Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice - Prima Parte (1/3)

Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice

Continua il dialogo con Bruno. 

Prima Parte

Da: Abramo, maestro di libertà religiosa - del 1-3 agosto 2022

https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/abramo-maestro-di-liberta-religiosa.html

 

Caro Padre Giovanni,


un possibile riflesso (che non significa confusione) tra il sacrificio di Isacco e il tema evangelico dell’amare Dio più dei propri cari, ed esser disponibili ad abbandonarli per la sequela di Cristo, non è solo una mia idea ma, ho scoperto, esser stata proposta anche da un teologo (pur non cattolico) dello spessore di Dietrich Bonhoeffer (https://www.donboscoland.it/it/page/l-impegno-di-seguire-gesu-e-il-singolo-uomo):
«Abramo fu chiamato da Dio a sacrificare il figlio Isacco. Cristo si pone fra il padre della fede ed il figlio della promessa. Qui viene spezzata non solo una relazione immediata naturale, ma anche una relazione spirituale. Abramo deve imparare che la promessa non è legata nemmeno ad Isacco, ma appunto solo a Dio […]


Egli accetta la chiamata così come gli è stata rivolta, non cerca interpretazioni sofisticate, non la spiritualizza; egli prende Dio alla lettera ed è pronto a obbedire. Egli obbedisce alla parola contro ogni rapporto naturale immediato, contro ogni rapporto religioso immediato. Egli sacrifica il figlio. È pronto a compiere la rottura in maniera visibile, per amore del mediatore. E in quello stesso momento gli viene donato di nuovo tutto ciò che aveva sacrificato. Il figlio viene restituito ad Abramo. Dio gli mostra una vittima migliore, che deve sostituire Isacco. È una svolta di 360 gradi; Abramo possiede di nuovo Isacco, ma in maniera diversa da prima. Lo ha avuto dal mediatore e per amore del mediatore. Poiché era pronto ad ascoltare e osservare alla lettera il comandamento di Dio, egli ora può tenere Isacco come se non lo possedesse, può averlo tramite Gesù Cristo […]


Cristo si è posto tra padre e figlio. Abramo aveva abbandonato tutto e aveva seguito Cristo, e proprio mentre si trova al suo seguito ora può vivere di nuovo nel mondo, nel quale era vissuto prima […]


Questa è l’altra possibilità di essere isolato in mezzo alla comunità, in mezzo al proprio popolo, nella casa paterna, in mezzo ai propri beni e alle proprie ricchezze; essere seguace di Cristo. Ma è appunto Abramo a essere chiamato a questa vita, Abramo, il quale prima dovette subire la rottura visibile, Abramo, la cui fede divenne esemplare per il Nuovo Testamento […]


Veniamo chiamati secondo la volontà di Gesù, in una maniera o nell’altra, a uscire dai rapporti immediati, e dobbiamo divenire degli isolati, visibilmente o in segreto. Ma lo stesso mediatore che fa di noi degli isolati, in questo modo è anche causa di una comunione assolutamente nuova. Egli sta al centro, tra l’altro uomo e me. Egli separa, ma unisce pure. Ogni via immediata per raggiungere il prossimo è sbagliata; ma ora a chi segue Cristo viene indicata una via del tutto nuova e l’unica reale, che raggiunge l’altro passando per il mediatore.
«Pietro prese a dirgli: ‘Ecco noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito’. Rispondendo Gesù disse: ‘In verità, vi dico, non c’è nessuno che abbia abbandonato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli e campi per amar mio e il vangelo e non riceva il centuplo ora in questo tempo, in case, fratelli, sorelle, madri, figli e campi insieme a persecuzione e nel tempo a venire la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi primi» (Mc. 10,28-31).
Gesù qui si rivolge a quelli che sono divenuti degli isolati per amor suo, che hanno lasciato tutto quando egli li chiamò, che possono dire di sé: «Ecco, abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito». A costoro viene promessa una nuova comunione. Secondo la Parola di Gesù già in terra riavranno il centuplo di ciò che hanno abbandonato. Gesù qui parla della sua comunità che si ritrova in lui. Chi ha abbandonato il padre per amore di Gesù trova sicuramente un altro padre, trova fratelli e sorelle; e per lui sono pronti persino campi e case. Ognuno entra come singolo al seguito di Gesù, ma nessuno resta isolato seguendo Gesù. A colui che, obbedendo alla sua Parola, osa divenire un isolato viene donata la comunione della comunità. Egli si ritrova in una confraternita visibile, che gli ridà centuplicato ciò che ha perduto».

 

Caro Bruno,

la meditazione di Bonhoeffer è molto bella, ma, mi spiace dirlo, non colpisce il bersaglio, nel senso che non possiamo paragonare il lasciar tutto per Cristo con quanto Abramo aveva inteso in un primo tempo che Dio volesse da lui.
La meditazione di Bonhoeffer si adatta benissimo a quelle che sono le esigenze della vita religiosa, ma non è in grado di interpretare correttamente il sacrifico di Abramo. Infatti, quando Cristo ci chiede di lasciare tutto per Lui, in questo lasciare tutto possiamo includere, secondo l’uso delle antiche religioni, l’uccisione della vittima da parte del sacerdote, come capro espiatorio, e di ciò abbiamo testimonianza nella Bibbia.
Ma, nel caso di Abramo, la prospettiva che Abramo aveva capito in un primo tempo non era per nulla quella di sacrificare un animale, ma di compiere un sacrificio umano, cosa che Dio in realtà non ha mai voluto e non può volere, come attesta la Bibbia stessa. Per questo noi oggi proviamo orrore per quei sacrifici che nel secolo XVI compivano gli Incas in America Latina.

Detto questo, chiediamoci che cosa significa esattamente quel lasciare tutto per Cristo, di cui parla anche San Pietro. Certamente in questo impegno c’è la rinuncia ad alcuni beni preziosi, come il matrimonio, la libertà personale e la proprietà privata, che corrisponde ai famosi tre voti religiosi o consigli evangelici.

Cosa significa rinunciare, in questo caso? Significa evitare di fruire di questi beni, il che non comporta affatto la loro distruzione, ma al contrario la loro stima in coloro che onestamente ne fanno uso. Per esempio, noi religiosi rinunciamo al matrimonio, ma se un nostro parente si sposa siamo ben contenti.

E che cosa significa il centuplo promesso dal Signore per questa vita e nella vita futura? Significa il fatto che questi beni in qualche modo ci vengono restituiti assai arricchiti da Dio stesso per mezzo dei nostri Superiori, grazie alla nostra vita nel nostro Istituto, i cui beni diventano gli stessi nostri beni. Facciamo un esempio: io, avendo rinunciato a formarmi una famiglia, ho rinunciato ad avere una casa di mia proprietà. Ma ecco che, facendomi religioso, tutti i conventi del mio Ordine diventano casa mia.

Anche i Padri gesuiti della comunità di Villapizzone, Beppe Lavelli e Giuseppe Riggio, commentando Luca 14, 25-35 (https://www.gesuiti-villapizzone.it/sito/trascrizioni/lc15/4/lc_082.pdf) hanno rilevato, a modo loro, un qualche rapporto tra le parole di Gesù sull’«odiare» i propri cari e la propria stessa vita, e il sacrificio abramitico di Isacco:

«Per seguire Gesù bisogna avere per lui un amore superiore che per ogni altra persona, maggiore di quello che uno ha per la propria vita […]

“Se qualcuno viene da me
e non odia
il proprio padre e la madre
e la donna e i figli
e i fratelli e le sorelle
e inoltre anche la propria vita,
non può essere mio discepolo”.

Cosa sta dicendo qui Gesù? Sta dicendo, sta offrendo a queste persone che lo seguono il vero criterio per diventare suo discepolo. Allora odiare il proprio padre e la madre, le proprie origini e poi la moglie, i figli, i fratelli, anche la propria vita. Non è che il Signore ci sta mettendo di fronte ad una impossibilità? Sì ci sta mettendo di fronte a un’impossibilità, non ci sta dicendo che siamo chiamati ad odiare […]

Non possiamo mettere gli altri, nemmeno il padre e la madre, la moglie, i figli, fratelli, nemmeno noi stessi al posto di Dio.
Questo è stato il peccato delle origini, metterci noi al centro, invece che essere messi noi al centro da parte di Dio […]

Allora, odiare la propria vita significa fidarsi a tal punto del Signore che mi fido più di lui che di me. Il salmo 62 dice: Poiché la tua grazia vale più della vita. Questa è la posta in gioco […]
Prima citavo Abramo: il bene per eccellenza che riceve è Isacco, gliel'ha promesso il Signore. Abramo si sarebbe accontentato anche del povero Ismaele e invece il Signore: No, uno nato da te. Finalmente gli dà Isacco e poi sembra che glielo tolga. Abramo si deve allontanare anche da Isacco, per il bene di Abramo e per il bene di Isacco. È chiamato a riconsegnare quel dono lì, è chiamato a fidarsi del donatore.
Allora, allontanarci da tutto vuol dire avvicinarci di più a Gesù, andare più vicino a lui. È una direzione del cammino.


