Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice - Prima Parte (1/3)

Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice

Continua il dialogo con Bruno. 

Prima Parte

Da: Abramo, maestro di libertà religiosa - del 1-3 agosto 2022

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/abramo-maestro-di-liberta-religiosa.html

 

Caro Padre Giovanni,


un possibile riflesso (che non significa confusione) tra il sacrificio di Isacco e il tema evangelico dell’amare Dio più dei propri cari, ed esser disponibili ad abbandonarli per la sequela di Cristo, non è solo una mia idea ma, ho scoperto, esser stata proposta anche da un teologo (pur non cattolico) dello spessore di Dietrich Bonhoeffer (https://www.donboscoland.it/it/page/l-impegno-di-seguire-gesu-e-il-singolo-uomo):
«Abramo fu chiamato da Dio a sacrificare il figlio Isacco. Cristo si pone fra il padre della fede ed il figlio della promessa. Qui viene spezzata non solo una relazione immediata naturale, ma anche una relazione spirituale. Abramo deve imparare che la promessa non è legata nemmeno ad Isacco, ma appunto solo a Dio […]


Egli accetta la chiamata così come gli è stata rivolta, non cerca interpretazioni sofisticate, non la spiritualizza; egli prende Dio alla lettera ed è pronto a obbedire. Egli obbedisce alla parola contro ogni rapporto naturale immediato, contro ogni rapporto religioso immediato. Egli sacrifica il figlio. È pronto a compiere la rottura in maniera visibile, per amore del mediatore. E in quello stesso momento gli viene donato di nuovo tutto ciò che aveva sacrificato. Il figlio viene restituito ad Abramo. Dio gli mostra una vittima migliore, che deve sostituire Isacco. È una svolta di 360 gradi; Abramo possiede di nuovo Isacco, ma in maniera diversa da prima. Lo ha avuto dal mediatore e per amore del mediatore. Poiché era pronto ad ascoltare e osservare alla lettera il comandamento di Dio, egli ora può tenere Isacco come se non lo possedesse, può averlo tramite Gesù Cristo […]


Cristo si è posto tra padre e figlio. Abramo aveva abbandonato tutto e aveva seguito Cristo, e proprio mentre si trova al suo seguito ora può vivere di nuovo nel mondo, nel quale era vissuto prima […]


Questa è l’altra possibilità di essere isolato in mezzo alla comunità, in mezzo al proprio popolo, nella casa paterna, in mezzo ai propri beni e alle proprie ricchezze; essere seguace di Cristo. Ma è appunto Abramo a essere chiamato a questa vita, Abramo, il quale prima dovette subire la rottura visibile, Abramo, la cui fede divenne esemplare per il Nuovo Testamento […]


Veniamo chiamati secondo la volontà di Gesù, in una maniera o nell’altra, a uscire dai rapporti immediati, e dobbiamo divenire degli isolati, visibilmente o in segreto. Ma lo stesso mediatore che fa di noi degli isolati, in questo modo è anche causa di una comunione assolutamente nuova. Egli sta al centro, tra l’altro uomo e me. Egli separa, ma unisce pure. Ogni via immediata per raggiungere il prossimo è sbagliata; ma ora a chi segue Cristo viene indicata una via del tutto nuova e l’unica reale, che raggiunge l’altro passando per il mediatore.
«Pietro prese a dirgli: ‘Ecco noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito’. Rispondendo Gesù disse: ‘In verità, vi dico, non c’è nessuno che abbia abbandonato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli e campi per amar mio e il vangelo e non riceva il centuplo ora in questo tempo, in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi insieme a persecuzione e nel tempo a venire la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi primi» (Mc. 10,28-31).
Gesù qui si rivolge a quelli che sono divenuti degli isolati per amor suo, che hanno lasciato tutto quando egli li chiamò, che possono dire di sé: «Ecco, abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito». A costoro viene promessa una nuova comunione. Secondo la Parola di Gesù già in terra riavranno il centuplo di ciò che hanno abbandonato. Gesù qui parla della sua comunità che si ritrova in lui. Chi ha abbandonato il padre per amore di Gesù trova sicuramente un altro padre, trova fratelli e sorelle; e per lui sono pronti persino campi e case. Ognuno entra come singolo al seguito di Gesù, ma nessuno resta isolato seguendo Gesù. A colui che, obbedendo alla sua Parola, osa divenire un isolato viene donata la comunione della comunità. Egli si ritrova in una confraternita visibile, che gli ridà centuplicato ciò che ha perduto».

