La
gelosia di Dio come appello alla conversione
Io, il Signore, sono il tuo Dio,
un Dio geloso,
che punisce la colpa dei padri
nei figli
fino alla terza e alla quarta generazione,
per coloro che mi odiano,
ma che dimostra il suo favore
fino
a mille generazioni,
per quelli che mi amano e osservano
i miei comandi.
Es 20, 5
Che cosa la Scrittura intende per
“gelosia divina”
La Scrittura, come è noto, ci parla di
Dio e del suo agire in termini spesso antropomorfici, materiali e metaforici, come
per esempio quando parla di “ira” (passim),
di “compassione” (Dt 32, 36 e altri), di “essere offeso” (Ne 9,26 e altri), “essere
placato” (I Sam 3,12), di “pentimento” (Gen 6,6), di “redenzione”[1] (passim) e via discorrendo, come se Dio
avesse delle passioni[2] o
delle imperfezioni come noi.
Per non fraintendere che cosa vogliono dire
queste immagini e non cadere in un concetto falso e idolatrico di Dio, questi concetti
impropri, anche se rappresentativamente efficaci, devono essere illuminati e
nobilitati dai concetti spirituali, metafisici o trascendentali, ai quali fanno
riferimento e spiegati alla luce di questi concetti.
Il concetto di “gelosia” è uno di
questi. Vediamo innanzitutto che cosa è in generale, la gelosia. Essa è quel
moto dell’animo, per il quale il geloso custodisce con premura la persona amata
e si oppone a che essa, della quale è geloso, abbia rapporti con altre persone,
dalle quali può correre pericolo o con le quali possa comportarsi male. Nel caso
dell’amore fra uomo e donna, il geloso considera il partner come sua esclusiva
proprietà, per cui non tollera che possa avere con altri dei rapporti d’amore simili
o superiori a quelli che intrattiene con lui.
La persona amata dal geloso è preferita
ad altre. L’immagine della gelosia si adatta quindi in modo speciale ai rapporti
di Dio con Israele, popolo prescelto e prediletto da Dio come popolo profetico,
sacerdotale e messianico, incaricato di portare la salvezza a tutti i popoli.
La gelosia spinge il geloso a contrastare
ciò che o colui che disturba la sua unione con la persona amata, come osserva
S.Tommaso: “La gelosia (zelus) proviene
dall’intensità dell’amore. E’ chiaro infatti che quanto più intensamente una virtù
tende a qualcosa, con tanta maggior forza respinge tutto ciò che è contrario o contrastante”[3].
La gelosia è giusta, virtuosa e doverosa,
se nasce da un vero amore per la persona amata e se ha un motivo legittimo, per
esempio la gelosia tra sposi o familiari o amici, e se si esercita nei giusti limiti,
ma senza spirito possessivo o interessi egoistici e nel rispetto dell’autonomia
della persona amata, concedendole una ragionevole fiducia e approvando le sue relazioni
con altre buone persone.
La gelosia, viceversa, è cattiva e
peccaminosa, per le ragioni contrarie: se il geloso vuole dominare sulla
persona amata, la attira a sé per fini cattivi, la inganna, la seduce, la vuole
solo per sé, la limita ingiustamente nella sua libertà, la minaccia, la sfrutta
e la strumentalizza, la mette contro gli altri.
La sana gelosia risplende innanzitutto
in Dio, il quale vuole che l’uomo sia tutto suo e che non abbia altri dèi. Essa
è sommamente benefica per l’uomo, perché è manifestazione del grande amore e
zelo di Dio per l’uomo e la sua salvezza, e vuole preservarlo da ogni pericolo
e da ogni peccato. Per questo, Dio riversa tutto il suo infinito amore, tutta
la sua premura e la sua cura sulla persona amata, le rivela i suoi segreti, le fa
sentire tutta la sua tenerezza e la sua misericordia, è indulgente per le sue
debolezze, ma la punisce severamente, se essa non è fedele, è sleale, ribelle e
lo tradisce.
Certamente la gelosia divina nella Scrittura[4] si
mostra a volte con la severità e col castigo, che però sono dettati dall’amore
e dalla volontà di Dio di scuotere la coscienza del peccatore, di suscitare in
lui un salutare timore e di chiamarlo alla penitenza e alla conversione.
La sana gelosia del buon pastore
La gelosia divina è manifestazione della
divina provvidenza verso l’uomo, e in particolare è espressione unitaria e
armoniosa della sua bontà, sintesi di giustizia e di misericordia. Per conseguenza,
essa dev’essere la virtù del buon pastore nei confronti del suo gregge. In lui
è tradizionalmente chiamata “zelo”. In tal modo, a seconda dell’idea che egli si
fa della gelosia divina, la sua condotta verso il gregge sarà un riflesso di
questa idea.
Se non gli piace l’idea di un Dio
geloso, perché gli pare che comporti un Dio opprimente, legalista e possessivo,
che non lascia liberi, pronto a colpire chi sgarra, ci terrà a mostrarsi liberale
e tollerante, dialogante e aperto a tutti, ma rischierà di perdere di vista la
distinzione fra il bene e il male, di mancare di quello zelo, che si prende
cura della salute e della sicurezza del gregge, così da incoraggiare le pecore
sane e curare la malate, da incrementare la crescita del gregge e da difenderlo
dai lupi.
Mancando
di un criterio oggettivo ed universale di giudizio, il buonista rischierà di mancare
di equilibrio, di coraggio e di imparzialità, lasciandosi prendere da indebite
preferenze, dalla paura dei lupi e dalla voglia di sfruttare le pecore deboli,
per far sentire che il pastore è lui e consolarsi di non riuscire a spaventare i
lupi: forte con i deboli e debole con i forti.
In tal modo egli starà in mezzo fra la severità
verso le pecore e l’accondiscendenza verso i lupi. Un colpo al cerchio e uno
alla botte. Apparire un liberale senza avere noie. E’ l’oscillazione tipica dell’opportunismo
buonista hegeliano – oggi molto di moda - fra l’affermazione e la negazione, il sì e il no, che alla fine è il servire a due
padroni: Dio e il mondo alla pari. Un fare dolce, suadente e beneducato, politically correct, che però nasconde la
doppiezza e la crudeltà. “Veleno d’aspide sotto le labbra” (Sal 140, 4).
Ezechiele descrive bene questo tipo di
pastori e la situazione del gregge che ne consegue:
“vi nutrite di latte, vi rivestite di lana,
ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge: non avete reso la forza
alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite,
non avete riportato le disperse: non siete andati in cerca delle smarrite, ma le
avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e
sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie
pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura” (Ez 34,
3-6).
E S.Caterina da Siena così fa eco a queste
parole:
“il prelato o altri signori che hanno sudditi,
se essi, vedendo un membro del suddito loro essere infracidato per la puzza del
peccato mortale” - che può essere
un’eresia o comunque un grave peccato – “vi pongono subito l’unguento della lusinga”
– oggi si parla di “misericordia” o di “pluralismo” – “senza la reprensione,
non guarisce mai, ma guasterà l’altre membra che gli sono da torno, legate in
uno medesimo corpo, cioè a uno medesimo pastore. Ma se egli
sarà vero e buono medico
di quelle anime, sì come erano questi gloriosi pastori, egli non
darà unguento senza fuoco della reprensione. E se’l membro fusse pure ostinato
nel suo male fare, e’l tagliarà dalla congregazione[5],
acciò che non gl’imputridisca con la colpa del peccato mortale.
Ma
essi non fanno oggi così, anco fanno vista di non vedere. E sai tu perchè?
Perché la radice de l’amore proprio vive in loro, unde essi traggono il perverso
amore servile; però che per timore di non perdere lo stato e le cose temporali
o prelazioni” – non certo per timor di Dio –, “non correggono; ma e’ fanno come
acciecati, e però non cognoscono in che modo si conserva lo stato. Chè, se essi
vedessero come egli si conserva per la santa giustizia, la manterrebbero, ma
perché essi sono privati del lume, non il cognoscono. Ma, credendolo conservare
con la ingiustizia, non riprendono i difetti de’ sudditi loro; ma, ingannati sono
dalla propria passione sensitiva e da l’appetito della signoria o della prelazione.
E
anco non correggono perché egli sono in quegli medesimi difetti o maggiori,
sentendosi compresi nella colpa; e però perdono l’ardire e la sicurtà e, legati
dal timore servile, fanno vista di non vedere. E se pure veggono, non correggono,
anco si lasciano legare con le parole lusinghevoli e con molti presenti; ed
essi medesimi truovano le scuse per non punirli” – la “misericordia” -. “In costoro
si compie la parola che disse la mia Verità nel santo Evangelo dicendo: ‘costoro
sono ciechi e guide di ciechi; e se l’uno cieco guida l’altro, ambedue cadranno
nella fossa’ (Mt 15, 14)”[6].