[…] Invece, fare come Abramo. Ci ha messo un po’ anche lui, ma arrivare pian piano su quel monte e lasciare lì Isacco, lasciarlo lì al Signore. Il Signore non ci chiede indietro Isacco […] Ma vuole che impariamo ad accogliere queste cose, davvero, come dei doni; a non diventare padroni di queste cose. Difatti, si diceva Abramo su quel monte sacrificherà non l'agnello di cui ha parlato con Isacco, ma l'ariete che dell'agnello è padre. Se c'è qualcuno da sacrificare lì è Abramo. Cioè togli le mani da tuo figlio, lascialo lì. Non farti padrone di lui. Questo sta dicendo Gesù. Allontanati da tutto ciò che hai, perché in quel modo ci sarai tu e basta. Davvero potrai essere mio discepolo, davvero potrai cominciare a fidarti di me. Altrimenti ti fiderai sempre di altro e non potrai sperimentare che io ci sono, che io ho cura della tua vita».

Caro Bruno,

dovrebbe essere molto chiaro che questo “odio” di cui parla Gesù non va affatto preso alla lettera, ma, come appare chiaramente dal contesto, significa semplicemente quella rinuncia e quel distacco da certi beni terreni, dei quali ho parlato sopra. Gesù non chiede che, per rinunciare ad avere un figlio, dobbiamo ammazzare nostro figlio.
In secondo luogo, riconosco che il sacrificio di Abramo è il sacrificio della sua stessa volontà, ossia il suo atto di obbedienza a Dio.

Per quanto riguarda il paragone tra il sacrificio di Abramo e quello di Cristo, direi che la cosa essenziale, come è rilevato dalla Lettera agli Ebrei, c.10, è il sacrificio della volontà, ossia, come ho detto sopra, l’atto d’obbedienza. Tuttavia è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo.

Lei, Padre Giovanni, ha più volte sottolineato i vantaggi che questa nuova esegesi presenta nei confronti della precedente.
Mi permetta di sottolineare quello che considero invece un non trascurabile svantaggio di tale nuova interpretazione del sacrificio abramitico.
Mi riferisco al contraccolpo, sul piano pastorale, che un credente di media o anche di bassa cultura, riceverebbe, nel momento in cui essa si affermasse definitivamente nella Chiesa.
Pensiamo dunque a una persona semplice, che non ha fatto particolari studi, ma ha deciso di accogliere l’invito, più volte rivoltogli dagli ultimi pontefici, di accostarsi alla Sacra Scrittura (Papa Francesco ha addirittura istituito, nella terza domenica del Tempo Ordinario, la “Giornata della Parola” tramite la Lettera apostolica “Aperuit illis”).
Ebbene, proviamo a immaginare questo umile credente che, dopo aver letto in Genesi 22 “Dio mise alla prova Abramo e gli disse […] Prendi tuo figlio […] e offrilo in olocausto”, cerca di meditare queste parole, prova a capire cosa possono dire alla sua coscienza di cristiano dato che, gli è stato sempre detto, sono state redatte da uomini ma ispirate da Dio, sono “Parola di Dio”….
E poi si imbatte in una nota che gli spiega che in realtà, quello che ha letto… non è vero.
Lei, Padre Giovanni, mi dirà: “non è corretto dire che non è vero, bensì che non deve essere interpretato alla lettera ma…”.
Sì d’accordo, ma resta il fatto che, per questa persona, avulsa da certi distinguo, concretamente, la frase appena letta nella Bibbia dove lapidariamente è scritto che Dio disse ad Abramo “offrilo in olocausto”, viene ad essere radicalmente ribaltata in “Abramo credette che Dio…”
Quale potrebbe essere la reazione di questa persona? Non mi sembra improbabile che qualcuno dei seguenti pensieri potrebbe far breccia:
“dunque, non devo mai fidarmi di quello che leggo nella Bibbia… ciò che conta davvero è l’interpretazione della Chiesa… ma allora più che leggere il testo sacro, e rischiare di prendere lucciole per lanterne, tanto vale che mi legga soprattutto commenti e note… e se invece fossero certi esegeti a far dire alla Scrittura quello che vogliono? E se prima, per tanti secoli si è interpretato in un modo, ed ora in un altro, chi mi dice che anche ora, le attuali interpretazioni di tanti passi biblici non siano sbagliate, ma lo si scoprirà solo in futuro? Ma allora, forse, è meglio che mi faccia una mia idea su tutto, senza lasciarmi influenzare da nessuno (la famosa fede “fai da te”)…”.
Esagero? Può darsi, ma temo che un’interpretazione del genere possa, da un lato, incrementare una certa diffidenza verso la Parola di Dio, dall’altro, aumentare la distanza tra una “casta” di eletti (teologi, biblisti, studiosi, ecc…) e la gran parte della comunità dei credenti.

Caro Bruno,

il compito degli esegeti e dei biblisti, come la stessa Chiesa insegna, è quello di spiegare quei passi oscuri sui quali occorre fare chiarezza. Certamente la loro opera non è infallibile. Tuttavia svolgono un prezioso servizio, grazie alla loro preparazione scientifica, all’opera del Magistero, al quale, per volontà di Cristo, spetta valutare e giudicare il modo definitivo quanto è risultato dalle loro indagini. In tal modo i dogmi della Chiesa sono sempre stati preparati dal lavoro di esegeti e teologi.
Nel lavoro di interpretazione della Scrittura, il credente progredisce continuamente verso una sempre migliore comprensione della Parola di Dio. Come avviene questo progresso? In diversi modi: qualunque fedele può, anche da solo, scoprire un nuovo aspetto della Parola di Dio o accorgersi di una interpretazione sbagliata. Tuttavia è chiaro per noi cattolici che per questo ufficio non facile, per volontà di Cristo esiste un ceto di interpreti ufficiali, che sono i Successori degli Apostoli, sotto la guida del Papa. Questi nostri fratelli, assistiti dallo Spirito Santo, hanno altresì il compito di valutare le nuove interpretazioni proposte dagli esegeti e da comuni fedeli, e quindi di esprimere una sentenza definitiva.

Inoltre, bisogna tenere presente che, se un esegeta propone una nuova interpretazione, che non sia in contrasto con la dottrina della fede, qualunque fedele, che resti persuaso da questa nuova interpretazione, è libero di accettarla o meno, anche se il Magistero non si è pronunciato.

Qual è il compito del comune fedele? È quello innanzitutto di recepire gli insegnamenti del Magistero e poi, se ne ha i mezzi o le capacità, può essere quello di seguire il lavoro degli esegeti, riservandosi di dare su ciò un proprio giudizio, perché gli esegeti, per quanto esperti, non sono infallibili come lo è invece il Magistero, il cui insegnamento è riassunto nel CCC, Catechismo Chiesa Cattolica, e proclamato nel Simbolo della fede.

Che sia evidente la necessità della giusta interpretazione di certi passi della Scrittura, lo si evince da certi fatti incresciosi realmente accaduti, come quello per esempio quello di un tale che, leggendo le parole del Signore: “Se la tua mano ti scandalizza, tagliala”, si è veramente amputato la mano.

Oppure possiamo ricordare il caso famoso della vicenda galileiana. Giosuè comanda al sole di fermarsi: “Fermati, o sole”. La Bibbia racconta che effettivamente il sole si fermò fino a che la battaglia non fu finita. Ora, dovrebbe essere chiaro che, prendendo alla lettera simili parole, siamo davanti a un miracolo assurdo, per cui non si può prendere a pretesto la Parola di Dio per avallare qualche cosa che la scienza dimostra essere falsa, come del resto la Chiesa non ha motivo di dichiarare come verità di fede, come pretendeva Galileo, delle tesi semplicemente attinenti al mondo fisico.

Lei ha scritto:
«Ora, i casi sono due. O Dio dà un contrordine, o Abramo corregge la sua interpretazione della volontà di Dio. Ma è assurdo che Dio possa dare un contrordine ed inoltre è impensabile che Dio possa ordinare un sacrificio umano smentendo poi quello che ha detto».
Nell’affermare che “è assurdo che Dio possa dare un contrordine”, lei interpreta, nell’esegesi tradizionale, l’intervento dell’angelo come un contrordine che sarebbe in stridente contrasto rispetto alla richiesta iniziale di sacrificare Isacco. Ovvero Dio, nell’esegesi tradizionale, cadrebbe in contraddizione (il che è ovviamente impossibile) perché prima comanderebbe una cosa e dopo, al contrario, revocherebbe il precedente comando.
Io ritengo che tale contraddizione non sussista perché la situazione, il contesto in cui avviene il primo comando, e la situazione/contesto in cui avviene la revoca dello stesso, sono profondamente diverse. Se i due eventi avvenissero nella stessa situazione/contesto allora sì che vi sarebbe una chiara contraddizione, ma non è questo il caso.
Per fare un esempio, immaginiamo una cittadella sotto assedio.
All’alba di un certo giorno, gli assedianti sferrano un attacco contro i bastioni della fortezza, sicché il comandante della guarnigione degli assediati ordina ai suoi: “aprite il fuoco!”.
I difensori della cittadella obbediscono all’ordine ricevuto, in modo talmente efficace, che gli assalitori sono costretti a ritirarsi.
A questo punto, il comandante di prima dà il contrordine: “cessate il fuoco!”
Questo contrordine può essere interpretato come “mi ero sbagliato prima, non dovevate aprire il fuoco”? Certamente no.
Prima, a fronte dell’assalto alla cittadella, era stato più che giusto ordinare di difendersi attivamente con le armi; dopo, quando l’esercito degli assalitori è in rotta e ormai lontano, era stato altrettanto giusto ordinare la cessazione dell’uso delle armi. I rispettivi contesti, in cui sono stati impartiti l’ordine e il contrordine, erano oggettivamente diversi, sicché essi non danno luogo ad alcuna situazione contraddittoria perché ciascuno di essi è stato, la “cosa giusta” da fare “al momento giusto”.
Analogamente, se uno dopo aver letto Genesi 46, 2-3, in cui Dio dice a Israele/Giacobbe di recarsi in Egitto, ed aver letto successivamente i passi dell’Esodo dove Dio dice a Israele/Mosé di lasciare l’Egitto, affermasse che i due ordini, essendo l’uno il contrario
dell’altro, proverebbero un contraddittorio cambiamento della volontà divina, evidentemente sbaglierebbe. I due contesti situazionali sono diversi. Dio ordina a Giacobbe di scendere in Egitto, perché in Palestina il clan del patriarca si stava legando troppo con una popolazione che ne avrebbe insidiato la fede e la moralità (Genesi 34 e 38), sicché nell’isolamento in terra egizia avrebbero potuto conservare la propria identità, ma tale ordine è già in prospettiva dell’Esodo (“Io scenderò con te in Egitto e io certo ti farò tornare” (46, 4). Con Mosé, non vi sarà più tale esigenza, e sarà, per Dio, il momento giusto perché si compia il ritorno alla terra promessa.
C’è un momento in cui è giusto ordinare di combattere e un altro momento in cui è giusto far smettere di combattere, un momento in cui è giusto ordinare di andare in Egitto e un altro momento in cui è giusto ordinare di lasciare l’Egitto, un momento in cui è giusto mettere alla prova Abramo (perché non ha ancora dimostrato i limiti della sua fede) e un “altro” momento, quando Abramo ha dimostrato la sua fede obbedienziale, in cui è giusto porre fine a tale prova.
Le diversità sostanziali dei contesti situazionali in cui si manifestano, rispettivamente, l’ordine e il contrordine, ne eliminano l’apparente contraddittorietà.