 

Caro Bruno,

la meditazione di Bonhoeffer è molto bella, ma, mi spiace dirlo, non colpisce il bersaglio, nel senso che non possiamo paragonare il lasciar tutto per Cristo con quanto Abramo aveva inteso in un primo tempo che Dio volesse da lui.
La meditazione di Bonhoeffer si adatta benissimo a quelle che sono le esigenze della vita religiosa, ma non è in grado di interpretare correttamente il sacrifico di Abramo. Infatti, quando Cristo ci chiede di lasciare tutto per Lui, in questo lasciare tutto possiamo includere, secondo l’uso delle antiche religioni, l’uccisione della vittima da parte del sacerdote, come capro espiatorio, e di ciò abbiamo testimonianza nella Bibbia.
Ma, nel caso di Abramo, la prospettiva che Abramo aveva capito in un primo tempo non era per nulla quella di sacrificare un animale, ma di compiere un sacrificio umano, cosa che Dio in realtà non ha mai voluto e non può volere, come attesta la Bibbia stessa. Per questo noi oggi proviamo orrore per quei sacrifici che nel secolo XVI compivano gli Incas in America Latina.

Detto questo, chiediamoci che cosa significa esattamente quel lasciare tutto per Cristo, di cui parla anche San Pietro. Certamente in questo impegno c’è la rinuncia ad alcuni beni preziosi, come il matrimonio, la libertà personale e la proprietà privata, che corrisponde ai famosi tre voti religiosi o consigli evangelici.

Cosa significa rinunciare, in questo caso? Significa evitare di fruire di questi beni, il che non comporta affatto la loro distruzione, ma al contrario la loro stima in coloro che onestamente ne fanno uso. Per esempio, noi religiosi rinunciamo al matrimonio, ma se un nostro parente si sposa siamo ben contenti.

E che cosa significa il centuplo promesso dal Signore per questa vita e nella vita futura? Significa il fatto che questi beni in qualche modo ci vengono restituiti assai arricchiti da Dio stesso per mezzo dei nostri Superiori, grazie alla nostra vita nel nostro Istituto, i cui beni diventano gli stessi nostri beni. Facciamo un esempio: io, avendo rinunciato a formarmi una famiglia, ho rinunciato ad avere una casa di mia proprietà. Ma ecco che, facendomi religioso, tutti i conventi del mio Ordine diventano casa mia.

Anche i Padri gesuiti della comunità di Villapizzone, Beppe Lavelli e Giuseppe Riggio, commentando Luca 14, 25-35 (https://www.gesuiti-villapizzone.it/sito/trascrizioni/lc15/4/lc_082.pdf) hanno rilevato, a modo loro, un qualche rapporto tra le parole di Gesù sull’«odiare» i propri cari e la propria stessa vita, e il sacrificio abramitico di Isacco:

«Per seguire Gesù bisogna avere per lui un amore superiore che per ogni altra persona, maggiore di quello che uno ha per la propria vita […]

“Se qualcuno viene da me
e non odia
il proprio padre e la madre
e la donna e i figli
e i fratelli e le sorelle
e inoltre anche la propria vita,
non può essere mio discepolo”.

Cosa sta dicendo qui Gesù? Sta dicendo, sta offrendo a queste persone che lo seguono il vero criterio per diventare suo discepolo. Allora odiare il proprio padre e la madre, le proprie origini e poi la moglie, i figli, i fratelli, anche la propria vita. Non è che il Signore ci sta mettendo di fronte ad una impossibilità? Sì ci sta mettendo di fronte a un’impossibilità, non ci sta dicendo che siamo chiamati ad odiare […]

Non possiamo mettere gli altri, nemmeno il padre e la madre, la moglie, i figli, fratelli, nemmeno noi stessi al posto di Dio.
Questo è stato il peccato delle origini, metterci noi al centro, invece che essere messi noi al centro da parte di Dio […]

Allora, odiare la propria vita significa fidarsi a tal punto del Signore che mi fido più di lui che di me. Il salmo 62 dice: Poiché la tua grazia vale più della vita. Questa è la posta in gioco […]
Prima citavo Abramo: il bene per eccellenza che riceve è Isacco, gliel'ha promesso il Signore. Abramo si sarebbe accontentato anche del povero Ismaele e invece il Signore: No, uno nato da te. Finalmente gli dà Isacco e poi sembra che glielo tolga. Abramo si deve allontanare anche da Isacco, per il bene di Abramo e per il bene di Isacco. È chiamato a riconsegnare quel dono lì, è chiamato a fidarsi del donatore.
Allora, allontanarci da tutto vuol dire avvicinarci di più a Gesù, andare più vicino a lui. È una direzione del cammino.