Il Dio della pace è vittorioso sul
male
Seguendo gli insegnamenti della Scrittura
e della sana ragione, non bisogna dunque considerare Dio, con la scusa della misericordia,
come un Dio elastico, ambivalente, cedevole, impotente, permissivo e remissivo,
come oggi si sente qua e là, ma non si deve temere di considerarLo un Dio saldo[7], fermo,
lineare, fedele a se stesso[8], forte,
geloso, zelante e guerriero, il “Dio e Signore degli eserciti”, che combatte
per la giustizia, vindice degli oppressi, dolcissimo e tenerissimo verso gli umili
e i pentiti, ma terribile per i superbi e per i suoi nemici.
Proprio perché Dio vuole la pace, Egli muove
guerra contro i nemici della pace. Contro di essi Egli “è prode in guerra” (Es
15,3). Egli solo conosce il segreto della
pace e può ottenere la pace al mondo sconvolto dalle guerre. La sua grande arte consiste nell’intenerire i cuori
induriti, facendoli passare dall’odio all’amore, dalla vendetta al perdono.
Egli “stronca le guerre” (Gdt 16,2) e se
Egli vuole una guerra (I Cr 5,22), è solo perché essa serve a sconfiggere i nemici
della pace. Ma Egli prepara, per chi gli è fedele, un mondo nel quale gli uomini
“non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2,4). “Farà cessare le
guerre sino ai confini della terra” (Sal 46, 10). “Dalle spade forgeranno
vomeri” (Mi 4, 3-4).
Egli è il grande mediatore e fautore di
ogni pacificazione e della composizione di tutti i conflitti, a patto che nei
contendenti vi sia buona volontà. Ottenuta la pace, Dio torna a dominare e riafferma
la sua autorità sul mondo facendo giustizia - “Fammi giustizia, o Dio, difendi
la mia causa contro gente spietata” (Sal 43,1) -.
Castigando i peccatori, sconfiggendo i
suoi nemici, e liberando gli umiliati e gli oppressi, Dio fa tornare la pace, mentre
con la misericordia perdona i peccatori pentiti e si riappropria in Cristo del
mondo che gli è diventato nemico: paradiso per i pentiti e inferno per i
ribelli.
Se l’uomo col peccato è stato vinto
dalla morte, ed è caduto sotto il dominio di Satana, ecco che il demonio (Lc
1,18; Rm 16,20) e la morte a loro volta sono vinti (I Cor 15,26.55; Ap 20, 9-10.14)
e l’uomo è restituito al suo legittimo Signore grazie al sangue di Cristo.
La morte dell’uomo è vinta dalla morte
di Cristo. Nella morte di Cristo si nasconde la vita dell’uomo, sub contraria specie[9]. Dio
sa trarre il bene dal male. Dalla morte sorge la morte della morte non per un “magico
potere del negativo”[10],
come dice Hegel, ma perchè la morte è stata assorbita dalla Vita. “O morte,
sarò la tua morte”, così, come la Chiesa canta nel triduo pasquale, la morte
vince la morte, perché è la morte del Re della Vita, la morte che ha in sè la Vita,
la morte di Cristo.
Tra Dio e il mondo non c’è un rapporto dialettico,
ma analettico. Cioè, è vero che il concetto
di Dio e il concetto del mondo si richiamano
a vicenda sul piano della logica; e in ciò Hegel ha visto giusto; ma il fatto è
che quello che a noi interessa in primo luogo non è il concetto, ma la realtà di Dio e del mondo.
E sul piano della realtà bisogna dire che
Dio può esistere benissimo da solo[11] senza
il mondo. E di fatto, prima[12]
di creare il mondo, Egli è esistito da solo. E anche adesso, benchè esista una reciprocità
tra Dio e mondo, o tra Dio e l’uomo, tanto che si deve parlare di un rapporto
interpersonale tra l’uomo e Dio, tuttavia l’uomo con i suoi sacrifici e Cristo
stesso non offrono a Dio nulla che Egli non abbia già.
Ovviamente ciò non va inteso nel senso di
derogare in alcunchè alla infinita preziosità del sacrificio di Cristo. Solo che
va detto che, quando si parla di “riparazione” o “soddisfazione” o “compenso”
dato da Cristo al Padre, benchè qui sia in gioco il dogma, si tratta solo di espressioni
metaforiche, perché il frutto di questo sacrificio è tutto e solo per noi: satisfecit pro nobis, come dice il
Concilio di Trento[13]
Enzo Bianchi tra Dio e il mondo
Al riguardo, riteniamo di dover fare alcune
osservazioni a certe parole di Enzo Bianchi. Egli parla del dovere nostro di “discernere
coloro per i quali Gesù è venuto nel mondo”. E spiega: “il discernimento nasce
sempre dal duplice ascolto dell’evangelo eterno (Apocalisse, 14, 6), del
‘Cristo che è lo stesso ieri, oggi e per sempre’ (Ebrei, 13, 8) e
dell’oggi storico, delle contingenze presenti nei vari luoghi in cui gli uomini
vivono”[14].
Osserviamo però che questo duplice ascolto
non è paritario, ma gerarchizzato: innanzitutto bisogna ascoltare il Vangelo e,
alla sua luce, occorre dare un giudizio sul mondo per discernere in esso ciò
che è conforme al Vangelo e ciò che gli è difforme. Il mondo, certo, ha una sua
verità, dà già un orientamento per discernere la giusta via; ma in esso sono presenti
anche il falso e il male, che solo il Vangelo ci consentono di riconoscere e di
togliere.
Se non si riconosce questa subordinazione
del mondo al Vangelo, c’è il rischio, tipico del modernismo e dell’hegelismo, di
invertire il rapporto mondo-Vangelo, come se fosse possibile e doveroso regolare
anche il Vangelo sul mondo e come se il mondo completasse in qualche modo il Vangelo,
avesse qualcosa che il Vangelo non ha o non contiene in sé almeno virtualmente
o implicitamente.
Ma questo è falso e pericoloso, perché
creerebbe una doppia morale, sorgente di doppiezza e di oscillazione fra Cristo
e il mondo. In questa visuale, infatti, il mondo, sganciato dalla sua dipendenza
da Dio, diventa un altro assoluto accanto a Dio e sorge un pericoloso dualismo,
dove non ci si ordina più a Dio, ma ci si barcamena tra il mondo e Dio. Si arriva
così a servire “due padroni”, cosa che Cristo detesta, perchè vorrebbe dire che
Egli non sarebbe più il nostro sommo Bene, ma che dividiamo il nostro cuore tra
Lui e il mondo, come se si trattasse di due beni alla pari.
Ma
c’è di peggio. Sarebbe compromessa la stessa concezione del rapporto di Dio col
mondo e con l’umanità di Cristo. Il mondo apparirebbe come un completamento di Dio
e si giungerebbe alla famosa asserzione di Hegel: “senza il mondo, Dio non è
Dio”[15].
Il vero Dio, come del resto ha detto Bianchi
in altra occasione[16] al
seguito di Hegel, preceduto da Lutero e fino a Marcione, sarebbe solo il Dio incarnato,
il Dio che ha assunto l’umanità di Cristo. Per tutti costoro, infatti, non c’è vero
Dio prima e fuori dell’umanità di Cristo. Certo, se si considera Cristo in
quanto Dio, è chiaro che non esiste Dio al di fuori di Cristo. Ma se si considera
l’umanità di Cristo, si deve dire a chiare lettere che l’umanità di Cristo non
è affatto necessaria all’essenza e all’esistenza di Dio e non le aggiunge
nulla, non la completa in nulla.
Dio infatti sarebbe stato Dio, anche se non
avesse creato la santissima umanità di Cristo, anche se non avesse creato il mondo.
Ma da questa concezione del contrasto fra il Dio di Cristo e il Dio di Mosè, nasce
l’opposizione nefasta fra il Dio bellicoso e il Dio amorevole che arriva fino a
Bianchi.
Ma si nota in Bianchi un’altra impronta
del Dio di Lutero mediata dalla teologia hegeliana. In una intervista al
quotidiano La Stampa di alcuni anni
fa Bianchi disse che, anche se fosse all’inferno, egli non cesserebbe di lodare
la misericordia di Dio. Ovviamente Bianchi fa una semplice ipotesi in tono enfatico,
la quale però resta molto significativa di come egli si sente oggetto della divina
misericordia e di come intende questa misericordia.