Caro Bruno,

i paragoni che lei fa con la città assediata e con la situazione di Israele in Egitto non sono calzanti e quindi non sono sufficienti a conservare l’interpretazione tradizionale e ad infirmare l’interpretazione che propongo io. Infatti, in questi casi non si tratta di contrordini, ma di ordini giusti relativi al mutare della situazione.
Il caso di Abramo, considerando lo stesso testo letterale della Scrittura, fa apparire chiaramente un contrordine divino con un Dio che prima comanda di uccidere Isacco e poi comanda di risparmiarlo.

Ora, io mi domando: può Dio veramente comportarsi in questo modo? Può nel primo e nel secondo tempo trattarsi sempre della volontà di Dio? Si può in questo contrasto trovare una coerenza nella volontà di Dio? Evidentemente, no.
Allora, per uscire da questa stretta, non c’è altra via che ritenere che Abramo, in un primo tempo, forse influenzato inconsapevolmente dalle religioni che praticavano sacrifici umani, in buona fede abbia scambiato la vera volontà di Dio, che vuole la vita e non la morte, con quella idea che si era fatta della volontà divina.
Teniamo inoltre presente che la nozione che Abramo poteva avere di Dio era estremamente primitiva e probabilmente risentiva ancora del politeismo della terra che Abramo aveva abbandonato. Nello stesso tempo Abramo, illuminato dall’angelo, compie un gran balzo nel passare da un concetto di un Dio, che chiede in sacrificio la vita umana, a un Dio della vita, e questo gran balzo va a tutto merito di Abramo a rafforzare il valore della prova alla quale Dio lo aveva sottoposto.
Inoltre è chiaro che questo balzo Abramo non lo fa in forza della sua semplice ragione, ma perché, illuminato dall’angelo, compie un atto di fede soprannaturale.
È solo col Nuovo Testamento che appare con chiarezza che, se Dio ha voluto un sacrificio umano, questo non poteva essere altro che il Sacrificio dell’Uomo-Dio, Nostro Signore Gesù Cristo.

Caro Padre Giovanni,
le preannuncio che è mia intenzione, dopo quest’ultimo commento, non intervenire ulteriormente sul tema in oggetto.
Desidero comunque ringraziarla per l’attenzione e il tempo che ha voluto dedicare ai miei interventi. Anche quando mi trovo in disaccordo con lei, la lettura delle sue considerazioni è sempre, per me, fonte di arricchimento spirituale e stimolo ad approfondire le mie posizioni.
Dicevo prima che non penso di ulteriormente replicare a quanto, eventualmente, lei vorrà ancora dirmi su questo argomento, per due motivi: il primo è che ritengo che ormai siano sufficientemente chiarite le nostre rispettive posizioni e i relativi punti di divergenza, e rischieremmo di ripeterci, con scarso giovamento per noi e per chi ci legge…; il secondo motivo è che non vorrei abusare dello spazio che lei concede sul blog, arrivando quasi a monopolizzarlo rispetto ad altri lettori, che magari le avranno fatto pervenire differenti tematiche e spunti, su cui desidererebbero, Padre Giovanni, una sua opinione.
Lei ha scritto:
«i paragoni che lei fa con la città assediata e con la situazione di Israele in Egitto non sono calzanti […] Infatti, in questi casi non si tratta di contrordini, ma di ordini giusti relativi al mutare della situazione».
Osservo che anche tra il momento in cui, nel testo biblico, Dio richiede il sacrificio di Isacco, e il momento in cui Dio ferma la mano di Abramo, la situazione del padre di Isacco è profondamente mutata.
Nel momento in cui Abramo riceve il primo comando per testare la grandezza della sua fede, egli è l’uomo che sinora ha obbedito a Dio, lasciando Ur dei Caldei per la terra di Canaan (Gen 12, 5-9), gli è stata frequentemente rinnovata la promessa di Dio (Gen 13, 14-18; 15, 1-17) culminante nell’imposizione del nuovo nome Abraham (“padre di un popolo”), nell’istituzione della circoncisione (Gen 17, 11-14), e infine nella promessa di una generosa discendenza, nonostante l’età avanzata sua e della moglie Sara, realizzatasi nella nascita del tanto amato Isacco.
Eppure, agli occhi di Dio, Abramo, non ha ancora dimostrato se la sua fede metta davvero Dio al di sopra di tutto, oppure sia soprattutto riconoscenza di quanto ricevuto, che finisce per essere attaccamento più ai doni che al Donatore.
E cosa avviene dopo il primo comando?
Che Abramo affronta tre giorni di inferno: sella l’asino che sa li porterà nel luogo previsto per l’olocausto, spacca la legna su cui dovrà bruciare il corpo del figlio, si mette in viaggio, avvista infine quel luogo maledetto, allontana i servi perché è troppo gelosamente intimo ciò che sta per avvenire, prosegue solo col figlio, la legna e il coltello e, dolorosissima, gli arriva la domanda di Isacco “ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”, ed Abramo trova la forza per una risposta meravigliosa, in quanto non è una menzogna pietosa per il figlio, e nel contempo, manifesta sia la forza della sua fede, che un’estrema supplica verso l’Altissimo: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”, ed infine, la “passione” di Abramo raggiunge il suo climax, colla sua mano che brandisce il coltello, che significa “Dio, contro tutto, nella disperazione più assoluta, io confido in Te”.
Ebbene, possiamo sostenere che nulla di importante sia avvenuto per Abramo, tra il primo comando e il secondo comando, mediato dall’intervento dell’angelo? Dopo tutto quanto Abramo ha dimostrato, nella propria carne e nel proprio spirito, non è forse cambiata la sua situazione esistenziale e spirituale, per lui e davanti a Dio?
E dunque, il comando di fermare il sacrificio del figlio, che lo si chiami contrordine o ordine giusto, non contraddice il primo comando ma sancisce il superamento di quella prova, richiesta da Dio, che non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta.
Grazie ancora, Padre Giovanni.

Caro Bruno,

che Dio chieda ad Abramo una prova di fede, è cosa più che evidente ed è anche chiarissimo che egli l’abbia superata in modo esemplare, tanto che è diventato Padre nella fede delle tre religioni monoteistiche.

Ci poniamo però una domanda: il merito della fede di Abramo in che cosa consiste? Nell’atto di fede o in ciò in cui crede, ossia l’oggetto della sua fede?
Ora, lei stesso riconosce che Abramo muta condotta, sempre però esercitando la fede. Ma che cosa vuol dire “muta condotta”? Non vuol dire che muta l’atto di fede; anzi esso aumenta passando dalla prima convinzione di Abramo alla seconda.
Ma, riguardo all’oggetto della sua fede, che cosa dobbiamo dire? Che cosa Abramo aveva capito all’inizio? Capisce qualcosa, che poi viene impedito e proibito dall’angelo. Ma l’angelo a nome di chi parla? A nome di Dio. Allora, bisogna andare con la logica: se l’angelo dice ad Abramo: “Non fargli del male”, dobbiamo dedurre logicamente che prima gli stava facendo del male ad Isacco.

Ora, se noi prendiamo alla lettera il famoso comando di Dio, ne viene la conseguenza che la volontà divina si svolgerebbe in due tempi: in un primo tempo Dio avrebbe voluto il sacrificio di Isacco, mentre in un secondo tempo l’avrebbe proibito, perché Abramo stava facendo del male ad Isacco. Cosa significa questo? Che Dio prima gli comandava di fare del male?

Quindi, lei vede, caro Bruno, che qui non c’è via d’uscita. Se noi ci atteniamo materialmente al testo biblico, viene fuori un Dio che prima vuole la morte di Isacco, ma che poi, dato che questo atto è un male, non lo vuole. L’unico modo per uscire da questa strettoia, che rischia di farci cadere nella bestemmia, cioè di concepire un Dio che vuole la morte, l’unica via di uscita è il rendersi conto che è stato Abramo a fraintendere la volontà di Dio, perché è l’angelo che gli rivela che cosa veramente Dio voleva, e cioè il sacrificio dell’ariete.