[…] Invece, fare come Abramo. Ci ha messo un po’ anche lui, ma arrivare pian piano su quel monte e lasciare lì Isacco, lasciarlo lì al Signore. Il Signore non ci chiede indietro Isacco […] Ma vuole che impariamo ad accogliere queste cose, davvero, come dei doni; a non diventare padroni di queste cose. Difatti, si diceva Abramo su quel monte sacrificherà non l'agnello di cui ha parlato con Isacco, ma l'ariete che dell'agnello è padre. Se c'è qualcuno da sacrificare lì è Abramo. Cioè togli le mani da tuo figlio, lascialo lì. Non farti padrone di lui. Questo sta dicendo Gesù. Allontanati da tutto ciò che hai, perché in quel modo ci sarai tu e basta. Davvero potrai essere mio discepolo, davvero potrai cominciare a fidarti di me. Altrimenti ti fiderai sempre di altro e non potrai sperimentare che io ci sono, che io ho cura della tua vita».

Caro Bruno,

dovrebbe essere molto chiaro che questo “odio” di cui parla Gesù non va affatto preso alla lettera, ma, come appare chiaramente dal contesto, significa semplicemente quella rinuncia e quel distacco da certi beni terreni, dei quali ho parlato sopra. Gesù non chiede che, per rinunciare ad avere un figlio, dobbiamo ammazzare nostro figlio.
In secondo luogo, riconosco che il sacrificio di Abramo è il sacrificio della sua stessa volontà, ossia il suo atto di obbedienza a Dio.

Per quanto riguarda il paragone tra il sacrificio di Abramo e quello di Cristo, direi che la cosa essenziale, come è rilevato dalla Lettera agli Ebrei, c.10, è il sacrificio della volontà, ossia, come ho detto sopra, l’atto d’obbedienza. Tuttavia è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo.

Lei, Padre Giovanni, ha più volte sottolineato i vantaggi che questa nuova esegesi presenta nei confronti della precedente.
Mi permetta di sottolineare quello che considero invece un non trascurabile svantaggio di tale nuova interpretazione del sacrificio abramitico.
Mi riferisco al contraccolpo, sul piano pastorale, che un credente di media o anche di bassa cultura, riceverebbe, nel momento in cui essa si affermasse definitivamente nella Chiesa.
Pensiamo dunque a una persona semplice, che non ha fatto particolari studi, ma ha deciso di accogliere l’invito, più volte rivoltogli dagli ultimi pontefici, di accostarsi alla Sacra Scrittura (Papa Francesco ha addirittura istituito, nella terza domenica del Tempo Ordinario, la “Giornata della Parola” tramite la Lettera apostolica “Aperuit illis”).
Ebbene, proviamo a immaginare questo umile credente che, dopo aver letto in Genesi 22 “Dio mise alla prova Abramo e gli disse […] Prendi tuo figlio […] e offrilo in olocausto”, cerca di meditare queste parole, prova a capire cosa possono dire alla sua coscienza di cristiano dato che, gli è stato sempre detto, sono state redatte da uomini ma ispirate da Dio, sono “Parola di Dio”….
E poi si imbatte in una nota che gli spiega che in realtà, quello che ha letto… non è vero.
Lei, Padre Giovanni, mi dirà: “non è corretto dire che non è vero, bensì che non deve essere interpretato alla lettera ma…”.
Sì d’accordo, ma resta il fatto che, per questa persona, avulsa da certi distinguo, concretamente, la frase appena letta nella Bibbia dove lapidariamente è scritto che Dio disse ad Abramo “offrilo in olocausto”, viene ad essere radicalmente ribaltata in “Abramo credette che Dio…”
Quale potrebbe essere la reazione di questa persona? Non mi sembra improbabile che qualcuno dei seguenti pensieri potrebbe far breccia:
“dunque, non devo mai fidarmi di quello che leggo nella Bibbia… ciò che conta davvero è l’interpretazione della Chiesa… ma allora più che leggere il testo sacro, e rischiare di prendere lucciole per lanterne, tanto vale che mi legga soprattutto commenti e note… e se invece fossero certi esegeti a far dire alla Scrittura quello che vogliono? E se prima, per tanti secoli si è interpretato in un modo, ed ora in un altro, chi mi dice che anche ora, le attuali interpretazioni di tanti passi biblici non siano sbagliate, ma lo si scoprirà solo in futuro? Ma allora, forse, è meglio che mi faccia una mia idea su tutto, senza lasciarmi influenzare da nessuno (la famosa fede “fai da te”)…”.
Esagero? Può darsi, ma temo che un’interpretazione del genere possa, da un lato, incrementare una certa diffidenza verso la Parola di Dio, dall’altro, aumentare la distanza tra una “casta” di eletti (teologi, biblisti, studiosi, ecc…) e la gran parte della comunità dei credenti.