Da quanto dice si ricava che anche un dannato
dell’inferno potrebbe sentirsi oggetto di questa misericordia. Eppure, la pena
infernale colpisce l’uomo ribelle. Bianchi sembra dunque creare una sintesi dialettica
hegeliana tra misericordia e severità divine. La misericordia è severità; la severità
è misericordia[17].
Viene in mente un’espressione di Lutero, il quale afferma che starebbe volentieri
anche nell’inferno, se questa fosse volontà di Dio.
Si tratta del Lutero posteriore all’“esperienza
della torre” del 1514[18], nella
quale si convinse che Cristo gli prometteva che si sarebbe salvato. Il Lutero, invece,
che accetta l’inferno corrisponde a una fase successiva del suo rapporto con Dio,
per il quale egli non insiste più sulla sua salvezza, ma sull’obbedienza a Dio,
sull’accettazione di ciò che Dio vorrà, anche se lo mandasse all’inferno.
La misericordia si confonde con la severità. Siamo nella concezione dialettica
degli opposti, secondo lo schema cusaniano della coincidentia oppositorum, già presente in Ockham: Dio non vuole per
me ciò che è bene, ma è bene ciò che Dio vuole, fosse anche l’inferno. E’ il Dio
della doppia predestinazione, presente nel pensiero di Lutero. Anche se Dio mi vuole
all’inferno, questa sarebbe una manifestazione della sua misericordia.
La falsa concezione della pace in
Enrico Peyretti
Davanti a questa posizione di Bianchi
contro l’Antico Testamento si capisce la reazione sdegnata contro di lui del rabbino
Laras, che la vede offensiva non solo del popolo di Israele, ma anche della vera
concezione di Dio, dato che il Dio di Cristo è in realtà lo stesso Dio di Mosè,
anche se in Cristo Dio rivela il mistero trinitario.
Apprezziamo allora il servizio di Sandro
Magister, che, nell’articolo
Antiebraismo cattolico e papale.
L'allarme del rabbino Laras, del suo blog Settimo Cielo del 13 marzo del 2017, dette notizia di un convegno
programmato dall’Associazione Biblica Italiana a Venezia per l’11-16 settembre successivo,
dal titolo "Israele, popolo di un Dio geloso. Coerenze e ambiguità di una
religione elitaria".
“Ma – commenta Magister - se si va a leggere
il testo originale della presentazione del convegno, si trova anche di peggio: ‘Il
pensarsi come popolo appartenente in modo elitario a una divinità unica ha
determinato un senso di superiorità della propria religione’. Da cui ‘intolleranze’,
‘fondamentalismi’, ‘assolutismi’ non solo verso gli altri popoli, ma anche
autodistruttivi, poiché ‘ci sarà da chiedersi in che misura la gelosia divina
incenerisca o meno la libertà di scelta dell’eletto’”.
Notiamo peraltro che la posizione di Bianchi richiama da vicino l’eresia
di Marcione[19].
Infatti, cliccando online la parola
“marcionismo” nel medesimo articolo, troviamo un servizio di grande attualità de "L´espresso" n. 5 del 23-30 gennaio 2003,
dal titolo "Addio Bibbia crudele", dedicato ad Enrico Peyretti, un
cosiddetto “pacifista” noto da molto tempo. La grande attualità dell’articolo è
data dalla tematica sollevata dal Peyretti 16 anni fa, concernente l’idea oggi
diffusa di origine marcionita, ma presente anche in Lutero, giustamente denunciata
dal Rabbino Laras con le seguenti parole: “un ‘marcionismo’ più o
meno latente, ora presentato in forma pseudo-scientifica, insistente oggi
sull'etica e sulla politica”.
Secondo Marcione, eretico del sec.II, il
Dio dell’Antico Testamento, bellicoso e severo punitore, non sarebbe il vero
Dio, che invece è il Dio di Gesù Cristo, tutto e solo tenerezza e misericordia,
ma sarebbe ancora un dio pagano. Ebbene, Peyretti, che invece è consapevole del
fatto che anche il Dio di Gesù Cristo castiga e benedice la giusta guerra, ha
raggiunto ormai la posizione di Marcione, nella convinzione che la promozione
della pace comporti la negazione che Dio punisca i malfattori e suppone un Dio,
che escluda l’uso delle armi e l’irrogazione di sanzioni penali.
Magister descrive in
Peyretti le idee emblematiche del buonista di oggi, anche se sono passati molti
anni:
“A farlo arrabbiare è stata la Bibbia, sia
dell´Antico Testamento che del Nuovo, con tutte le sue pagine grondanti
violenza. ‘Basta’, ha concluso Peyretti, ‘queste pagine non sono parola di Dio’.
‘Ma più leggo i libri della conquista, delle guerre, e più li detesto, li
rifiuto. Il peggio è che la Bibbia mi presenta questi orrori non come fatti
umani, ma come azioni di Dio. Quando invece sono bestemmia’.
E così ha deciso di gettare gran
parte dell´Antico Testamento. Via il patriarca Abramo che anche lui impugnò le
armi, via Mosé, via Davide. ‘Se leggerò ancora certi libri biblici di teologia
guerriera, finirò per disprezzare l´ebraismo che li ha prodotti e trasmessi, e
questo non lo voglio. Terrò cari i libri della sapienza, dell´amore universale.
Gli altri li chiuderò’.
L´Antico Testamento è quello che cade
di più sotto la scure dei censori. Ma Peyretti rigetta anche pezzi dei Vangeli
e degli altri libri della Bibbia posteriori a Gesù. Via le parabole con i re
che si fanno guerra, via le minacce di pianto e stridor di denti, via i fuochi
della geenna. Sull´inferno la mette così: ‘L´inferno è questo mondo governato
dai potenti criminali, gli unici veri diavoli, ogni giorno in tv a
terrorizzarci e chiedere adorazione. Se le religioni non maledicono questo
inferno, ne sono parte esse stesse, come diavoli’.
Pacificamente
dinamitardo, Peyretti fa deflagrare la Bibbia e il Credo cattolico in nome,
spiega, di una superiore ‘etica dell´unità umana’. Perché solo chi - come lui -
possiede ‘l´etica originaria della pace può giudicare tutte le religioni’ e
condannare fin da oggi ciò che non vi si conforma, ‘grazie alla irresistibile
coscienza che Dio ci dà del bene e del male’”.
Difficile immaginare dove Peyretti abbia
trovato l’“etica dell’unità umana” superiore a quella della Bibbia. O forse,
non è poi tanto difficile, perché basta considerare la concezione massonica dell’etica,
che è appunto di questo tipo. Essa assicura di poter procurare all’umanità la pace
e la concordia fra le nazioni e le religioni grazie al progresso della scienza
e della virtù, mediante trattative pacifiche e diplomatiche, senza bisogno di ricorrere
alla guerra o ai soccorsi che dovrebbero venire da religioni rivelate, che invece
nella storia si sono mostrate sorgenti di fondamentalismi e di irresolubili conflitti.
Bisogna invece constatare, se non vogliamo
sognare ad occhi aperti, che, stanti le conseguenze del peccato originale, che spingono
gli uomini alla violenza e alla sopraffazione reciproche, la storia millenaria della
civiltà cristiana e mondiale dimostra, con le sue conquiste, che l’affermazione
e la difesa della giustizia, della libertà e della dignità umana, richiedono periodicamente
un moderato, autorizzato, disciplinato ed organizzato uso della forza, senza mai
accantonare l’uso dei mezzi pacifici ed il ricorso alle risorse spirituali della
religione, soprattutto del cristianesimo. La Scrittura insegna che una società pacifica,
nella quale non occorrerà più l’uso della forza, potrà essere solo la nuova umanità della risurrezione
escatologica.
Su questa terra i pacifismi utopistici
di ispirazione massonica, liberale, permissivista o russoiana alla Marco
Pannella, sono proprio quegli orientamenti morali, sociali, politici e religiosi,
i quali, sotto la facciata di un’incondizionata mitezza, magari fatta passare
per evangelica, nascondono i tratti della crudeltà, che si rivela quando queste
formazioni dispongono del potere politico o religioso, oppure, col loro rammollire
la forza del carattere, diffondere lo scetticismo e corrompere l’onestà dei
costumi, preparano un popolo smarrito e disintegrato ad essere sopraffatto e dominato
da un altro fanaticamente sicuro di sé e delle proprie prospettive umane. E’ il
rischio che sta correndo oggi l’Europa davanti all’invasione islamica.
Chi è un pusillanime e troppo indulgente
verso i peccatori, se acquista una posizione di potere, o raggiunge un ruolo
importante nella società o nella Chiesa, diventa intollerante e prepotente.