In questo episodio di Abramo viene in piena luce il problema dell’oggetto della fede, problema estremamente attuale, nella attuale situazione in cui noi assistiamo a concezioni contradditorie che riguardano l’essere e l’operare di Dio, e quindi l’oggetto della fede.

Qual è l’oggetto della fede? Evidentemente la verità rivelata da Dio. Tuttavia, i contrasti tra le religioni ci dimostrano chiaramente che tanti fedeli possono essere in buona fede, pur avendo concezioni opposte della divinità. Qui si fonda il principio della libertà religiosa.

Questo, infatti, che cosa significa? Che possiamo sbagliare nel concepire ciò che conviene a Dio. Ma, in questo caso, Dio come si comporta con noi? Ci castiga? Per nulla, perché in buona fede e secondo coscienza pensiamo essere vero quello che non è vero.

Questa è stata esattamente l’esperienza di Abramo, il quale viene premiato non per lo sbaglio involontario iniziale, ma per la sincerità e la forza straordinaria del suo atto di fede e per la docilità all’illuminazione divina, per cui ha saputo umilmente mutare contenuto dopo la rivelazione da parte di Dio.

Facendo un confronto tra Abramo e Gesù nel Getsemani, entrambi vivono una grande prova con angoscia; nei due casi c’è un angelo, ma con funzioni diverse. Nel caso di Abramo, l’angelo illumina. Nel caso di Gesù, consola.

Gesù uomo, essendo Dio, dal canto suo, avendo la visione o scienza di Dio e non la semplice fede, non può correggere la sua conoscenza della volontà di Dio, mentre Abramo uomo fallibile, ha cambiato ed ha cambiato per umiltà e per amore della verità, e quindi non ha mantenuto la sua idea precedente, ma ha accettato veramente la volontà di Dio, quando l’ha conosciuta, giungendo al culmine del suo atto di fede, perché non si è più trattato del semplice atto di fede, ma Abramo ha accettato quello che ne era il vero oggetto: non fargli del male.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 agosto 2022       

 

Per quanto riguarda il paragone tra il sacrificio di Abramo e quello di Cristo, direi che la cosa essenziale, come è rilevato dalla Lettera agli Ebrei, c.10, è il sacrificio della volontà, ossia, come ho detto sopra, l’atto d’obbedienza. 

Tuttavia è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo.


 

È solo col Nuovo Testamento che appare con chiarezza che, se Dio ha voluto un sacrificio umano, questo non poteva essere altro che il Sacrificio dell’Uomo-Dio, Nostro Signore Gesù Cristo.



Immagini da Internet:
- Dipinti Antichi, Sacrificio di Isacco
- Domenichino, Il sacrificio di Isacco


47 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    ho scoperto che anche l’importante scrittore ecclesiastico Tertulliano aveva manifestato la possibile sussistenza di un legame tra il sacrifico di Abramo e l’esortazione evangelica ad amare Dio più di qualsiasi altra persona cara:
    «[…] il Signore aveva ordinato ad Abramo di offrire in sacrificio il figlio non certo per tentarne la fede, bensì per apprezzarla nel momento della prova; voleva fare di Abramo un esempio che servisse al suo comandamento, che avrebbe più tardi formulato, per cui nessuno dovrebbe tenere in conto i suoi familiari più di Dio» (Tertulliano, De oratione 8, 2-3, tradotto in La preghiera, a cura P.A. Gramaglia, Paoline, 1984, pag. 189).

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    1. Caro Bruno, l’avvertimento di Gesù, secondo il quale, se vogliamo seguirlo, dobbiamo “odiare” i nostri familiari, non può assolutamente essere applicato nel caso del sacrificio di Abramo, perché si arriverebbe all’assurdo di credere che per seguire Cristo dovremmo uccidere i nostri familiari sacrificandoli a Dio.
      Infatti il Primo Comandamento non consente di violare gli altri Comandamenti, per obbedire al Primo.

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  2. Lei ha scritto:
    «[…] è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo».
    Su un piano puramente razionale, non posso che darle ragione.
    E tuttavia non possiamo trascurare che sin dai primi secoli, diversi e autorevoli autori hanno sostenuto che ad Abramo erano state donate virtù profetiche, tali da permettergli di poter pre-vedere, in qualche modo, la passione del Figlio di Dio. Alcuni esempi:
    Il Padre della Chiesa sant’Ireneo di Lione, che lo scorso 21 gennaio (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2022/01/21/0048/00099.html) papa Francesco ha proclamato dottore della Chiesa con il titolo di doctor unitatis, scrisse:
    «In Abramo infatti l’uomo aveva imparato in anticipo e si era abituato a seguire il Verbo di Dio. E infatti Abramo, avendo seguito l’insegnamento del Verbo di Dio secondo la sua fede, con animo sottomesso concesse in sacrificio a Dio il figlio suo unigenito e amato, affinché Dio avesse il beneplacito di offrire in sacrificio, in favore della sua intera discendenza, il proprio Figlio diletto e unigenito, per la nostra redenzione. Esultò dunque con forza Abramo, essendo profeta e vedendo nello Spirito il giorno della venuta del Signore e la economia della passione, per mezzo del quale egli stesso e tutti coloro che credono in Dio, come lui credette, avrebbero iniziato ad essere salvati» (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 5, 4-5).
    Origene:
    «Abramo perciò sperava che Isacco sarebbe risorto e credeva che sarebbe accaduto ciò che ancora non si era verificato. […] Anzi, per dirla più apertamente, Abramo sapeva di rappresentare un’immagine della futura verità, sapeva che dal suo seme sarebbe nato Cristo, il quale sarebbe stato offerto come più vera vittima di tutto il mondo e sarebbe risorto dai morti» (Origene, Omelia VIII sulla Genesi).
    Il santo vescovo di Cartagine Quodvultdeus (fine IV secolo - 454):
    «Abramo, pur sapendo che il figlio non era ancora idoneo a procreare, obbedì tuttavia all’ordine di Dio con tanto zelo, nella convinzione che Dio non è immemore delle sue promesse e che si stava compiendo una sorta di misterioso simbolo della futura passione del Signore e con lo sguardo naturalmente rivolto a quel giorno della nostra redenzione, di cui parla il Signore nel Vangelo, quando rimprovera i Giudei: “Vostro padre Abramo ha desiderato vedere il mio giorno e lo ha visto e se n’è rallegrato”. Abramo ha evidentemente visto simboleggiato nel figlio il giorno della passione del Figlio di Dio […] Isacco non è stato sacrificato per il motivo che la risurrezione era riservata al Figlio di Dio: tutti questi sono i misteri che Abramo credendo meritò di vedere in figura e che noi per mezzo della grazia sappiamo che si sono compiuti» (Quodvultdeus, Libro delle promesse e delle predizioni di Dio I,17,24, Città Nuova, 1989, pag. 78-79).
    Il santo e Dottore della Chiesa, nonché ottavo Papa della Chiesa copta, Atanasio di Alessandria:
    «Anche Abramo, il grande capostipite dei patriarchi, esultò non perché vide il suo proprio giorno, ma quello del Signore […] e mentre offriva il proprio figlio, adorava il Figlio di Dio; e mentre gli era impedita l’uccisione di Isacco, contemplava Cristo in quell’agnello che fu immolato in quanto Dio» (Atanasio di Alessandria, Lettera festale VI, 8, citato in Laura Carnevale, Obbedienza di Abramo e sacrificio di Isacco, Il pozzo di Giacobbe, 2022, pag. 120).
    Alla luce di tali posizioni, Padre Giovanni, possiamo escludere che Abramo avesse una qualche preveggenza del sacrificio di Cristo?

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    1. Caro Bruno,
      le testimonianze che lei mi porta sono degne di alta considerazione.
      Non parliamo poi dell’autorità delle parole di Nostro Signore Gesù Cristo!
      Davanti a queste testimonianze, come posso rispondere? Risponderei in due modi.
      Primo. Come interpretare le parole di Nostro Signore? Che cosa ha inteso dire? Io ritengo che Gesù abbia voluto esplicitare quanto era implicitamente contenuto nella promessa, che Dio aveva fatto ad Abramo. E cioè, che cosa? Che cosa significa la sconfinata discendenza di Abramo, se non la salvezza dell’intera umanità? E chi ha procurato la salvezza all’intera umanità? Nostro Signore Gesù Cristo.
      Quindi, quando Gesù dice: “Abramo ha visto il mio giorno”, ha inteso dire questo. Solo che evidentemente, prendendo alla lettera il contenuto della promessa, è chiaro che Abramo non poteva fare una simile deduzione.
      Per questo la tesi di Abramo come profeta, non trova nessun appiglio nel racconto biblico. Ma è Dio che nella sua pedagogia avrebbe preparato, attraverso i Profeti, la venuta di Nostro Signore Gesù Cristo.
      Secondo. È cosa nota che sin dai primi secoli, fino ai tempi del Concilio Vaticano II, è invalsa una esegesi cattolica dell’Antico Testamento, la quale ha esagerato nel trovare un riferimento a Cristo mediante una certa forzatura del testo, il quale invece così come suona non consente una simile operazione.
      Non che da quei passi non si possa ricavare il mistero di Cristo, ma questa operazione è legittima se fatta da noi, che già conosciamo Cristo, e non la si può fare invece ricavandola dagli stessi testi, perché sarebbe una interpretazione arbitraria ed impositiva.