Caro Bruno,

il compito degli esegeti e dei biblisti, come la stessa Chiesa insegna, è quello di spiegare quei passi oscuri sui quali occorre fare chiarezza. Certamente la loro opera non è infallibile. Tuttavia svolgono un prezioso servizio, grazie alla loro preparazione scientifica, all’opera del Magistero, al quale, per volontà di Cristo, spetta valutare e giudicare il modo definitivo quanto è risultato dalle loro indagini. In tal modo i dogmi della Chiesa sono sempre stati preparati dal lavoro di esegeti e teologi.
Nel lavoro di interpretazione della Scrittura, il credente progredisce continuamente verso una sempre migliore comprensione della Parola di Dio. Come avviene questo progresso? In diversi modi: qualunque fedele può, anche da solo, scoprire un nuovo aspetto della Parola di Dio o accorgersi di una interpretazione sbagliata. Tuttavia è chiaro per noi cattolici che per questo ufficio non facile, per volontà di Cristo esiste un ceto di interpreti ufficiali, che sono i Successori degli Apostoli, sotto la guida del Papa. Questi nostri fratelli, assistiti dallo Spirito Santo, hanno altresì il compito di valutare le nuove interpretazioni proposte dagli esegeti e da comuni fedeli, e quindi di esprimere una sentenza definitiva.

Inoltre, bisogna tenere presente che, se un esegeta propone una nuova interpretazione, che non sia in contrasto con la dottrina della fede, qualunque fedele, che resti persuaso da questa nuova interpretazione, è libero di accettarla o meno, anche se il Magistero non si è pronunciato.

Qual è il compito del comune fedele? È quello innanzitutto di recepire gli insegnamenti del Magistero e poi, se ne ha i mezzi o le capacità, può essere quello di seguire il lavoro degli esegeti, riservandosi di dare su ciò un proprio giudizio, perché gli esegeti, per quanto esperti, non sono infallibili come lo è invece il Magistero, il cui insegnamento è riassunto nel CCC, Catechismo Chiesa Cattolica, e proclamato nel Simbolo della fede.

Che sia evidente la necessità della giusta interpretazione di certi passi della Scrittura, lo si evince da certi fatti incresciosi realmente accaduti, come quello per esempio quello di un tale che, leggendo le parole del Signore: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala”, si è veramente amputato la mano.

Oppure possiamo ricordare il caso famoso della vicenda galileiana. Giosuè comanda al sole di fermarsi: “Fermati, o sole”. La Bibbia racconta che effettivamente il sole si fermò fino a che la battaglia non fu finita. Ora, dovrebbe essere chiaro che, prendendo alla lettera simili parole, siamo davanti a un miracolo assurdo, per cui non si può prendere a pretesto la Parola di Dio per avallare qualche cosa che la scienza dimostra essere falsa, come del resto la Chiesa non ha motivo di dichiarare come verità di fede, come pretendeva Galileo, delle tesi semplicemente attinenti al mondo fisico.

Lei ha scritto:
«Ora, i casi sono due. O Dio dà un contrordine, o Abramo corregge la sua interpretazione della volontà di Dio. Ma è assurdo che Dio possa dare un contrordine ed inoltre è impensabile che Dio possa ordinare un sacrificio umano smentendo poi quello che ha detto».
Nell’affermare che “è assurdo che Dio possa dare un contrordine”, lei interpreta, nell’esegesi tradizionale, l’intervento dell’angelo come un contrordine che sarebbe in stridente contrasto rispetto alla richiesta iniziale di sacrificare Isacco. Ovvero Dio, nell’esegesi tradizionale, cadrebbe in contraddizione (il che è ovviamente impossibile) perché prima comanderebbe una cosa e dopo, al contrario, revocherebbe il precedente comando.
Io ritengo che tale contraddizione non sussista perché la situazione, il contesto in cui avviene il primo comando, e la situazione/contesto in cui avviene la revoca dello stesso, sono profondamente diverse. Se i due eventi avvenissero nella stessa situazione/contesto allora sì che vi sarebbe una chiara contraddizione, ma non è questo il caso.
Per fare un esempio, immaginiamo una cittadella sotto assedio.
All’alba di un certo giorno, gli assedianti sferrano un attacco contro i bastioni della fortezza, sicché il comandante della guarnigione degli assediati ordina ai suoi: “aprite il fuoco!”.
I difensori della cittadella obbediscono all’ordine ricevuto, in modo talmente efficace, che gli assalitori sono costretti a ritirarsi.
A questo punto, il comandante di prima dà il contrordine: “cessate il fuoco!”
Questo contrordine può essere interpretato come “mi ero sbagliato prima, non dovevate aprire il fuoco”? Certamente no.
Prima, a fronte dell’assalto alla cittadella, era stato più che giusto ordinare di difendersi attivamente con le armi; dopo, quando l’esercito degli assalitori è in rotta e ormai lontano, era stato altrettanto giusto ordinare la cessazione dell’uso delle armi. I rispettivi contesti, in cui sono stati impartiti l’ordine e il contrordine, erano oggettivamente diversi, sicché essi non danno luogo ad alcuna situazione contraddittoria perché ciascuno di essi è stato, la “cosa giusta” da fare “al momento giusto”.
Analogamente, se uno dopo aver letto Genesi 46, 2-3, in cui Dio dice a Israele/Giacobbe di recarsi in Egitto, ed aver letto successivamente i passi dell’Esodo dove Dio dice a Israele/Mosé di lasciare l’Egitto, affermasse che i due ordini, essendo l’uno il contrario
dell’altro, proverebbero un contraddittorio cambiamento della volontà divina, evidentemente sbaglierebbe. I due contesti situazionali sono diversi. Dio ordina a Giacobbe di scendere in Egitto, perché in Palestina il clan del patriarca si stava legando troppo con una popolazione che ne avrebbe insidiato la fede e la moralità (Genesi 34 e 38), sicché nell’isolamento in terra egizia avrebbero potuto conservare la propria identità, ma tale ordine è già in prospettiva dell’Esodo (“Io scenderò con te in Egitto e io certo ti farò tornare” (46, 4). Con Mosé, non vi sarà più tale esigenza, e sarà, per Dio, il momento giusto perché si compia il ritorno alla terra promessa.
C’è un momento in cui è giusto ordinare di combattere e un altro momento in cui è giusto far smettere di combattere, un momento in cui è giusto ordinare di andare in Egitto e un altro momento in cui è giusto ordinare di lasciare l’Egitto, un momento in cui è giusto mettere alla prova Abramo (perché non ha ancora dimostrato i limiti della sua fede) e un “altro” momento, quando Abramo ha dimostrato la sua fede obbedienziale, in cui è giusto porre fine a tale prova.
Le diversità sostanziali dei contesti situazionali in cui si manifestano, rispettivamente, l’ordine e il contrordine, ne eliminano l’apparente contraddittorietà.