Queste persone passano da un eccesso all’altro, perché nella loro condotta non
si rifanno ad una misura ferma, sicura e oggettiva, equidistante dagli eccessi,
in base alla quale stabilire il difetto o l’eccesso.
Esse, invece, che affettano mitezza
all’accesso scusando ogni prevaricazione, se hanno poi modo di essere o devono
essere severe, diventano crudeli, mostrandosi più severe di quelle persone che dichiarano
apertamente la necessità della severità, ma sanno praticarla con misura, clemenza,
equilibrio e al momento giusto, perché hanno un chiaro e certo punto di
riferimento, che le altre non hanno.
Il pastore zelante imita la gelosia
divina, che è basata su di una perfetta lealtà nei confronti della verità,
fedeltà alle promesse, coraggio nell’esercizio della sua missione, coerenza di
condotta, sintesi di giustizia e di misericordia, incurante dell’ostilità che
le viene dal modo e dalle forze del male. Tutta la sua condotta si basa
sull’affermazione del sì contro il no, dalla quale discende il principio
fondamentale dell’agire virtuoso, che è il perseguimento coerente del bene e il
rifiuto netto del male.
Il
principio di non-contraddizione è la base dell’onestà intellettuale
La chiara coscienza dell’opposizione
assoluta tra il bene e il male è quanto di più opposto si possa immaginare a un
pacifismo imbelle, sgusciante e ipocrita, e al suo presupposto, ossia la viscida
e doppiogiochista relativizzazione ovvero approvazione buonista tanto del bene
quanto del male, giudicati come “diversi” e reciprocamente complementari. A ciò
segue la pretesa di affermare una mediazione e una reciprocità alla pari, che vorrebbe
trovare un accordo fra Cristo e Beliar.
La medicina contro questa aberrazione intellettuale
e disonestà morale è il far sempre capo nel nostro pensare e nel nostro parlare
al principio di identità e di non-contraddizione. Occorre infatti fare alcune
osservazioni preliminari, che ci introducono alla comprensione della verità originaria,
assoluta, certissima, insopprimibile, inconfutabile ed irrinunciabile di questo
famoso principio teoretico e morale, fissato da Aristotele[20] e
perfettamente conforme al Vangelo, che sta alla base della realtà e di tutta la
vita dello spirito. Dio stesso, come ipsum
Esse[21],
e Verità sussistente e sommo Bene, con la sua inconfondibile Identità divina, non
è che l’affermazione somma e radicale di questo principio implicito nella stessa
Essenza e Ragione divina.
Osserviamo
dunque che empiricamente ogni ente può essere o individuale, ed è l’ente
concreto e reale; oppure può essere specifico o generico, ed è l’ente logico
astratto; ogni ente reale o ideale ha una sua precisa identità o
determinatezza, è uno e indiviso, è quello che è, quel tale ente, è un qualcosa
di distinto, differente o diverso da ogni altro. E’ inconfondibile con un altro
ente. E’ riconoscibile, identificabile e discernibile da ogni altro ente. La
molteplicità o la pluralità nasce dalla divisione dell’uno, inteso come
intellegibile; e dalla moltiplicazione dell’uno inteso come questo ente reale
uno.
Nessun ente reale e concreto è identico
ad un altro, se non sotto l’aspetto specifico o generico: Tizio è identico o
uguale a Caio in quanto sono uomini. Ma Tizio in quanto Tizio e Caio in quanto Caio
sono diversi. L’universale reale è la medesima essenza presente in tutti gli
individui (unum in multis) e
identificato con ciascuno, al di là dei suoi caratteri individuali. Invece l’essere
di ogni ente reale è diverso dall’essere di ogni altro ente reale.
L’ente confuso, vago o indeterminato della
nostra immaginazione o quello astratto matematico o logico, va ben distinto
dall’ente reale. Il principio di indeterminazione di Heisenberg non significa la
possibilità di enti indeterminati, ma l’impossibilità sperimentale di misurare simultaneamente il moto e la posizione
di una particella elementare, il che non
riguarda la metafisica, ma la fisica.
Il principio di non-cotraddizione si enuncia
così: “E’ impossibile che qualcosa sia e non sia simultaneamente sotto il
medesimo rapporto”[22].
Ma è possibile purtroppo negare l’evidenza[23] o
contraddirsi o giocare tra il sì e il no, benchè ciò sia peccato o di stoltezza
o di ipocrisia o di astuzia. Per questo è un preciso dovere morale di non
contraddire al vero, non negarlo[24],
ma riconoscerlo francamente e umilmente.
Come già osserva Aristotele, un
contenuto assurdo o il contradditorio – per esempio un cerchio quadrato o una
montagna senza valli - non può neppure essere oggetto del pensiero, perché è un
pensiero che si autodistrugge.
Chi si contraddice, si confuta da solo,
anche se può essere dovere del critico mostrare la contraddizione[25].
Ma l’errante superbo non cede. Cogliamo e riconosciamo il vero, infatti, solo
se ci adeguiamo – adaequatio -,
“obbediamo” umilmente[26] al
reale, senza la pretesa di “porlo” (setzen),
come credeva Fichte. Ma il ribelle, il superbo, l’impostore e il mentitore è un
suicida del pensiero, un “punitore di se stesso”, un eautontimorùmenos, secondo il titolo di una commedia di Terenzio.
Del resto ogni castigo, anche il
cosiddetto “castigo divino”, compreso l’inferno, è un danno che il peccatore fa
a se stesso. L’errore nasconde la contraddizione, ma essa non appare
immediatamente, altrimenti il suo contenuto ripugnerebbe immediatamente alla
ragione, a meno che l’errante non sia un demente o non voglia scherzare.
Dal principio di non-contraddizione discende
immediatamente il principio del terzo escluso: ogni ente o è tale ente o non è
tale. Non c’è una terza possibilità. Dunque
ogni proposizione o è vera o è falsa. Ogni fine o è buono o è cattivo.
Nessuno può sottrarsi alla scelta tra il
bene e il male. L’unica possibilità è che giudichi male il bene e bene il male.
E’ appunto quello che succede ai buonisti, per i quali, essendo “buona”, ossia
buona-cattiva, ogni azione umana, considerano bene anche il male e quindi per
loro sono buone anche quelle azioni che sono cattive. Naturalmente, gli unici ad
essere assolutamente buoni e regola del bene e del male, sono loro.
Dunque anche il buonista è obbligato ad accettare
il principio di non-contraddizione e ciò che ne consegue. Solo che egli finisce
da una parte per far coesistere i contradditori (il male è bene), e dall’altra
trova contraddizione dove non c’è (rifiutando l’opposizione tra bene e male).
Eppure, è impossibile non scontrarsi col
male. Il problema è quello di sapere qual è il vero male e di opporsi a questo.
Vuol dire allora che o noi vinciamo il male o lui vince noi. E’ impossibile non
opporsi al male; tutto sta nel vedere che cosa per noi è male. Chi nella vita
si rifiuta di lottare e soffrire per la verità e la giustizia non è un amante
della pace, ma un vile e un opportunista, che finirà col contrastare i veri
pacifici e con lo stare dalla parte dei prepotenti; sarà vinto dal demonio e
trascinato da lui all’inferno[27].
La vera edificazione della pace
La gelosia divina, dunque, ben lungi dal
mostrare un Dio opprimente possessivo, aggressivo e bellicoso, è l’espressione
di una perfetta lealtà e di immenso zelo
ed amore per l’uomo e, come risulta chiaramente dalla Scrittura e della sana
ragione teologica, indica le vie per la liberazione dal male, per la soluzione
dei conflitti e per il conseguimento della vera pace.
Infatti, il vero pacifico e costruttore
di pace, come insegnano la Scrittura e il naturale senso di giustizia, sa
benissimo che la pace e la guerra non si oppongono in senso assoluto o
radicalmente come il bene e il male. Ma ci può essere una giusta guerra[28],
che serve per difendere o conquistare la pace. In questo senso vale il motto
romano “si vis pacem, para bellum”. Donde l’imperativo di Virgilio “debellare
superbos”. Per questo, Maria canta: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha
disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai
troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1, 51-52).
D’altra parte, una pace che sia semplicemente
un ordine esteriore imposto dal tiranno, che intimidisce il popolo soffocando
ogni opposizione e narcotizzandolo con l’illusione che tutto vada bene, mentre
le ingiustizie rimangono impunite, i prepotenti ne approfittano, lo scontento
turba interiormente gli spiriti e le coscienze, non può essere una vera pace,
ma un tormentoso conflitto più amaro e nefasto di una conflittualità esterna e
visibile.