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    2. È sorprendente la continua esegesi deformante della Scrittura. Cristo dice letteralmente che "Abramo ha desiderato vedere il mio giorno, lo ha visto e gioito", e Lei interpreta ciò che vuole. E per maggiore ludibrio, dice che "non era un profeta". Un uomo che litigava con Dio sul destino di due città, che meritava dalla Trinità la Teofania, depositario delle promesse, non poteva fare una tale deduzione .
      Il meccanismo è così: prima Lei arma la sua teoria, poi arma la sua interpretazione. E povero della Scrittura se contraddice la sua teoria. Purtroppo mi ricorda Lutero e le sue interpretazioni rifiutando parti della Scrittura.

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    3. Caro Davide,
      c’è un passo del Vangelo dove Gesù dice: “Se la tua mano o il tuo occhio ti scandalizzano, toglili”. Qual è l’interpretazione letterale? Ci fu il caso di una protestante che si tagliò veramente una mano. Questa tale, ho obbedito a Cristo?
      Come le ho già detto, l’interpretazione letterale è il primo dovere dell’esegeta, perché essa riguarda ciò che l’agiografo ha inteso dire, ma, detto questo, la Chiesa oggi, con l’esegesi storico-critica (vedi il Documento che le ho già citato), ci fa presente che per poter capire veramente il senso letterale dobbiamo tenere conto dei modi di dire e della cultura particolare dell’agiografo nel suo tempo.
      Le parole del Signore, riferite ad Abramo, vanno quindi interpretate secondo questo metodo, che non ha nulla a che vedere con il cosiddetto libero esame di Lutero.
      Tenga inoltre presente che il dono della profezia non è un carisma permanente, ma è intermittente, per cui, quando questo dono non è presente, il profeta ragiona come uno qualunque di noi condizionato dalla cultura del proprio tempo.
      Per questo nell’episodio di Abramo occorre distinguere ciò che in Abramo è il riflesso dei suoi limiti umani da quanto Abramo percepisce in quanto illuminato dal dono profetico, dono che gli consente di vedere, in quanto gli è accaduto con il proprio figlio, un presagio del sacrificio di Cristo.
      Questo presagio è vera profezia, mentre l’idea di dover sacrificare il figlio nasceva nella mente di Abramo non per un influsso divino, ma come effetto della cultura circostante.

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  3. Lei non ragiona bene, caro Padre Cavalcoli, non ragiona bene. Dio non cambia la sua Volontà, semplicemente manifesta una cosa diversa. Disse anche a Jonas di predicare che Ninive sarebbe stata distrutta, e non lo fu perché i suoi abitanti fecero penitenza. Anche la Scrittura dice che Dio si pentì di aver creato l'uomo e comandò il Diluvio. Non cambia la volontà divina, cambiano le cose.
    Se fraintendi seriamente che la Bibbia, quando parla in terza persona, è in realtà un'illusione di Abramo, l'intero edificio dell'inerranza crolla. La sua interpretazione è contro litteram. Notate, caro Padre: "Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo, Abramo!". Rispose: "Eccomi!".Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò". Qui non c'è il minimo spazio per dire che Abramo si è confuso: l'autore sacro dice che Dio lo ha provato e gli ha parlato. Altrimenti, possiamo pensare che la Bibbia dica qualsiasi cosa.
    Questo è un racconto del narratore, non dice che Abramo si confuse, come non si confuse mai tutte le volte in cui Dio gli parlò. Che sono state diverse, secondo la Scrittura. Interpretiamo che Abramo "credette" che Dio gli promise una discendenza numerosa come le stelle del cielo perché è ovvio che non ci sono stati tanti ebrei quante sono le stelle? Così si interpreta qualsiasi cosa.
    Il suo è un testardo curioso. Nega la Scrittura in un'interpretazione contro litteram per superare una difficoltà, che è stata salvata in eccesso da decine di dottori della Chiesa, inclusi pontefici. Le suggerisco di accettare la difficoltà e non cercare di risolverla con facilità. Forse la sua confusione deriva dalla sua errata idea che, come leggo che lei ha detto: "il credente progredisce continuamente verso una sempre migliore comprensione della Parola di Dio". Questo non è vero. Può progredire o no, non c'è tale progresso continuo o forzato. Il credente può sbagliare, come lei sbaglia, e lì bisogna ricorrere alla tradizione e alla spiegazione del magistero.
    Si noti che la sua interpretazione contraddice anche il punto 2572 del Catechismo della Chiesa cattolica, oltre ai testi che lo hanno citato di pontefici recenti. La sua interpretazione è praticamente un hapax, non ha precedenti. Lei ce l'ha chiara, contro tutta l'ermeneutica e dottrina della Chiesa? Lei, dopo 4000 anni, ha deciso che dove dice che Dio ha parlato ad Abramo deve dire "Abramo credeva che Dio gli stesse parlando"?
    E tutto perché non vuole accettare che gli effetti della volontà divina possono cambiare, non così la sua Volontà, e che quando l'angelo gli dice di non fare male a Isacco, semplicemente gli dice di non ucciderlo. Che cosa è un testo difficile, che dubbio. Ma così, negando la Scrittura, non si risolvono le difficoltà. Concordo con il suo gentile contendente che è un metodo molto pericoloso, qui non ci sono metafore, stile letterario né modi di parlare che valgano (come il miracolo del sole, che si risolve con Dio che permettesse alla luce di continuare a proiettarsi). Qui si dice letteralmente che Dio parlò ad un uomo a cui Dio parlava spesso. Se si dubita di questo si dubita di tutto.

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    1. Caro Davide,
      rispondo per punti.

      1)
      Lei non ragiona bene, caro Padre Cavalcoli, non ragiona bene. Dio non cambia la sua Volontà, semplicemente manifesta una cosa diversa. Disse anche a Jonas di predicare che Ninive sarebbe stata distrutta, e non lo fu perché i suoi abitanti fecero penitenza. Anche la Scrittura dice che Dio si pentì di aver creato l'uomo e comandò il Diluvio. Non cambia la volontà divina, cambiano le cose.

      R.
      Il caso del sacrificio di Abramo è diverso da quelli del profeta Giona e del diluvio. Nel primo caso sembra di essere davanti ad un Dio che voglia un sacrificio umano, quando già l’Antico Testamento proibisce severamente questi sacrifici, mentre la sua vera volontà si manifesta nell’ordinare ad Abramo di sacrificare un ariete.
      Ora, in questo caso è evidente che è solo la seconda cosa che si addice alla vera volontà divina, mentre la prima era un’idea che Abramo aveva nella sua mente credendo in buona fede che fosse volontà di Dio.
      Se noi non facciamo questa interpretazione abbiamo l’assurdo di un Dio che prima comanda di uccidere e poi si corregge.
      Invece, gli altri due casi non comportano nessuna contraddizione nella volontà divina. Certamente il testo biblico si esprime in un linguaggio antropomorfico, presentando Dio come una mamma che, dopo avere avvertito suo figlio, ritira la sua minaccia vedendo che gli ha obbedito.
      Ma è evidente che Dio, fin da prima del verificarsi della sua volontà (Giona che obbedisce e l’umanità che si pente) sapeva già che i soggetti minacciati si sarebbero pentiti. Quindi la sospensione della pena è stata causata da Dio stesso, il quale ho mosso i cuori al pentimento.
      Per questo il mutamento non è stato in Dio, ma è stato negli uomini che si sono convertiti. Per cui è evidente che, se un peccatore merita la pena, Dio irroga questa pena, ma è altrettanto evidente che, se il peccatore si pente, Dio sospende la pena che aveva minacciato.
      Quindi la volontà di Dio resta una sola nella sua bontà e giustizia. Chi cambia è il peccatore, che dal peccato passa alla giustizia.

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    2. 2)
      Se fraintendi seriamente che la Bibbia, quando parla in terza persona, è in realtà un'illusione di Abramo, l'intero edificio dell'inerranza crolla. La sua interpretazione è contro litteram. Notate, caro Padre: "Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo, Abramo!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò". Qui non c'è il minimo spazio per dire che Abramo si è confuso: l'autore sacro dice che Dio lo ha provato e gli ha parlato. Altrimenti, possiamo pensare che la Bibbia dica qualsiasi cosa.
      Questo è un racconto del narratore, non dice che Abramo si confuse, come non si confuse mai tutte le volte in cui Dio gli parlò. Che sono state diverse, secondo la Scrittura. Interpretiamo che Abramo "credette" che Dio gli promise una discendenza numerosa come le stelle del cielo perché è ovvio che non ci sono stati tanti ebrei quante sono le stelle? Così si interpreta qualsiasi cosa.
      Il suo è un testardo curioso. Nega la Scrittura in un'interpretazione contro litteram per superare una difficoltà, che è stata salvata in eccesso da decine di dottori della Chiesa, inclusi pontefici. Le suggerisco di accettare la difficoltà e non cercare di risolverla con facilità. Forse la sua confusione deriva dalla sua errata idea che, come leggo che lei ha detto: "il credente progredisce continuamente verso una sempre migliore comprensione della Parola di Dio". Questo non è vero. Può progredire o no, non c'è tale progresso continuo o forzato. Il credente può sbagliare, come lei sbaglia, e lì bisogna ricorrere alla tradizione e alla spiegazione del magistero.
      Si noti che la sua interpretazione contraddice anche il punto 2572 del Catechismo della Chiesa cattolica, oltre ai testi che lo hanno citato di pontefici recenti. La sua interpretazione è praticamente un hapax, non ha precedenti. Lei ce l'ha chiara, contro tutta l'ermeneutica e dottrina della Chiesa? Lei, dopo 4000 anni, ha deciso che dove dice che Dio ha parlato ad Abramo deve dire "Abramo credeva che Dio gli stesse parlando"?
      E tutto perché non vuole accettare che gli effetti della volontà divina possono cambiare, non così la sua Volontà, e che quando l'angelo gli dice di non fare male a Isacco, semplicemente gli dice di non ucciderlo. Che cosa è un testo difficile, che dubbio. Ma così, negando la Scrittura, non si risolvono le difficoltà. Concordo con il suo gentile contendente che è un metodo molto pericoloso, qui non ci sono metafore, stile letterario né modi di parlare che valgano (come il miracolo del sole, che si risolve con Dio che permettesse alla luce di continuare a proiettarsi). Qui si dice letteralmente che Dio parlò ad un uomo a cui Dio parlava spesso. Se si dubita di questo si dubita di tutto.