Caro Bruno,

i paragoni che lei fa con la città assediata e con la situazione di Israele in Egitto non sono calzanti e quindi non sono sufficienti a conservare l’interpretazione tradizionale e ad infirmare l’interpretazione che propongo io. Infatti, in questi casi non si tratta di contrordini, ma di ordini giusti relativi al mutare della situazione.
Il caso di Abramo, considerando lo stesso testo letterale della Scrittura, fa apparire chiaramente un contrordine divino con un Dio che prima comanda di uccidere Isacco e poi comanda di risparmiarlo.

Ora, io mi domando: può Dio veramente comportarsi in questo modo? Può nel primo e nel secondo tempo trattarsi sempre della volontà di Dio? Si può in questo contrasto trovare una coerenza nella volontà di Dio? Evidentemente, no.
Allora, per uscire da questa stretta, non c’è altra via che ritenere che Abramo, in un primo tempo, forse influenzato inconsapevolmente dalle religioni che praticavano sacrifici umani, in buona fede abbia scambiato la vera volontà di Dio, che vuole la vita e non la morte, con quella idea che si era fatta della volontà divina.
Teniamo inoltre presente che la nozione che Abramo poteva avere di Dio era estremamente primitiva e probabilmente risentiva ancora del politeismo della terra che Abramo aveva abbandonato. Nello stesso tempo Abramo, illuminato dall’angelo, compie un gran balzo nel passare da un concetto di un Dio, che chiede in sacrificio la vita umana, a un Dio della vita, e questo gran balzo va a tutto merito di Abramo a rafforzare il valore della prova alla quale Dio lo aveva sottoposto.
Inoltre è chiaro che questo balzo Abramo non lo fa in forza della sua semplice ragione, ma perché, illuminato dall’angelo, compie un atto di fede soprannaturale.
È solo col Nuovo Testamento che appare con chiarezza che, se Dio ha voluto un sacrificio umano, questo non poteva essere altro che il Sacrificio dell’Uomo-Dio, Nostro Signore Gesù Cristo.