Cristo chiede una forte energia, che è
lo sforzo ascetico (Mt 11,12), per la conquista del regno dei cieli, e ammette
l’uso della forza per le necessità del mondo presente (Gv 18,36). Tuttavia, la
forza che occorre per la conquista del regno dei cieli non è tanto la forza
delle armi, quanto piuttosto quella interiore, che occorre per dominare le
passioni, portare la croce (ibid.) e per vincere “i principati e le potestà, i
dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano
le regioni celesti” (Ef 6 ,12).
La pace terrena è frutto della lotta
umana; ma è certo sempre imperfetta e precaria; invece la pace del regno dei
cieli è dono di Dio (Gv 14, 27), in special modo dello Spirito Santo[29], frutto
del sacrificio di Cristo, e colma in modo sovrabbondante il desiderio umano di pace.
La pace è anzi uno dei grandi doni messianici e dei principali fini del cristianesimo[30].
Cristo è il Principe della pace. Davanti
a Lui, però, gli uomini devono scegliere: o per Lui o contro di Lui (cf Mt
12,30). O amarlo o odiarlo. Non si può dire sì e no: far così vuol dire servire
due padroni (cf Mt 6,24). Occorre dunque combattere con Lui i suoi nemici. Per
questo dice: “Non sono venuto a portare la pace, ma una spada” (Mt 10, 34).
L’azione bellica, però, per essere legittima
e virtuosa, anche quando entrano in gioco le passioni, dev’essere sempre
guidata dalla ragione. Il combattere irrazionalmente o per odio, può assicurare
una vittoria da barbari o da criminali, ma non certo con onore e gloria, oppure
è il modo migliore per perdere la guerra, come accadde ai nazisti, dopo strepitose
quanto vane vittorie, giustamente condannati a Norimberga, a parte la follia
della loro causa.
E’ chiaro che occorre lealtà nel
combattere[31]
e che non si deve esser spinti dall’odio. Non si deve infatti confondere una
giusta e moderata ira con l’odio. La prima si può chiamare giusta vendetta,
quella che S.Tommaso chiama vindicatio[32].
Egli peraltro è ben consapevole del rischio che essa sfoci nell’odio o nel
rancore, che è volontà di nuocere[33],
cosa contraria alla giustizia e alla carità.
E tuttavia egli ammette che essa possa
essere giustificata in certi casi, ossia quando “l’uomo respinge ciò che gli è
nocivo per il fatto che si difende contro le ingiurie, affinchè non gli vengano
inferte, oppure si vendica delle ingiurie già ricevute non con l’intenzione di
nuocere, ma con l’intento di rimuovere ciò che gli nuoce”[34].
E’ chiaro che qui S.Tommaso parla dell’offensore impenitente e che il pentito
dev’essere perdonato. Soltanto Dio, per la Scrittura, è sempre giusto nella
vendetta[35].
A Lui, sull’esempio di Cristo (I Pt 2,23), dobbiamo affidare la nostra causa,
quando non ci vien resa giustizia dagli uomini.
Dobbiamo pregare e offrire sacrifici per
la conversione dei nostri nemici, ed esser pronti a perdonarli; ma è chiaro che,
se non si convertono, per loro c’è la dannazione eterna, perché in fondo sono nemici
di Dio. Chi è nemico dell’uomo, è nemico di Dio.
Quando quindi Cristo comanda di amare il
nemico, non intende escludere che esso, quando è giusto farlo, non debba essere
punito o combattuto e vinto. L’amore per il nemico, peraltro, non può essere
assolutamente amore per le sue cattive azioni, che invece vanno riprovate o
respinte, ma è apprezzamento dei suoi lati buoni, è il saperlo sopportare
pazientemente, è la disponibilità a perdonarlo, pregando per lui.
Gesù è osteggiato dai nemici della pace,
è “pietra d’inciampo” (Rm 9,32), “segno di contraddizione” (Lc 2,34);
propriamente: antilegòmenon, ossia
“contraddetto”. I malvagi non vanno d’accordo con Cristo, lo «contraddicono» e
Gli fanno guerra; ed Egli, dal canto suo, che è Principe della pace, tuttavia
per questa occasione, estrae la spada della Parola e con essa li colpisce.
Gesù dunque non può andare d’accordo con
i malvagi, ma solo perchè sono loro ad opporsi all’accordo, non accettandone la
base posta da Lui, che è la giustizia. Se infatti l’uomo non si accorda con Dio,
Dio non può accordarsi con l’uomo. Se l’uomo ama il peccato, per forza entra in
disaccordo con Dio. E Dio per amor di pace, non può approvare il peccato.
Cristo, infatti, di per sè, vuole la pace
con tutti. Tuttavia, come sappiamo, è giustamente polemico contro chi la pace
non la vuole, perché non accetta quell’amore per la verità, che è condizione
della vera pace. Per questo Egli inveisce contro gli ipocriti, che apostrofa
con titoli severi: “serpenti, razza di vipere!” (Mt 23,33), “sepolcri imbiancati”
(Mt 23,27). E non si può dire che qui Gesù mancasse di carità; solo che la
carità, quando occorre, sa anche essere severa.
Invece, per il pacifista alla Pannella,
prospettato da Peyretti, diventa male opporsi al male. Egli, badando a salvare
la pelle in ogni modo, finirà pertanto con l’arrendersi alla minima contrarietà
e con lo spaventarsi al colpo di tosse del tiranno, pronto ad adularlo il più possibile.
Oppure fa l’eroe contestando le autorità deboli, miti e pacifiche. Oppure si
accoda ai pecoroni del pastore modernista.
Allora, diciamocela schietta, vuol dire
che il pacifista buonista scambia il bene col male e il male col bene, perché
invece, se si hanno le forze, ci si deve opporre al male. Altrimenti bisogna
sopportarlo con tenacia e perseveranza, con la speranza nella vittoria del
bene. Anzi, come osserva S.Tommaso, la pazienza è la forma più perfetta di
fortezza[36],
la quale, nella forma dell’aggressione o della lotta, sempre secondo
l’Aquinate, moderata da una giusta ira[37],
sopporta la forza avversa.
Il
pacifismo inteso come rifiuto assoluto dell’uso della forza, della lotta
armata, delle sanzioni penali, e quindi dei castighi divini, non è amore per la
pace, ma viltà e cedimento al male, quindi in fin dei conti si ritorce in un
approvare la violenza, le ingiustizie e l’oppressione. Finisce per essere
connivenza col male e complicità col peccato. L’autorità non può non punire i
delitti; vuol dire allora che, se non punisce giustamente, punirà
ingiustamente. Per liberare gli oppressi e i sofferenti può essere necessario
l’uso della forza. E non è questo un lavorare per la pace?
La
buona battaglia
Bisogna distinguere una giusta lotta da
una lotta ingiusta; una giusta guerra da una guerra ingiusta; un giusto uso
della forza o della coercizione da un uso ingiusto. La prima cosa è giustizia,
la seconda è violenza. La prima è virtù, la seconda è peccato. Chi non
distingue la prima dalla seconda, cade nella violenza, perché viene ad
aggredire il bene anzichè il male.
Il peccato non può essere sempre scusato
ed è cancellato solo se il peccatore si ravvede. Non il peccato in se stesso,
ma il peccatore può essere scusato, perdonato o tollerato. Il peccato
dev’essere odiato, condannato, rifiutato, combattuto, tolto o cancellato.
Perdonare o permettere infatti vuol dire approvare, giudicar buono o quanto
meno permesso; ma il peccato non può mai diventare un bene o esser permesso o
tollerato in se stesso.
In questa vita non ci si può esimere dal
combattere o dalla lotta, magari con la scusa del dialogo, della pazienza,
della mitezza o della misericordia. Tutto sta a vedere su quali valori fondiamo
o motiviamo la lotta, in nome di chi o di che cosa lottiamo e soffriamo.
Un conto infatti, è combattere per
Mussolini o per Hitler o per Stalin, e un conto è combattere nel nome di Cristo
o della giustizia o della libertà. Il cristiano sa di “combattere con la forza
che viene da Cristo” (Col 1,29), per poter dire a Dio: “Per te abbiamo vinto i
nostri avversari, nel tuo nome abbiamo annientato i nostri aggressori” (Sal 43,
6).
Un conto è lottare contro il peccato,
contro la sofferenza, contro la carne, contro la morte, contro il mondo e
contro Satana; e un conto è lottare por affermare se stessi sugli altri con
l’astuzia e con la prepotenza. La prima cosa è obbedienza a Dio, è saggezza, è carità,
è generosità, è coraggio. La seconda è stoltezza, è superbia, egoismo,
prepotenza, perfidia.
Inoltre, nella lotta, ci sono delle
regole che vanno rispettate, per sapersi disciplinare, per essere nemici leali,
per aver probabilità di vincere o, male che vada, per cedere le armi con onore.