      R.
      Per quanto riguarda l’interpretazione letterale del testo biblico, mi sono espresso già più volte su che cosa si deve intendere per l’interpretazione letterale.
      Per questo la rimando al documento “L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa” della Pontificia Commissione biblica del 1993, dove si spiega che l’interpretazione letterale è la comprensione di ciò che l’autore sacro intende dire, precisando però che l’esegeta deve sapere distinguere di volta in volta ciò che l’autore intende dire secondo la cultura del suo tempo e ciò che intende dire in quanto contenuto della rivelazione divina.
      Cfr:
      - https://www.vatican.va/content/vatican/it.html
      - https://www.vatican.va/content/romancuria/it.html
      - https://www.vatican.va/content/romancuria/it/pontificie-commissioni/pontificia-commissione-biblica.index.html
      - https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html

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    3. L’inerranza biblica non riguarda la cultura dell’agiografo, ma la sua veridicità relativamente all’annuncio del dato rivelato. In base a questo metodo esegetico, riferendo alla cultura umana di Abramo il comando biblico di sacrificare il figlio, otteniamo un beneficio che fino ad ora avevamo ignorato di scagionare Dio dall’aver comandato un sacrificio umano.

      Queste considerazioni ci aiutano a capire quanto è detto nel Catechismo (CCC) al n. 2572.

      “2572 Quale ultima purificazione della sua fede, proprio a lui « che aveva ricevuto le promesse » (Eb 11,17) viene chiesto di sacrificare il figlio che Dio gli ha donato. La sua fede non vacilla: « Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto » (Gn 22,8); « pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti » (Eb 11,19). Così il padre dei credenti è configurato al Padre che non risparmierà il proprio Figlio, ma lo darà per tutti noi.25 La preghiera restituisce all'uomo la somiglianza con Dio e lo rende partecipe della potenza dell'amore di Dio che salva la moltitudine.
      Cfr.
      - https://www.vatican.va/archive/catechism_it/p4s1c1a1_it.htm

      La storia dell’esegesi biblica ci dice che c’è un progresso non soltanto nella conoscenza del dato rivelato, ma anche nei metodi esegetici.
      Il Documento della Commissione biblica, che le ho citato sopra, le mostra come questo progresso nei metodi esegetici effettivamente esista, dato che il Documento assume il metodo storico-critico, elaborato nel secolo XIX.
      Nel contempo non metto in dubbio che esista una interpretazione tradizionale della Sacra Scrittura, la quale riflette la Sacra Tradizione, che non ha nulla a che vedere con una forma di tradizionalismo, che conservi in modo irragionevole certi metodi esegeti oggi superati.
      Se questo a lei sembra modernismo, allora accusi di modernismo il Documento della Commissione Biblica Vaticana.

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    4. Certo che è modernismo. Puro e duro.

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    5. Colgo l'occasione per ricordarle che questa commissione (a differenza della sua predecessora) ha carattere non magisteriale, meramente consultivo. I suoi documenti valgono per quello che si scrive, ma non impegnano minimamente il magistero ufficiale.
      https://www.vatican.va/content/romancuria/it/pontificie-commissioni/pontificia-commissione-biblica/profilo.html

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    6. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    7. Mi dispiace che, a differenza di altri ambiti, lei sia infedele di ermeneutica modernista, Padre. Mi creda che non mi dà alcun piacere constatarlo.

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    8. Cioè l'esegeta è colui che giudica sull'inerranza di un testo rivelato. Modernismo puro e duro.

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    9. Caro Davide,
      nella mia interpretazione il modernismo non c’entra niente, perché il modernismo significa sostenere la mutabilità della volontà divina e quindi dei dati rivelati. Al contrario io ammetto che la volontà di Dio è una sola e riconosco con la Chiesa Cattolica che le verità di fede sono immutabili.
      Un conto è essere moderni e un conto è essere modernisti. Il modernismo è quella eresia, che le ho appena indicato. Essere moderni è un dovere, perché lo Spirito Santo, come ci ricorda spesso Papa Francesco, ci stimola continuamente a progredire e a comprendere sempre meglio il senso della Sacra Scrittura.

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    10. Caro Davide,
      è vero che i documenti della Commissione biblica non costituiscono Magistero. Tuttavia il n. 1 dello Statuto della Commissione prescrive che il Presidente della Commissione sia il Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede.
      Per questo, se non sono direttamente Magistero, i Documenti lo diventano in modo indiretto, in quanto sono approvati dal Presidente.

      Cfr. https://www.vatican.va/content/romancuria/it/pontificie-commissioni/pontificia-commissione-biblica/struttura.html

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    11. Caro Davide,
      perché lei possa fugare questa cattiva impressione nei miei confronti, è sufficiente che lei tenga presente i chiarimenti che le ho dato circa l’autorità della Commissione biblica.

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    12. Caro Davide,
      lei si sbaglia. Il vero modernismo comporta la negazione dell’inerranza biblica. Io le ho già spiegato in che cosa consiste questa inerranza e che essa, come insegna oggi la Chiesa, non riguarda i modi espressivi propri e la cultura particolare dell’agiografo e del contesto storico, nel quale egli vive.

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    13. L'ispirazione divina, d'altra parte, si estende a tutta la Sacra Scrittura in modo tale da preservare da ogni errore ogni sua parte. Naturalmente, all'interno del linguaggio, della cultura e del genere letterario che usa l'agiografo, quando racconta una favola è una favola, quando si usa una metafora, la stessa, un'iperbole (l'aiuto da lei espressione di tagliarsi un arto), una poesia, ecc. La dottrina può essere interpretata, i fatti no. Parafrasando un giudice della Corte, l'interpretazione è libera, i fatti sono sacri.
      Infatti, il metodo storico critico ha distrutto l'ermeneutica cattolica. La stragrande maggioranza degli esegeti attuali sono modernisti. Per non parlare di quello che hanno fatto con i Vangeli, che sarebbe emerso "dalla meditazione di una comunità con il lutto della morte del loro Messia".

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    14. 4)
      L'ispirazione divina, d'altra parte, si estende a tutta la Sacra Scrittura in modo tale da preservare da ogni errore ogni sua parte. Naturalmente, all'interno del linguaggio, della cultura e del genere letterario che usa l'agiografo, quando racconta una favola è una favola, quando si usa una metafora, la stessa, un'iperbole (l'aiuto da lei espressione di tagliarsi un arto), una poesia, ecc.

      R.
      L’ispirazione divina si estende a tutta la Scrittura, ma in modalità diverse. Essa riguarda innanzitutto i dati di fede che l’agiografo deve comunicare e poi riguarda anche i suoi modi espressivi, ma questi modi espressivi sono legati alla particolare mentalità dell’agiografo in relazione al suo tempo.
      Per questo, benchè l’agiografo sia ispirato anche in ciò, è chiaro che i concetti che esprime e dei quali riveste il contenuto rivelato, non costituiscono essi stessi un dato di fede e quindi non possono entrare a far parte del dato rivelato.

      5)
      La dottrina può essere interpretata, i fatti no. Parafrasando un giudice della Corte, l'interpretazione è libera, i fatti sono sacri.

      R.
      Sono d’accordo sul principio. I fatti non vanno interpretati, però vanno compresi.
      Se lei sostiene che nell’episodio di Abramo Dio in un primo tempo ha voluto il sacrificio umano, vuol dire che lei non ha compreso che cosa è realmente successo. Non ha capito il fatto.
      Per quanto riguarda la dottrina, come le ho già detto, l’interpretazione non è difficile: Dio ha voluto provare Abramo nella fede e Abramo ha superato la prova, profetizzando il sacrificio di Cristo. In sostanza la dottrina consiste nel presentarci la fede di Abramo, ossia che cosa significa credere. Questo è il dato rivelato.
      Il discorso del sacrifico umano riflette invece il fraintendimento nel quale, senza volere, è caduto Abramo. Tuttavia tenga ben presente che anche qui Abramo era disposto ad obbedire e per questo anche in ciò egli è il modello del credente, anche se sbagliava in buona fede.
      Le ho detto e le ripeto che Abramo, come ogni profeta biblico, profetizza solamente in alcune occasioni, ma nella sua vita quotidiana è un uomo fallibile come tutti noi. Lei prende per profezia quello che è stato solo un lato umano del pensiero di Abramo.

      6)
      Infatti, il metodo storico critico ha distrutto l'ermeneutica cattolica. La stragrande maggioranza degli esegeti attuali sono modernisti. Per non parlare di quello che hanno fatto con i Vangeli, che sarebbe emerso "dalla meditazione di una comunità con il lutto della morte del loro Messia".