Caro Padre Giovanni,
le preannuncio che è mia intenzione, dopo quest’ultimo commento, non intervenire ulteriormente sul tema in oggetto.
Desidero comunque ringraziarla per l’attenzione e il tempo che ha voluto dedicare ai miei interventi. Anche quando mi trovo in disaccordo con lei, la lettura delle sue considerazioni è sempre, per me, fonte di arricchimento spirituale e stimolo ad approfondire le mie posizioni.
Dicevo prima che non penso di ulteriormente replicare a quanto, eventualmente, lei vorrà ancora dirmi su questo argomento, per due motivi: il primo è che ritengo che ormai siano sufficientemente chiarite le nostre rispettive posizioni e i relativi punti di divergenza, e rischieremmo di ripeterci, con scarso giovamento per noi e per chi ci legge…; il secondo motivo è che non vorrei abusare dello spazio che lei concede sul blog, arrivando quasi a monopolizzarlo rispetto ad altri lettori, che magari le avranno fatto pervenire differenti tematiche e spunti, su cui desidererebbero, Padre Giovanni, una sua opinione.
Lei ha scritto:
«i paragoni che lei fa con la città assediata e con la situazione di Israele in Egitto non sono calzanti […] Infatti, in questi casi non si tratta di contrordini, ma di ordini giusti relativi al mutare della situazione».
Osservo che anche tra il momento in cui, nel testo biblico, Dio richiede il sacrificio di Isacco, e il momento in cui Dio ferma la mano di Abramo, la situazione del padre di Isacco è profondamente mutata.
Nel momento in cui Abramo riceve il primo comando per testare la grandezza della sua fede, egli è l’uomo che sinora ha obbedito a Dio, lasciando Ur dei Caldei per la terra di Canaan (Gen 12, 5-9), gli è stata frequentemente rinnovata la promessa di Dio (Gen 13, 14-18; 15, 1-17) culminante nell’imposizione del nuovo nome Abraham (“padre di un popolo”), nell’istituzione della circoncisione (Gen 17, 11-14), e infine nella promessa di una generosa discendenza, nonostante l’età avanzata sua e della moglie Sara, realizzatasi nella nascita del tanto amato Isacco.
Eppure, agli occhi di Dio, Abramo, non ha ancora dimostrato se la sua fede metta davvero Dio al di sopra di tutto, oppure sia soprattutto riconoscenza di quanto ricevuto, che finisce per essere attaccamento più ai doni che al Donatore.
E cosa avviene dopo il primo comando?
Che Abramo affronta tre giorni di inferno: sella l’asino che sa li porterà nel luogo previsto per l’olocausto, spacca la legna su cui dovrà bruciare il corpo del figlio, si mette in viaggio, avvista infine quel luogo maledetto, allontana i servi perché è troppo gelosamente intimo ciò che sta per avvenire, prosegue solo col figlio, la legna e il coltello e, dolorosissima, gli arriva la domanda di Isacco “ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”, ed Abramo trova la forza per una risposta meravigliosa, in quanto non è una menzogna pietosa per il figlio, e nel contempo, manifesta sia la forza della sua fede, che un’estrema supplica verso l’Altissimo: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”, ed infine, la “passione” di Abramo raggiunge il suo climax, colla sua mano che brandisce il coltello, che significa “Dio, contro tutto, nella disperazione più assoluta, io confido in Te”.
Ebbene, possiamo sostenere che nulla di importante sia avvenuto per Abramo, tra il primo comando e il secondo comando, mediato dall’intervento dell’angelo? Dopo tutto quanto Abramo ha dimostrato, nella propria carne e nel proprio spirito, non è forse cambiata la sua situazione esistenziale e spirituale, per lui e davanti a Dio?
E dunque, il comando di fermare il sacrificio del figlio, che lo si chiami contrordine o ordine giusto, non contraddice il primo comando ma sancisce il superamento di quella prova, richiesta da Dio, che non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta.
Grazie ancora, Padre Giovanni.

Caro Bruno,

che Dio chieda ad Abramo una prova di fede, è cosa più che evidente ed è anche chiarissimo che egli l’abbia superata in modo esemplare, tanto che è diventato Padre nella fede delle tre religioni monoteistiche.

Ci poniamo però una domanda: il merito della fede di Abramo in che cosa consiste? Nell’atto di fede o in ciò in cui crede, ossia l’oggetto della sua fede?
Ora, lei stesso riconosce che Abramo muta condotta, sempre però esercitando la fede. Ma che cosa vuol dire “muta condotta”? Non vuol dire che muta l’atto di fede; anzi esso aumenta passando dalla prima convinzione di Abramo alla seconda.
Ma, riguardo all’oggetto della sua fede, che cosa dobbiamo dire? Che cosa Abramo aveva capito all’inizio? Capisce qualcosa, che poi viene impedito e proibito dall’angelo. Ma l’angelo a nome di chi parla? A nome di Dio. Allora, bisogna andare con la logica: se l’angelo dice ad Abramo: “Non fargli del male”, dobbiamo dedurre logicamente che prima gli stava facendo del male ad Isacco.

Ora, se noi prendiamo alla lettera il famoso comando di Dio, ne viene la conseguenza che la volontà divina si svolgerebbe in due tempi: in un primo tempo Dio avrebbe voluto il sacrificio di Isacco, mentre in un secondo tempo l’avrebbe proibito, perché Abramo stava facendo del male ad Isacco. Cosa significa questo? Che Dio prima gli comandava di fare del male?

Quindi, lei vede, caro Bruno, che qui non c’è via d’uscita. Se noi ci atteniamo materialmente al testo biblico, viene fuori un Dio che prima vuole la morte di Isacco, ma che poi, dato che questo atto è un male, non lo vuole. L’unico modo per uscire da questa strettoia, che rischia di farci cadere nella bestemmia, cioè di concepire un Dio che vuole la morte, l’unica via di uscita è il rendersi conto che è stato Abramo a fraintendere la volontà di Dio, perché è l’angelo che gli rivela che cosa veramente Dio voleva, e cioè il sacrificio dell’ariete.