Tali regole vanno rispettate (II Tm 2,5), per combattere la “buona battaglia”
(I Tm 6,12; II Tm 4,6), per “combattere come il Signore ci ha comandato” (Dt
1,41), per non “battere l’aria” (I Cor 9,26), menando colpi a casaccio con ira
furiosa. Anche la lotta, come insegna S.Tommaso[38],
va condotta con ira moderata dalla ragione, il che è espressione di coraggio,
che nella virtù militare può giungere fino all’eroismo.
Atto nobilissimo di coraggio proprio
dell’agonismo cristiano è il martirio[39],
per il quale il martire, restando saldo nella fede, a prezzo della vita, per
amore di Dio e dei fratelli, con la forza di Cristo, vince la potenza di Satana
e la tentazione al peccato, ad imitazione della carità di Cristo.
La lealtà dell’agone richiede che non si
aggredisca l’avversario con mezzi o argomenti rancorosi, sleali, ingiuriosi, falsi
o sofistici, per vincere con l’inganno o difendere il falso, anzichè il vero.
Bisogna evitare di colpire gli innocenti anzichè i colpevoli; non ci si deve
mettere contro nemici troppo potenti. Rinunciare a separare il grano dal
loglio, se, colpendo questo, si rischia di colpire anche quello. Non ci si deve
lasciar prendere dall’odio o dalla crudeltà.
La pace, all’occorrenza, va difesa con
la forza contro i nemici della pace. Dio certo non vuole che in suo nome si
commetta l’assassinio e l’omicidio, non vuole l’odio e la violenza. Vuole però
che chiunque ne ha le forze, liberi il povero e l’oppresso dalle mani
dell’oppressore. E per ciò non sempre il dialogo è sufficiente. E per tal fine
può essere utile invece anche la guerra. Se non bastano le “buone”, si può
ricorrere alle “cattive”.
Le conseguenze del peccato originale
hanno causato nell’uomo una tendenza all’ingiustizia, alla violenza e all’odio,
che in questa vita, anche tra i migliori di noi, non è mai del tutto vinta,
nonostante il lavoro della grazia. Credere pertanto, nella linea di Rousseau,
della massoneria e di un falso evangelismo, che tutti i contrasti e le
ingiustizie possano esser risolte solo con la buona volontà attraverso
pacifiche trattative, senza ricorrere alle forze della grazia, è un’illusione,
che porta come risultato l’acquiescenza e il cedimento davanti ai prepotenti e
ai criminali.
L’illusione
di Origene
In Dio, come dice S.Paolo, c’è solo il
sì (II Cor 1,19). Certo Dio si oppone a Satana e all’inferno, respinge il
peccato. Ma nell’essenza di Dio è assente l’opposizione tra l’affermazione e la
negazione, tra il sì e il no, che invece sono presenti nel mondo e nella
creatura. In Dio non ci sono contrasti interni e non odia nessuno, salvo il peccato.
Dio, certo, in Cristo compie la “ricapitolazione (anakefalàiosis) di tutte le cose” (Ef 1,10). Ma essa non è la apokacatàstasis di Origene[40],
cioè non si tratta di tornare al punto di partenza, per ricominciare
eventualmente daccapo, ma di attuare un compimento supremo, eterno e definitivo.
Se Satana e il dannato dell’inferno, pur
creati per Dio, hanno detto liberamente e responsabilmente di no a Dio, se cioè
il male, pur non voluto da Dio, è entrato nel mondo e resta per sempre
nell’inferno, anche se solo male di pena, questo non intacca, come credette
erroneamente Origene e come credono i buonisti dei nostri giorni, la sapienza,
la bontà, la giustizia, l’unità, l’armonia e la potenza del piano divino
attuato da Cristo ed espresso nella parola di S.Paolo, ma al contrario mostra
tutte queste qualità, in quanto mostra la vittoria di Dio sul male e come
Egli, restando innocente del peccato,
che non ha voluto, mostra la sua giustizia appunto castigando il peccato.
Inoltre, c’è da considerare che sia i
beati che i dannati conseguono un duplice bene: uno, che riguarda il loro
libero arbitrio, e un altro, che riguarda i loro meriti. Il primo consiste nel
fatto che ognuno ottiene ciò che ha voluto: i beati, la loro unione con Dio; i
dannati, l’assolutizzazione del loro io; mentre, per quanto riguarda i meriti,
i beati sono premiati e i malvagi sono castigati.
Il fatto è che Origene, certamente senza
accorgersene, è rimasto debitore della concezione pagana ciclica della storia e
della realtà, concezione che ritorna nella dialettica hegeliana. La grandiosa
visione origeniana e quella hegeliana, benchè molto diverse tra di loro,
affascinano con la prospettiva della ricostituzione della perfezione,
dell’unità e della pace iniziali, dopo la rottura, la disarmonia e la discordia
provocate dalla disobbedienza e dal peccato, mentre la ricapitolazione paolina,
che lascia sussistere l’inferno, presenta un quadro cosmico, morale e
metafisico, il quale, per il permanere, con l’inferno, del conflitto del mondo
con Dio, dà l’impressione di una situazione irrisolta e, in fin dei conti
genera un senso di frustrazione per un Dio che sembra impotente o non
abbastanza buono.
Eppure, in Origene e in Hegel si
nasconde una sottile e pericolosa insidia, che consiste proprio in questa
coincidenza dell’inizio con la fine del cammino della storia. In Origene,
certamente, Dio è immutabile e al di sopra della storia. Il circolo che si
chiude è solo la storia del mondo, dell’uomo e degli angeli.
In Hegel, invece, Dio diviene, è storia
e, proprio come Dio, è immanente al mondo e alla coscienza dell’uomo. Dio
stesso è un processo dialettico, un “sillogismo”, dove l’inizio coincide con la
fine, un circolo perfetto. Dio pone Sé (affermazione, tesi); si aliena da Sé
nel mondo (negazione, antitesi); torna in Sé come Dio-mondo (negazione della
negazione, sintesi).
L’astuzia
di Hegel
Mentre la circolarità origeniana è
basata biblicamente sulla triade giustizia -peccato - grazia, quella hegeliana
è basata sulla contraddizione logica di affermazione - negazione - negazione
della negazione, come abbiamo visto. Non si tratta, tuttavia, come alcuni hanno
creduto, di una vera e propria negazione del principio di non-contraddizione
fissato da Aristotele, benchè Hegel[41]
non sia sempre chiaro su questo punto.
Infatti Hegel sa bene che non è
possibile affermare e negare ad un tempo
della medesima cosa il medesimo attributo sotto il medesimo aspetto. Egli non è
così sprovveduto da non sapere questo. Così egli spiega che il principio
secondo cui «l’essere e il nulla sono il medesimo» non và inteso nel senso
assurdo che «è tutt’uno che le cose siano o non siano», ma vuol significare la
«filosofia, per la quale è indifferente che le cose siano o non siano»[42].
Senonchè però nel vero divenire le fasi non
sono simultanee, ma si succedono le
une alle altre. Invece Hegel – come è noto - interpreta questo succedersi non
come passaggio dalla potenza all’atto, ma come “unità dell’essere e del nulla”.
Si capisce allora come una simile
spiegazione del divenire e dell’essere stesso, compreso l’Assoluto, non può
fugare tutte le perplessità circa il reale rispetto, in Hegel, del principio di
non-contraddizione, benché egli escluda una semplice identità Dio-mondo, ma parli
di “passaggio” (Durchgang) o “trapasso” (Übergang)
avanti-indietro da un polo all’altro della contraddizione.
Non è l’identificazione del sì e del no,
è vero, cosa che del resto sarebbe assurda, ma è qualcosa di più sottile e, vorremmo
dire, di sleale, ossia l’oscillazione tra l’uno e l’altro, il che porta in
realtà ad un ragionare disonesto e ad un’etica della doppiezza. Non è un contraddirsi, ma un contraddire, il che però resta sempre un’offesa alla verità e alla
coerenza del pensare.
Il guaio è che per Hegel è l’essere come
tale che diviene e non solo l’essere mondano; per cui anche Dio è coinvolto
nelle contraddizioni e nei conflitti della storia. Ma d’altra parte, Hegel
concepisce l’essere come pensiero, cosa che in realtà conviene solo a Dio ed
era già nota ad Aristotele nella famosa nozione del Pensiero del Pensiero (nòesis noèseos).
La dialettica hegeliana oppone sì in
partenza il bene al male, ma promuove, a
conclusione del circolo dialettico, una sintesi tra bene e male. Ciò provoca
sul piano etico un grave fenomeno di doppiezza morale. Si deve dire invece con
forza che il vero bene è la sintesi del bene col bene e si deve altresì affermare
con totale fermezza e certezza l’opposizione assoluta del bene al male.
