Virgilio.

La Grecia ha ricevuto la grazia della sapienza, Roma ha ricevuto la grazia del governo. Il popolo greco è maestro di sapienza, ma si chiuse in se stesso e non fu capace di capire l’umanità dei barbari. Roma non raggiunse il livello della sapienza greca, ma in compenso fu magnanima verso tutti i popoli, perché capì meglio della Grecia la possibilità di convertire i barbari alla civiltà.

Così Roma ebbe la possibilità di costruirsi un immenso impero, mentre la Grecia rimase sempre nei suoi ristretti confini con altezzoso disprezzo degli altri popoli. Ed Aristotele, pur con tutto il suo universalismo, non riesce a sfuggire a questa grettezza mentale e mancanza di misericordia. Invece il Romano non riteneva il suo popolo superiore agli altri, ma vedeva nell’altro, a qualunque popolo appartenesse, il potenziale civis della Romanità intesa non come dominio, ma come servizio civile dell’umanità. 

Roma ha cominciato paradossalmente a corrompersi proprio all’avvento del cristianesimo, sedotta dal fascino del dispotismo orientale, che la portò a divinizzare l’Imperare e a tradire quindi il programma di Virgilio: non più tu regere populos, ma tu sfrutterai i popoli, cosa che ancora dopo XVIII secoli suscitò l’odio di un Hegel contro l’Impero Romano, che egli appunto accusò di crudele dispotismo contro i Germani. Ma il fatto è che erano i Germani ad essere bestiali e fu solo la paziente opera dei missionari quella che riuscì a civilizzarli e cristianizzarli a partire dal sec. VIII, facendo peraltro emergere le qualità peculiari proprie del popolo tedesco.

La Roma pagana, invece, sedotta dal culto dell’Imperatore a partire dal sec. III, dimenticò Cicerone e Virgilio e non riuscì a capire che i cristiani valorizzavano proprio quei princìpi e quei valori giuridici che avevano fatto la fortuna di Roma: la prudenza, la clemenza e la giustizia nel governare, il rispetto per tutti i popoli (jus gentium) – da qui l’erezione del Pantheon –, il senso dell’uguaglianza umana, la giusta severità nell’abbattere i superbi e i ribelli.

Il crollo dell’Impero romano fu dovuto dall’incapacità degli imperatori, gonfiati di superbia, di apprezzare nei cristiani proprio quei valori che avrebbero salvato gli Imperatori dalla catastrofe, che invece erano stati assunti dalla Chiesa nel diritto canonico e che avrebbero fatto il successo della Chiesa nella storia e nell’edificazione dell’Europa cristiana.

Il lascito più prezioso di Roma: il concetto di persona 

Importantissimo è il termine persona (persona, pròsopon, ypòstasis) esprimente il concetto di persona. Fu originariamente legato nel mondo greco alla maschera dell’attore e nel mondo romano allo svolgimento di un ruolo giuridico di rappresentanza, o d’espletamento di un munus o di un officium o di atti pubblici.

Mentre l’Antico Testamento mostra chiaramente di possedere il concetto di persona umana e di un Dio personale, senza usare il termine specifico o limitandosi a nomi di persona o a pronomi, il Nuovo Testamento usa il termine pròsopon per la persona umana, ma non ha il termine persona per la Persona divina.

Si capisce, per esempio, da come Cristo parla dello Spirito Santo, che Egli allude a una persona divina, ma Gesù non dice mai esplicitamente che lo Spirito Santo è una persona. Lo lascia intendere, benché ovviamente lo Spirito Santo sia persona, seppure in un senso diversissimo da come un uomo è persona. Ma ciò sarà chiarito nei secoli seguenti dai Concili.

I Padri greci, dal canto loro, come Cirillo e Basilio, si accorsero che per parlare di Dio il termine pròsopon non era sufficiente, perché riferito alla creatura, per cui, per parlare degnamente di Dio, ricorsero al termine ypòstasis, che in Aristotele significa bensì sostanza, ma ha in senso meramente materiale, mentre i Padri si accorsero che poteva significare analogicamente un sussistente spirituale, qual è appunto suggerito dal Nuovo Testamento quando parla del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.  

Il termine persona fu introdotto a Roma da Tertulliano, celebre avvocato, ricavandolo dal diritto romano come subjectum sui iuris et compos sui, soggetto, diremmo oggi, padrone di sé e capace di intendere e di volere. Il concetto successivamente da giuridico divenne, com’era conveniente, metafisico ad opera di Boezio: individua substantia rationalis naturae. In fondo era uno sviluppo della nozione di usìa coristè, essenza immateriale, al quale sviluppo Aristotele non aveva pensato.

D’altra parte, l’etica aristotelica è chiaramente l’etica dell’agire della persona, solo che Aristotele si fermò all’agire e non pensò all’essenza metafisica del singolo uomo che agisce in rapporto al contingente, che è appunto la persona.  Aristotele vede bensì la felicità umana nella contemplazione di Dio, ma invece di intenderla come atto del singolo, di Mosè o di Paolo, come fa la Bibbia, la intende semplicemente come atto di quella ragione teoretica che tutti gli individui umani hanno in comune.

Infatti, per Aristotele, l’individuo umano come individuo è totalmente ordinato al bene comune terreno della polis. Per questo c’è chi ha dubitato che Aristotele affermasse l’immortalità dell’anima, se San Tommaso non avesse dimostrato che Aristotele ci credeva, contro l’interpretazione di Averroè, che sosteneva che per Aristotele esiste un intelletto unico per tutti gli individui. Quindi per Averroè chi contempla Dio sarebbe questo intelletto trascendente, non sono i singoli individui che invece si dissolvono nella materia.