In questo episodio di Abramo viene in piena luce il problema dell’oggetto della fede, problema estremamente attuale, nella attuale situazione in cui noi assistiamo a concezioni contradditorie che riguardano l’essere e l’operare di Dio, e quindi l’oggetto della fede.

Qual è l’oggetto della fede? Evidentemente la verità rivelata da Dio. Tuttavia, i contrasti tra le religioni ci dimostrano chiaramente che tanti fedeli possono essere in buona fede, pur avendo concezioni opposte della divinità. Qui si fonda il principio della libertà religiosa.

Questo, infatti, che cosa significa? Che possiamo sbagliare nel concepire ciò che conviene a Dio. Ma, in questo caso, Dio come si comporta con noi? Ci castiga? Per nulla, perché in buona fede e secondo coscienza pensiamo essere vero quello che non è vero.

Questa è stata esattamente l’esperienza di Abramo, il quale viene premiato non per lo sbaglio involontario iniziale, ma per la sincerità e la forza straordinaria del suo atto di fede e per la docilità all’illuminazione divina, per cui ha saputo umilmente mutare contenuto dopo la rivelazione da parte di Dio.

Facendo un confronto tra Abramo e Gesù nel Getsemani, entrambi vivono una grande prova con angoscia; nei due casi c’è un angelo, ma con funzioni diverse. Nel caso di Abramo, l’angelo illumina. Nel caso di Gesù, consola.

Gesù uomo, essendo Dio, dal canto suo, avendo la visione o scienza di Dio e non la semplice fede, non può correggere la sua conoscenza della volontà di Dio, mentre Abramo uomo fallibile, ha cambiato ed ha cambiato per umiltà e per amore della verità, e quindi non ha mantenuto la sua idea precedente, ma ha accettato veramente la volontà di Dio, quando l’ha conosciuta, giungendo al culmine del suo atto di fede, perché non si è più trattato del semplice atto di fede, ma Abramo ha accettato quello che ne era il vero oggetto: non fargli del male.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 agosto 2022       

 

Per quanto riguarda il paragone tra il sacrificio di Abramo e quello di Cristo, direi che la cosa essenziale, come è rilevato dalla Lettera agli Ebrei, c.10, è il sacrificio della volontà, ossia, come ho detto sopra, l’atto d’obbedienza. 

Tuttavia è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo.


 

È solo col Nuovo Testamento che appare con chiarezza che, se Dio ha voluto un sacrificio umano, questo non poteva essere altro che il Sacrificio dell’Uomo-Dio, Nostro Signore Gesù Cristo.



Immagini da Internet:
- Dipinti Antichi, Sacrificio di Isacco
- Domenichino, Il sacrificio di Isacco


4 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    ho scoperto che anche l’importante scrittore ecclesiastico Tertulliano aveva manifestato la possibile sussistenza di un legame tra il sacrifico di Abramo e l’esortazione evangelica ad amare Dio più di qualsiasi altra persona cara:
    «[…] il Signore aveva ordinato ad Abramo di offrire in sacrificio il figlio non certo per tentarne la fede, bensì per apprezzarla nel momento della prova; voleva fare di Abramo un esempio che servisse al suo comandamento, che avrebbe più tardi formulato, per cui nessuno dovrebbe tenere in conto i suoi familiari più di Dio» (Tertulliano, De oratione 8, 2-3, tradotto in La preghiera, a cura P.A. Gramaglia, Paoline, 1984, pag. 189).

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    1. Caro Bruno, l’avvertimento di Gesù, secondo il quale, se vogliamo seguirlo, dobbiamo “odiare” i nostri familiari, non può assolutamente essere applicato nel caso del sacrificio di Abramo, perché si arriverebbe all’assurdo di credere che per seguire Cristo dovremmo uccidere i nostri familiari sacrificandoli a Dio.
      Infatti il Primo Comandamento non consente di violare gli altri Comandamenti, per obbedire al Primo.