Questa opposizione ha una base
metafisica relativa all’essere. Infatti, come abbiamo già visto per il principio
di identità, l’essere è inconciliabile col non-essere, il vero col falso, il sì
col no, il bene col male, il peccato con la grazia, il paradiso con l’inferno,
Cristo con Beliar.
Si deve conciliare solo ciò che è
conciliabile – per esempio il rapporto tra Dio e l’uomo - e separare tra loro i
termini inconciliabili, il vero dal falso, il bene dal male, il grano dal
loglio. Questa è onestà e lealtà. Confondere, oscillare o tentare la
conciliazione è doppiezza e ipocrisia, è il metodo della dialettica hegeliana.
Ad Hegel infatti sfugge che la vita può
essere senza la morte, come la vita umana nella beatitudine celeste e
soprattutto la Vita divina. E questo errore dipende dal fatto della suddetta
identificazione hegeliana del reale con l’ideale, dell’essere col pensiero,
della metafisica con la logica.
La dialettica hegeliana è anche legge
della prassi o della volontà. Hegel prende questa concezione dall’idealismo
etico di Fichte e la più importante e famosa applicazione di questa concezione
è data dalla prassi marxista della lotta di classe e della rivoluzione.
La dialettica è dunque una potenza
attiva. Potremmo farla rientrare nella definizione aristotelica della potenza
attiva ripresa da S.Tommaso: “principio del moto o del mutamento nell’altro in
quanto è altro”[43].
Tuttavia c’è la differenza che mentre Aristotele fonda il divenire sul
passaggio dalla potenza all’atto, quindi sulla continuità e il perfezionamento
analettici dell’essere, senza per questo escludere la conflittualità, Hegel usa
esclusivamente il fattore conflittuale dialettico, risolvendo il conflitto
nella sintesi degli opposti.
Infatti, come è noto, il sistema di Hegel è
fondato sull’identità dell’essere col pensiero: l’essere è il pensiero. Nulla
fuori del pensiero, tutto nel pensiero. E quando Hegel dice “pensiero”, intende
anche molte altre cose: il razionale, l’idea, lo spirito, il soggetto, la
coscienza, l’io, il concetto. Da qui
viene il suo panteismo, giacchè, in realtà solo in Dio l’essere si identifica
col pensiero: Egli è Essere sussistente e Pensiero sussistente. In Hegel invece
il mondo è assorbito in Dio. E il panteismo emerge anche dalla concezione
dialettica dell’essere, che abbassa Dio nel divenire del mondo.
L’essere puro e semplice, infatti, per Hegel,
non esiste, ma l’essere è sintesi di essere e del non-essere, l’oscillazione
fra l’essere e il non-essere. Il puro essere è solo il primo passo della
dialettica, l’essere semplice, vuoto ed astratto, che negando se stesso posto
davanti a sè, ecco il “potere del negativo”, innalza se stesso all’Assoluto,
tornando a sé come primo semplice e il circolo si chiude.
Osserviamo che la pace si costruisce con
un’opera di mediazione tra le due parti in conflitto. Affinchè però l’opera
riesca, occorre che le due parti siano accordabili, e per questo bisogna che
abbiano qualche valore in comune, al di là degli elementi contrari o in
contrasto. Occorre allora osservare che c’è mediazione tra i contrari, ma non
fra i contradditori.
L’opera di conciliazione va fatta sulla
base di valori comunemente accettati, tra due contendenti o due partiti, che
possano essere conciliabili grazie al possesso da parte di entrambi di lati
buoni di diversa qualità, che possano integrarsi a vicenda. Tra due eccessi contrari
è possibile e doveroso trovare un equilibrio o un punto medio. Per condurre
all’accordo e farsi stimare da ambo le parti, il mediatore deve essere giudice
giusto e leale giudice, di ampie vedute e sani princìpi, ma anche capace di
discernimento e di leggere nel concreto.
La dialettica giusta, corretta e costruttiva
confronta le tesi od opinioni opposte, trova una mediazione onesta e giunge ad
una soluzione o conclusione vera e coerente, fondata e scientifica, non
contradditoria, e scioglie apparenti contraddizioni; e se la verità non si
trova, resta la legittima reciproca opposizione delle opinioni.
Il
mediatore
La
gelosia divina ci richiama al nostro dovere di rispettare con coerenza e lealtà
l’Alleanza con Dio e, se ci fa sperimentare l’ira divina per le nostre
infedeltà e doppiezze, ancor più testimonia della premura del Padre per la
nostra salvezza col dono di un Mediatore divino, suo Figlio, che toglie al
Padre ogni ragione di essere geloso, perché la sposa non cerca più altri
amanti, ma torna ad essere fedele all’unico Sposo.
Il
giusto ed efficace mediatore deve essere dotato di autocontrollo e imparziale,
eliminare equivoci e malintesi, calmare le passioni e le faziosità, senza
propendere né da una parte né dall’altra, ma deve saper riconoscere qualità e i
difetti di ambo le parti, per congiungere tra di loro le prime e togliere i
secondi, onde rendere possibile l’accordo.
Deve trovare per ambo le parti il medium virtutis, per esempio tra
conservatorismo e modernismo, tra la rigidezza e l’opportunismo, tra
l’eccessiva indulgenza e l’eccesso di severità, tra la timidezza e la temerità,
tra l’avarizia e la prodigalità e così via.
Invece non c’è mediazione fra i
contradditori, tra il sì e il no, tra il vero e il falso, tra il bene e il
male, tra Dio e Satana. Occorre dunque non confondere l’altro o il diverso col
contrario e il contradditorio. Il difetto della dialettica hegeliana è la
pretesa di poter giungere ad un’impossibile e disonesta mediazione, che è l’apologia
dell’opportunismo e della doppiezza. Da questo tipo di mediazione sorgono una
totalità ed un’universalità, che sono false e deleterie, sorge un falsa pace,
che copre l’odio e il rancore ed esalta l’ipocrisia e la menzogna.
Cristo è il modello del Mediatore. La
mediazione infatti deve avere qualcosa di entrambi i termini e qualcosa di comune
ad entrambi. Ora Cristo assolve ad entrambe queste condizioni. Possiede sia la
natura umana che la natura divina, ed inoltre può collegare l’uomo a Dio, perchè
l’uomo è creato ad immagine di Dio, in modo tale che Dio e l’uomo possono
pensare e volere le stesse cose.
Cristo media dunque tra Dio e l’uomo, ma
non tra Dio e Satana, perché qui i due termini sono due volontà inconciliabili:
quella divina e quella della creatura diabolica. Perché la conciliazione possa avvenire,
occorre che la volontà della creatura si adegui a quella divina. Ora, ciò che per
l’uomo è possibile, non è possibile per Satana. Dunque Cristo può conciliare Dio
con l’uomo, ma non con Satana. Mentre due contrari possono essere conciliati, questo
non è possibile per due contradditori. Per questo S.Paolo dice che non ci può
essere intesa fra Cristo e Beliar (II Cor 6,15).
Eppure il Padre celeste ha voluto che
tutte le cose, celesti, terrene e infernali[44] si
raccogliessero attorno a Cristo e sotto Cristo (Col 1,20), non secondo il
monismo circolare buonista di Origene, né secondo quello dialettico di Hegel,
ma secondo quello analettico, partecipativo e pluralista del sommo Analogato
Cristo, Alfa e Omega degli analogati inferiori, gli enti diversificati e
gerarchizzati dell’universo. “Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il
nome che è al di sopra di ogni altro nome, perchè nel nome di Gesù ogni
ginocchio si pieghi, nei cieli, sulla terra e sottoterra, e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 9-11).
In tal modo la mediazione di Cristo soddisfa
alle esigenze della gelosia divina rendendoci fedeli al patto col Padre e
difendendoci dalla seduzione di quelle pericolose attrattive del mondo, che
vorrebbero allontanarci dallo Sposo divino.
P.Giovanni Cavalcoli
Varazze,
19 marzo 2017 (Fontanellato, 30 agosto 2019)
[1] Da notare che
in ebraico colui che noi chiamiamo “redentore”, si dice goèl, che vuol dire “vendicatore”.
[2] Summa Theologiae, I, q.21, a.1; q.20,
a.1, 1m; similmente, si può parlare anche di sofferenza in Dio in senso
metaforico: cf il mio articolo Il mistero
dell’impassibilità divina, in Divinitas,
fasc,II, apr.1995, pp.111-167, in particolare pp.154-159.
[3] Sum.Theol.,I-II, q.28,a.4.