      R.
      Non bisogna confondere la modalità del metodo storico-critico cattolico con quella del metodo protestante.
      Il merito di avere separato questo metodo dall’eresia protestante va a un mio illustre Confratello, il Servo di Dio il biblista francese Marie-Joseph Lagrange, il quale si accorse della validità di questo metodo, oggi comunemente usato negli Istituti Accademici della Chiesa.
      D’altra parte sono d’accordo con lei nel riconoscere che il modernismo è diffuso oggi anche tra i biblisti. Ma allora non si tratta del metodo approvato dalla Chiesa, ma della impostazione protestante.

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    15. In definitiva, fanno parte dell'inerranza i fatti che racconta il narratore come accaduti, anche i più insignificanti. Quando san Giovanni dice, nella moltiplicazione dei pani, che "c'era tanto pascolo in quel luogo", si può interpretare come un riferimento al Salmo 23, per esempio. Ciò che non si può negare è che "c'era molta erba in quel luogo". Se l'agiografo dice che Cristo è nato a Betlemme, può essere interpretato come nato lì dal riferimento davidico, dal nome della città, ecc. Ma il fatto di nascere a Betlemme non può essere contestato. Se dice che è stato visitato dai maghi, lo hanno visitato, a prescindere dal messaggio che porta, dal significato, ecc.
      Le motivazioni, la cultura, lo stile letterario, le iperboli e i paragoni, le favole, tutto quello che vuole. I fatti sono fatti. Questo è ciò che hanno dissolto nell'esegesi degli ultimi 60 anni. Guardate quanti di questi esegeti affermano la storicità dei vangeli dell'infanzia e poi mi racconta.

      Elimina
    16. Caro Davide,
      come al solito rispondo per punti.

      1)
      La dissolve in pratica, caro. Se lei può dire quando Dio parla, contro ciò che dice il narratore, sta distruggendo l'inerranza. Il suo caso è molto comune, l'esegesi modernista e progressista ha devastato la Chiesa negli ultimi 60 anni.

      R.
      Come le ho già detto, per interpretare correttamente la Scrittura, bisogna saper distinguere quando l’agiografo annuncia un dato rivelato e quando invece esprime un punto di vista del suo tempo.
      Lei scambia per Parola di Dio l’opinione dell’agiografo.

      2)
      Qui non parliamo di modi né di cultura, parliamo di un "fatto X", che viene affermato dal testo sacro dicendo che è avvenuto "un fatto X". E lei dice che è accaduto un "fatto non X". È evidente che si tratta di un'interpretazione deformante, contro litteram. Non stiamo nemmeno parlando di una forma di espressione, o di una dottrina che può essere interpretata così o così. Ripeto: è un fatto.

      R.
      Io non nego assolutamente il fatto, ma lo interpreto in modo tale che non ci facciamo un concetto di Dio che vuole dei sacrifici umani.

      3)
      Per via della relativizzazione dei fatti, tutto può essere discusso e discusso. Se si rifiuta anche il soggiorno di Israele in Egitto o l'Esodo, o l'esistenza storica di Mosè e molto di più di Abramo. Lei, purtroppo, non ha inventato la ruota.

      R.
      Le ripeto che non nego assolutamente il fatto, ma lo interpreto come va interpretato, per non disonorare il Nome di Dio.
      Il Dio che vuole sacrifici umani, se lo tenga per lei e non lo faccia dire alla Bibbia.
      In risposta a un commento, di Davide

      Elimina
    17. Caro Davide,
      divido come al solito per punti.

      1)
      In definitiva, fanno parte dell'inerranza i fatti che racconta il narratore come accaduti, anche i più insignificanti. Quando san Giovanni dice, nella moltiplicazione dei pani, che "c'era tanto pascolo in quel luogo", si può interpretare come un riferimento al Salmo 23, per esempio. Ciò che non si può negare è che "c'era molta erba in quel luogo". Se l'agiografo dice che Cristo è nato a Betlemme, può essere interpretato come nato lì dal riferimento davidico, dal nome della città, ecc.

      R.
      La Sacra Scrittura racconta dei fatti. Possono essere dei fatti che lo stesso agiografo ha constatato oppure fatti riportati oppure può trattarsi di fatti inventati a scopo pedagogico.
      Se l’agiografo ha visto i fatti direttamente, possiamo dargli credito. Se invece sono fatti riportati, potrebbe anche sbagliarsi. Se si tratta invece di creazioni letterarie, la questione della verifica non si pone.
      L’inerranza biblica come si pone in questo caso? Qui non si tratta dell’inerranza relativa al dato rivelato, ma si tratta di un’inerranza umana, che non è assoluta, perché l’agiografo può sbagliarsi in quanto gli viene riferita una notizia falsa.
      Tuttavia ci possono essere dei fatti che hanno rapporto con il dato rivelato, per esempio il fatto della crocifissione. Qui l’agiografo non sbaglia non solo dal punto di vista umano, ma anche in quanto divinamente ispirato.

      2)
      Le motivazioni, la cultura, lo stile letterario, le iperboli e i paragoni, le favole, tutto quello che vuole. I fatti sono fatti. Questo è ciò che hanno dissolto nell'esegesi degli ultimi 60 anni. Guardate quanti di questi esegeti affermano la storicità dei vangeli dell'infanzia e poi mi racconta.

      R.
      Sono d’accordo che i fatti sono fatti. Tuttavia resta in molti casi il problema di come interpretarli, soprattutto se sono presenti dei personaggi che parlano. Inoltre bisogna sapere distinguere quando viene narrato un fatto reale o quando si tratta di una narrazione creativa.
      Le forme letterarie, che lei enuncia, sono da tenere presenti per poter capire ciò che l’agiografo intende dire con la narrazione dei fatti. Se infatti noi non comprendiamo il modo di esprimersi dell’agiografo, noi non comprendiamo neppure il senso del suo racconto.
      Tutte queste osservazioni che le faccio dovrebbero incontrare il suo consenso e nulla hanno a che vedere con quella esegesi modernista, che dissolve il dato rivelato con il pretesto dei generi letterari, della cultura, dei tempi o dei modi di esprimersi dell’agiografo.

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    18. In verità, padre Cavalcoli, cerco di non qualificare modernista la sua ermeneutica, ma non posso. L'inerranza dice rapporto con la verità, non con l'autenticità o la veridicità. Lei la relativizza al punto da ammettere che se l'agiografo riferisce un fatto nella Bibbia come accaduto, può sbagliarsi. Si vaporizza il 90% dei fatti riferiti nell'Antico Testamento, e molti del Nuovo.
      In conclusione non c'è inerranza. È buffo che lei, così generoso nel concedere l'infallibilità a tutto il magistero di un Papa, rinneghi un testo ispirato. Comunque, è un vicolo cieco, non lo convincerò se avesse ragione, ma non ce l'ha.
      Cordiali saluti a tutti.

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    19. Un'ultima cosa: con il suo concetto di inerranza (non è inerrante quello a cui il narratore non ha assistito) non vedo come salva l'inerranza dei Vangeli dell'infanzia, che affrontano varie difficoltà storiche. Vorrei sapere se lei la tiene (la inerranza), o se la tiene per un midrash, una storia edificante o simbolica. A proposito, l'esegesi modernista li ha caricati con il suo stesso argomento, come spiega p. Laurentin. Praticamente nessun esegeta moderno sostiene la sua storicità, figuriamoci la nascita a Betlemme.
      Cordiali saluti

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    20. Caro Davide,
      divido ancora in punti.

      1)
      L'inerranza dice rapporto con la verità, non con l'autenticità o la veridicità.

      R.
      Che l’inerranza abbia rapporti con la verità non c’è dubbio, perché inerranza vuol dire non sbagliarsi.
      La questione però dell’inerranza biblica è complessa. Occorre fare delle distinzioni, perché, come le ho già detto, l’agiografo può sbagliarsi in buona fede nel riferire un fatto, che gli è stato raccontato in una forma diversa a come realmente è accaduto.
      Ora, è chiaro che qui l’inerranza biblica in senso proprio non c’entra per nulla, perché l’inerranza che noi credenti cerchiamo nella Sacra Scrittura non sono tanto le idee dell’agiografo, ma è la sua inerranza nel comunicarci la Parola di Dio. È su questo punto che è inammissibile che la Bibbia possa sbagliarsi, come sarebbe inammissibile che ciò che essa ci presenta come Parola di Dio non sia Parola di Dio.
      Per quanto riguarda l’autenticità di uno scritto, anche qui l’agiografo si può sbagliare, in quanto può accogliere una tradizione che assegna a un dato autore un dato scritto, mentre in realtà si trattava di discepoli. Le faccio un esempio. Gli scritti che in passato erano attribuiti ad Isaia, oggi sono attributi non soltanto ad Isaia ma anche ad una serie di suoi discepoli.
      Stando così le cose, lei comprende che in questo caso l’inerranza biblica non c’entra, ma sono soltanto in gioco le idee dell’agiografo.
      Per quanto riguarda la veridicità, tenga presente che veridicità e inerranza sono la stessa cosa e vogliono entrambi dire il non sbagliarsi nel riferire qualche fatto o qualche dottrina.

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    21. 2)
      Lei la relativizza al punto da ammettere che se l'agiografo riferisce un fatto nella Bibbia come accaduto, può sbagliarsi. Si vaporizza il 90% dei fatti riferiti nell'Antico Testamento, e molti del Nuovo.