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  2. Lei ha scritto:
    «[…] è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo».
    Su un piano puramente razionale, non posso che darle ragione.
    E tuttavia non possiamo trascurare che sin dai primi secoli, diversi e autorevoli autori hanno sostenuto che ad Abramo erano state donate virtù profetiche, tali da permettergli di poter pre-vedere, in qualche modo, la passione del Figlio di Dio. Alcuni esempi:
    Il Padre della Chiesa sant’Ireneo di Lione, che lo scorso 21 gennaio (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2022/01/21/0048/00099.html) papa Francesco ha proclamato dottore della Chiesa con il titolo di doctor unitatis, scrisse:
    «In Abramo infatti l’uomo aveva imparato in anticipo e si era abituato a seguire il Verbo di Dio. E infatti Abramo, avendo seguito l’insegnamento del Verbo di Dio secondo la sua fede, con animo sottomesso concesse in sacrificio a Dio il figlio suo unigenito e amato, affinché Dio avesse il beneplacito di offrire in sacrificio, in favore della sua intera discendenza, il proprio Figlio diletto e unigenito, per la nostra redenzione. Esultò dunque con forza Abramo, essendo profeta e vedendo nello Spirito il giorno della venuta del Signore e la economia della passione, per mezzo del quale egli stesso e tutti coloro che credono in Dio, come lui credette, avrebbero iniziato ad essere salvati» (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 5, 4-5).
    Origene:
    «Abramo perciò sperava che Isacco sarebbe risorto e credeva che sarebbe accaduto ciò che ancora non si era verificato. […] Anzi, per dirla più apertamente, Abramo sapeva di rappresentare un’immagine della futura verità, sapeva che dal suo seme sarebbe nato Cristo, il quale sarebbe stato offerto come più vera vittima di tutto il mondo e sarebbe risorto dai morti» (Origene, Omelia VIII sulla Genesi).
    Il santo vescovo di Cartagine Quodvultdeus (fine IV secolo - 454):
    «Abramo, pur sapendo che il figlio non era ancora idoneo a procreare, obbedì tuttavia all’ordine di Dio con tanto zelo, nella convinzione che Dio non è immemore delle sue promesse e che si stava compiendo una sorta di misterioso simbolo della futura passione del Signore e con lo sguardo naturalmente rivolto a quel giorno della nostra redenzione, di cui parla il Signore nel Vangelo, quando rimprovera i Giudei: “Vostro padre Abramo ha desiderato vedere il mio giorno e lo ha visto e se n’è rallegrato”. Abramo ha evidentemente visto simboleggiato nel figlio il giorno della passione del Figlio di Dio […] Isacco non è stato sacrificato per il motivo che la risurrezione era riservata al Figlio di Dio: tutti questi sono i misteri che Abramo credendo meritò di vedere in figura e che noi per mezzo della grazia sappiamo che si sono compiuti» (Quodvultdeus, Libro delle promesse e delle predizioni di Dio I,17,24, Città Nuova, 1989, pag. 78-79).
    Il santo e Dottore della Chiesa, nonché ottavo Papa della Chiesa copta, Atanasio di Alessandria:
    «Anche Abramo, il grande capostipite dei patriarchi, esultò non perché vide il suo proprio giorno, ma quello del Signore […] e mentre offriva il proprio figlio, adorava il Figlio di Dio; e mentre gli era impedita l’uccisione di Isacco, contemplava Cristo in quell’agnello che fu immolato in quanto Dio» (Atanasio di Alessandria, Lettera festale VI, 8, citato in Laura Carnevale, Obbedienza di Abramo e sacrificio di Isacco, Il pozzo di Giacobbe, 2022, pag. 120).
    Alla luce di tali posizioni, Padre Giovanni, possiamo escludere che Abramo avesse una qualche preveggenza del sacrificio di Cristo?

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    1. Caro Bruno,
      le testimonianze che lei mi porta sono degne di alta considerazione.
      Non parliamo poi dell’autorità delle parole di Nostro Signore Gesù Cristo!
      Davanti a queste testimonianze, come posso rispondere? Risponderei in due modi.
      Primo. Come interpretare le parole di Nostro Signore? Che cosa ha inteso dire? Io ritengo che Gesù abbia voluto esplicitare quanto era implicitamente contenuto nella promessa, che Dio aveva fatto ad Abramo. E cioè, che cosa? Che cosa significa la sconfinata discendenza di Abramo, se non la salvezza dell’intera umanità? E chi ha procurato la salvezza all’intera umanità? Nostro Signore Gesù Cristo.
      Quindi, quando Gesù dice: “Abramo ha visto il mio giorno”, ha inteso dire questo. Solo che evidentemente, prendendo alla lettera il contenuto della promessa, è chiaro che Abramo non poteva fare una simile deduzione.
      Per questo la tesi di Abramo come profeta, non trova nessun appiglio nel racconto biblico. Ma è Dio che nella sua pedagogia avrebbe preparato, attraverso i Profeti, la venuta di Nostro Signore Gesù Cristo.
      Secondo. È cosa nota che sin dai primi secoli, fino ai tempi del Concilio Vaticano II, è invalsa una esegesi cattolica dell’Antico Testamento, la quale ha esagerato nel trovare un riferimento a Cristo mediante una certa forzatura del testo, il quale invece così come suona non consente una simile operazione.
      Non che da quei passi non si possa ricavare il mistero di Cristo, ma questa operazione è legittima se fatta da noi, che già conosciamo Cristo, e non la si può fare invece ricavandola dagli stessi testi, perché sarebbe una interpretazione arbitraria ed impositiva.

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