[4] Cf Es
20,5; 34,14; Dt 4,24; 5,9; 6,15; 32,21; Gs 24,19; Sal 78,58; Ez 39,25; Gl 2,18;
Na 1,2; I Cor 10,22; IICor 11,2.
[5] Naturalmente
oggi vi sono tanti modi, migliori dei metodi medievali, per proteggere la
comunità dal danno che può venire da eretici o malfattori; ma il problema
accennato da Caterina resta sempre ed anzi si è aggravato.
[6] Dialogo ovvero Libro della divina
Provvidenza, a cura di G.Cavallini, Edizioni Cateriniane, Roma 1968,
pp.291-292.
[7] Cf Dt 32,4; II Sam 22,2; Sal 31,4; Sal 62,3; Sal
89,27; Sal 92,16; Sal 95,1; Sal 144,1; Is 26,4;
[8] Cf Dt 7,9; Sal 31,6; Sal 86,11; 143,1;; 146,6; Sap
15,1; Is 49,7; Os 12,1; I Cor 1,9; 10,3; I Ts 5,24; II Ts 3,3; II Tm 2,13; Eb
10,23; 11,23; I Pt 4,19; I Gv 1,9.
[9] Si tratta di
una famosa espressione di Lutero,riferita al fatto che in Croce Cristo sembra
perdere il suo aspetto divino.
[10] Fenomenologia dello Spirito, Editrice La Nuova Italia, Firenze
1988, vol.I, p.26.
[11] Cf S.Tommaso, Summa contra Gentes, l.I,c.83.
[12] Si tratta di un
“prima” trascendentale, non temporale, giacchè, dato che il tempo ha avuto
inizio con la creazione, è evidente che non ha potuto esistere un prima del
tempo. Tuttavia questa espressione è stata usata da Cristo: “prima che il mondo
fosse” (Gv 17,5), per esprimere appunto l’esistenza di Dio prima della
creazione.
[13] Denz.1529.
[14] Da Per una
lettura della storia. Con occhio cristiano, discorso tenuto all’Università
Urbaniana di Roma, pubblicato su L’Osservatore
Romano del 14-15 marzo 2017.
[15] Philosophie der Religion, XV, vol. 1, p. 125.
[16] «E
noi crediamo che l’unica narrazione di Dio la ha fatta un Gesù di Nazareth. Per
cui noi dobbiamo credere di Dio solo quello che ci è narrato da Gesù. Quello
che non ha narrato Gesù, io come cattolico cristiano non sono tenuto a crederlo
di Dio». Da: “Mutazioni – ogni cosa ha la sua stagione˝, You Tube
video 01:34:25, posted by “Alzo gli Occhi”, 19 febbraio 2014. Web, 3 Settembre
2018, [45:16 – 49:38]. Tratto da https://www.youtube.com/watch?v=V0M7qyXkx1s.
[17] E’, in fondo,
la famosa interpretazione di Lutero di Rm 3,21: la “manifestazione della
giustizia di Dio” coincide con la sua misericordia. Adesso Lutero è certo di salvarsi. Ma
successivamente, nella convinzione di approfondire il mistero di Dio ed essere
più disponibile alla sua volontà, che è ancora e sempre “misericordia”, ma anche
pare crudeltà, ritornerà il Dio fatalista di Ockham, che può aver deciso la propria
dannazione. Le opere non contano nulla. Allora l’unica soluzione apparirà la resignatio ad infernum, che è sempre
“misericordia”.
[18] Cf J.Lortz-E.Iserloh, Storia della Riforma, Società Editrice
Il Mulino, Bologna 1990, p.41.
[20] Cf il famoso
Commento di S.Tommaso al libro IV della Metafisica di Aristotele, dal lectio XV
alla XVII, a cura di Raimondo Spiazzi nell’Edizione Marietti, Torino-Roma 1964.
[21] Secondo la
famosa definizione tomistica di Dio come Ipsum
esse per Se Subsistens, Summa
Theologiae, I, q.3,a.4.
[22] Cf la nota 20. La
dialettica hegeliana passa per essere una “riforma” del principio aristotelico
di identità. Ma in realtà non si tratta
altro che dell’inclusione del terzo escluso, che produce una “sintesi” tra il
sì e il no. Hegel poi pretese di giustificare questa trovata in base al
principio di non-contraddizione da lui “reinterpretato”. Quanto a Cartesio,
egli giudicò sprezzantemente questo principio come “tautologia”. In realtà,
esso è utile per confutare il suo sistema. Cf., su questo principio, J.Maritain,
Sept leçons sur l’ȇtre et les premiers
principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934, 5ème Leçon; T.Alvira –
L.Clavell – T.Melendo, Metafisica, Le
Monnier, Firenze 1987, c.III; J.Villagrasa, Metafisica,
II, Ateneo Pontificio Regna Apostolorum , Roma 2009, cap.9.
[23] Il Catechismo di S.Pio X annovera questo
peccato tra i “Sei peccati contro lo Spirito Santo”: “impugnazione della verità
conosciuta”. Non è in buona fede e pecca di superbia chi nega la verità
evidente o pretende che sia dimostrata o nega una verità che, per la sua
competenza – per esempio un teologo -,
dovrebbe riconoscere e che è tenuto a sapere, o chi, convinto di errore,
non si arrende, per esempio i farisei nei confronti di Cristo.
[24] La ribellione
originaria alla verità, secondo il racconto biblico, viene dal demonio (Gen
3,4). Per questo, Cristo lo chiama “padre della menzogna”.
[25] Può capitare
che un filosofo voglia mostrare una contraddizione dove non c’è, come per
esempio ha tentato di fare Kant, negando valore alle prove razionali
dell’esistenza di Dio. E allora è lui che si contraddice e confuta se stesso.
Ma anche ciò deve essere dimostrato dal filosofo sapiente. Cf per es. A.Zacchi,
Dio. La negazione, vol.I, Editore
Francesco Ferrari, Roma 1946.
[26] E’ sul piano
gnoseologico che vale anzitutto il detto di Cristo: “Chi si esalta sarà
umiliato, chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11).
[27] Cf il mio libro
L’inferno esiste. La verità negata,
Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
[28] Per S.Tommaso
essa è espressione della virtù della fortezza: Sum.Theol.,II-II, q.123, a.5.
[29] Rm 8,6; 14,17; Gal 5,22; Ef 4,3.
[30] Cf Gv 14,27; Gv 16,33; Ef 2,14; 2,17; Col 3,15; II Ts
3,16.
[31] Cf II Tm 4,7; I
Cor 9,26.
Gli
antichi Ordini cavallereschi erano molto esigenti nel prescrivere la lealtà nel
combattimento, oltre, si capisce, ad esigere la giusta causa. Tanto che, come è
noto, esistevano addirittura Ordini religiosi militari. Tale fu il caso dei
Templari. E S.Tommaso, tra le varie forme di vita religiosa, cita appunto anche
questa: Sum.Theol.,II-II, q.188, a.3.
[32] Vedi per
esempio le parole di Gesù alla guardia che lo ha schiaffeggiato: “se ho parlato
male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv
18,23).
[33] Quello che la
Scrittura chiama “ripagare il male col male” (Rm 12,17). Ma la giusta vendetta
è un bene.
[34] Sum.Theol., II-II, q.108, a.2.
[36] Sum.Theol.,II-II, q.123, a.6.
[37] Ibid., a.10.
[38] Sum.Theol., II-II, q.123, a.10.
[39] Sum.Theol., II-II, q.124.
[40] Cf H.Crouzel, Origene, Edizioni Borla, Roma 1985.
[41]
Cf il mio
articolo La contraddizione in Tommaso d’Aquino e in Hegel. Riflessioni su di un
libro di Giovanni Ventimiglia, In
Dialettica positiva. Dal realismo del senso comune al realismo metafisico,
a cura di Fabrizio Renzi, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2014, pp.65-75.
Il libro di Ventimiglia è il seguente: Differenza
e contraddizione. Il problema dell’essere in Tommaso d’Aquino. Esse, diversum,
contradictio, Vita e Pensiero, Milano 1997.
[42] Cf Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, Editori Laterza, Bari 1963, p.94.
[43] Comm. alla Metafisica di Aristotele,
l.V, c.12, lect.XIV, n.955, Marietti, Torino 1964, p.256.
[44] La divina
provvidenza agisce anche a favore dei dannati, “sotto terra”, benchè puniti
eternamente, i quali pure piegano il ginocchio, benchè per forza, davanti alla
Signoria di Cristo. Non c’è bisogno di ricorrere ad Origene, Von Balthasar o
Rahner, anzi è meglio non farlo, per risolvere le difficoltà offerte dalle
parole di Cristo sull’inferno. Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata,
Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.