Ora, tutto il messaggio biblico è fondato sull’idea di un Dio personale, che interloquisce con la singola persona umana dotata di anima immortale, destinata alla risurrezione del corpo. Ciò non è chiaro né a Platone né ancor meno ad Aristotele. Manca nella grecità l’idea di un Dio provvidente, che si occupa della salvezza dell’uomo, anima e corpo.

Viceversa Cicerone, pur senza sapere anche lui naturalmente della risurrezione dei corpi, nel De natura deorum, parla della provvidenza divina (providentia deorum). Aristotele, dal canto suo, ha un ottimo trattato sulla prudenza, ma la considera solo come virtù umana, non perché per lui Dio sia imprudente, ma semplicemente perché per Aristotele Dio per sua essenza si occupa solo degli universali, delle usiai coristai e non dei singoli, che non sono immortali, almeno nel corpo.

Ora appunto, come egli dice giustamente, il prudente si occupa del particolare e del temporaneo, sia pur alla luce dell’universale e dell’eterno. Invece Cicerone ha la convinzione che il dio governa gli uomini e si prende cura di loro. Da qui l’ideale romano originario, quello della res publica e del governante saggio e giusto, che ha cura dei singoli e dei loro diritti: parcere subiectis et debellare superbos e non quello dell’Impero, influenzato dal dispotismo orientale dell’imperatore divino. 

Ora, se l’uomo è prezioso agli occhi di Dio, come riconosce anche Cicerone, vuol dire che il singolo, il tode ti, non è solo un caso particolare ed effimero dell’universale, ma è una vera e propria sostanza singola, un’ypostasis intellettuale. Il Dio biblico, del resto, ha tanta cura del singolo, anche se misero, perché lo ha creato Lui, cosa della quale Aristotele non era consapevole. Neppure i Romani lo sapevano, eppure su questo punto il loro senso del diritto fece sì che avessero più umanità di Aristotele.

Questi ha bensì il concetto dell’ypokeimenon, che corrisponderebbe suppergiù ad ypostasis e a sub-stantia, ma per lui l’ypokeimenon non è altro che il soggetto materiale della forma sostanziale. Aristotele concepisce bensì un’usìa coristè, una sostanza spirituale, ma la concepisce non come un singolo, ma sul modello dell’idea platonica, ossia come un universale.

Insomma ad Aristotele sfugge la persona come sostanza singola spirituale, che invece è fondamentale per il cristianesimo e balugina nel diritto romano, ossia in Cicerone: la persona, il cittadino, il civis romanus come un soggetto libero di diritti e di doveri.

Quanto ai Padri greci, essi intuirono la necessità di trovare il termine adatto per esprimere la nozione di persona sia per l’uomo che per Dio, ed adottarono il termine ypòstasis, assente i Aristotele con quel significato. Egli aveva soltanto prosopon, che significa l’individuo umano (tode ti) subordinato alla specie, per cui a livello sociale Aristotele pone solo la subordinazione dell’individuo al bene comune; ma non gli viene in mente di teorizzare, come farà il cristianesimo, la trascendenza della persona nel suo rapporto con Dio rispetto al bene comune

Come sappiamo, il termine «persona», rispondente a un concetto biblico fondamentale riguardante la dignità umana e la stessa natura divina, fu destinato ad un successo immenso, diventando addirittura fondamentale ed essenziale per concepire il mistero centrale del cristianesimo, ossia il mistero trinitario, oltre che divenire il concetto principale dell’antropologia cristiana.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 15 gennaio 2021

 

Ad Aristotele sfugge la persona come sostanza singola spirituale, che invece è fondamentale per il cristianesimo e balugina nel diritto romano, ossia in Cicerone: la persona, il cittadino, il civis romanus come un soggetto libero di diritti e di doveri.

 

Immagine da internet

 



[1] La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971, p.49.

[2] Grande etica. Etica eudemia, Libro VIII, cap.3, 1249b 15-17, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.284.

[3] Sum.Theol.,II-II, q.81, a.4.

[4] La Città di Dio, Op.cit. libro X, cap.1, p.451.

[5] Il Simposio, 193b, Adelphi Edizioni, Milano 1979, pp.48-49.

[6] Jone, 534, 536, trad. di E. Turolla, in I dialoghi, l’Apologia e le Epistole, Rizzoli, Milano-Roma 1953, p.9. Al riguardo vedi le ottime considerazioni del Maritain ne L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia, Morcelliana, Brescia 1957, pp.93-99.

[7] Fedro, 244, Edizioni Laterza, Bari 1991, pp.233-234.

[8] Ibid,. 265, pp.261-262.

[9] In X libros Ethicorum Aristotelis ad Nichomacum expositio, Edizioni Marietti, Torino 1964, libro I, lect.VII, n.95, p.25.

[10] Sum. Theol., II-II, q.81, a.1.

[11] Sum. Theol., I-II, q.71.

[12] Cf J. Maritain, Scienza e saggezza, Edizioni Borla, Torino 1964, pp.53-62.

[13] «Video bona proboque; deteriora sequor».

[14] E di riflesso anche contro San Tommaso, non essendosi accorto che l’Aquinate, pur tanto ammiratore di Aristotele, da buon cristiano aveva colmato la grave lacuna di Aristotele attingendo da altre fonti, a cominciare da S.Agostino e dalla Scrittura.

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