      R.
      Non c’è nulla di strano che una persona umana, come tutti noi, possa sbagliarsi nel riferire un fatto, perché male informata.
      Ora, l’agiografo è un essere umano come tutti noi, soggetto all’errore in tutto all’infuori di quanto riguarda l’insegnamento del dato rivelato. Qui possiamo essere sicuri che non si sbaglia, perché assistito dallo Spirito Santo.
      Per quanto riguarda i fatti narrati dall’agiografo, considerando la sua fallibilità umana concernente cose che non riguardano il dato rivelato, compito dell’esegeta è quello di verificare, per quanto è possibile, di volta in volta, se l’agiografo si sbaglia o non si sbaglia.
      Che utilità ha questa verifica? Essa ci aiuta a capire meglio qual era la cultura del tempo dell’agiografo nei suoi lati positivi e in quelli negativi.
      E che rapporto c’è tra questa cultura e la Paola di Dio? Che questa cultura ci media la stessa Parola di Dio, per cui, ammesso anche che l’agiografo si sia sbagliato a causa dei limiti della cultura del suo tempo, come per esempio la caduta delle stelle dal cielo sulla terra, quello che ci dice è comunque utile e ci serve a capire il dato rivelato, che in tal caso sono gli sconvolgimenti escatologici che preannunciano la fine del mondo e il ritorno glorioso di Cristo.

      3)
      In conclusione non c'è inerranza. È buffo che lei, così generoso nel concedere l'infallibilità a tutto il magistero di un Papa, rinneghi un testo ispirato.

      R.
      Le ho spiegato abbondantemente e con le dovute distinzioni in che cosa consiste l’inerranza e quali sono i suoi limiti. Quindi la pregherei di non tornare più su questo punto.
      Per quanto riguarda il Magistero del Santo Padre, esso, come lei dovrebbe ben sapere e come ho spiegato più volte, è soggetto a tre gradi di autorità, in ognuno dei quali è verace, in quanto realizza a vari livelli il mandato di Cristo di confermarci nella fede e di guidarci sulla via della salvezza.

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    22. 4)
      Un'ultima cosa: con il suo concetto di inerranza (non è inerrante quello a cui il narratore non ha assistito) non vedo come salva l'inerranza dei Vangeli dell'infanzia, che affrontano varie difficoltà storiche.

      R.
      Come le ho già detto, l’agiografo può sbagliarsi nel prendere per vero un fatto che gli è stato raccontato e circa il quale lo stesso narratore può essersi sbagliato. L’importante è tenere presente che questo fatto riportato nulla ha a che vedere con il dato rivelato. Un conto è il racconto del diluvio e dell’arca di Noè e un conto è la resurrezione di Cristo. Si tratta di due fatti riportati.
      Circa i primi due si può ritenere ragionevolmente che l’agiografo abbia accolto tradizioni popolari, usando un modo immaginoso di esprimersi, benchè anche in questi fatti ci sia un nucleo di verità rivelata, che riguarda la storia della salvezza.
      Per quanto riguarda il Vangelo dell’infanzia di San Luca, i fatti narrati sono talmente vicini alla redazione dell’agiografo e riguardano talmente in modo diretto eventi fondamentali della storia della salvezza, che dobbiamo essere certi della totale storicità, veridicità e autenticità dei fatti, dove indubbiamente un testimone di primo piano è stata la Madonna, insieme con altri testimoni diretti. Tutto ciò comporta evidentemente l’inerranza non soltanto umana, ma anche ispirata, da parte di San Luca.
      Per quanto riguarda gli episodi, c’è da notare una perfetta continuità tra l’esegesi tradizionale e quella storico-critica. Inoltre indubbiamente qui sono avvenute le manipolazioni da parte della esegesi modernista, come per esempio quella che è consistita nel negare il colloquio di Maria con l’angelo, per non parlare dell’eresia consistente nel negare la verginità della Madonna.

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    23. "Ma non è assolutamente permesso o restringere l'ispirazione soltanto ad alcune parti della sacra Scrittura, o ammettere che lo stesso autore sacro abbia errato. Infatti non è ammissibile il metodo di coloro che risolvono queste difficoltà non esitando a concedere che l'ispirazione divina si estenda alle cose riguardanti la fede e i costumi, e nulla più, stimando erratamente che, trattandosi del vero senso dei passi scritturali, non tanto sia da ricercarsi quali cose abbia detto Dio, quanto piuttosto il soppesare il motivo per cui le abbia dette" (Denz. 1850, Leone XIII, Providentissimus Deus, 18 nov 1893).

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    24. E sarò sincero, tra un letterato ingenuo e un tizio che nega l'inerranza biblica, sottoponendola a una relativizzazione della sua inerrancia che praticamente la trasforma in un catechismo di dottrina, rimango col letteralista. Almeno conserva meglio la fede. Sia chiaro che la sua argomentazione sul colloquio di Maria con Gabriele è puro volontarismo: con le sue stesse argomentazioni, chiunque può sostenere che fu un'illusione della Madonna, che l'importante è la dottrina dell'Incarnazione. Tutto è liquido. No, non lo compro, è un sentiero molto pericoloso che di fatto ha portato allo smarrimento la quasi totalità degli esegeti moderni. Lamentabile sine exitu l'ha capito.

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    25. Caro Davide,
      Papa Leone XIII, quando dice che l’autore sacro non si sbaglia, è evidente che si riferisce all’annuncio della verità rivelata. Ma quando Gesù, per significare la fine del mondo, parla delle stelle che cascano dal cielo sulla terra, intende annunciare con questa espressione una verità divina o non piuttosto si adatta ad una credenza di quel tempo, che oggi, con le conoscenze che abbiamo del cosmo, farebbe ridere?
      Per quanto riguarda l’estensione dell’ispirazione al di là delle verità di fede, qui l’ispirazione divina non porta l’agiografo ad affermare sempre delle verità legate alle sue conoscenze umane oppure delle opinioni dipendenti dalla cultura del suo tempo, ma lo porta a essere infallibile nel far uso di quelle opinioni umane al fine di esprimere la verità rivelata.
      Per restare nell’esempio delle stelle, l’infallibilità dell’autore sacro (Ap 6,13) non consiste evidentemente in una verità riguardante le stelle, ma sta nell’efficacia del paragone per esprimere il dramma degli avvenimenti escatologici.
      Quindi è infallibile nel dirci la verità divina escatologica, ma non è infallibile il contenuto dell’astronomia dei suoi tempi. Questa concezione serve soltanto per esprimere la verità divina. E chi sa interpretare la funzione simbolica di quell’immagine si accorge che l’autore sacro è infallibile anche in questo modo esprimersi, cioè utilizzando le idee di quel tempo. In ciò è stato ispirato da Dio, non nel senso che Dio avallato il contenuto del paragone, ma nel senso che ha ispirato l’agiografo ad usare quel paragone.
      Quindi, per riassumere, le idee del tempo sono sbagliate, ma l’autore è infallibile nel sapere esprimere il contenuto escatologico.

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    26. Caro Davide,
      le ho spiegato per filo e per segno in che cosa consiste l’inerranza.
      Quindi, a questo punto, se lei mi accusa di negare l’inerranza, io mi sento offeso. Quindi la prego di ritirare questa accusa infondata e, se non vuole farlo, chiudiamo il discorso.
      Le faccio presente che la fede si irrobustisce facendo uso della ragione e di una buona esegesi, in particolare quella storico-critica, oggi raccomandata dalla Chiesa.
      Riguardo all’Annunciazione, io non ho affatto sostenuto che la Madonna si sia illusa. Quindi, anche questa è una cosa palesemente falsa.
      Io le ho proposto, con la mia esegesi, un sentiero sicuro. Se lei lo trova scivoloso, vuol dire che lei non ha compreso che io seguo le indicazioni del Magistero della Chiesa Cattolica post-conciliare.

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  4. Caro Padre, è la parola di Dio. Vangelo di Giovanni, 8,56. Naturalmente prevedeva Cristo e il suo sacrificio. Gesù lo dice nel vangelo citato.
    Potrebbe quest'uomo – profeta e mistagogo – aver “confuso” la voce di Dio con la propria? Non è possibile.

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    1. Davide: Non ho la sua sicurezza, e non credo che sia saggio avere tale sicurezza, perché qui siamo in materia discutibile. Certo, so che quel testo è Parola di Dio, e che il senso letterale è il primo e fondante a cui ricorrere, ma che dobbiamo abbandonarlo se ci porta a conclusioni contraddittorie con la stessa Bibbia o con la ragione o, in ogni caso, con il Magistero della Chiesa.

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    2. Caro Davide,
      nei personaggi biblici, e pensiamo soprattutto ai profeti, si ritrova quella dualità che ormai è riconosciuta dall’esegesi moderna e cioè l’aspetto umano, che comporta una relatività alla cultura del proprio tempo, e un aspetto soprannaturale, che rende i profeti una voce della Parola di Dio.
      L’aspetto umano in Abramo si riferisce alla antica pratica dei sacrifici umani, che si trovava presso i Cananei. L’aspetto soprannaturale è invece dato, come dice il Signore, dal fatto che Abramo previde il sacrificio di Cristo o quanto meno previde la venuta del Messia.
      Questa profezia può essere adombrata nelle parole che Abramo dice a suo figlio, che gli domanda dov’è la vittima. Le parole di Abramo dimostrano la sua grande fede nel fatto di affermare che la vittima l’avrebbe data Dio stesso.
      Infatti fino ai suoi tempi le vittime erano offerte dal sacerdote. Ma che Dio stesso potesse offrire la vittima del sacrificio, questa è la novità che testimonia di una vera rivelazione divina.
      Dalla profezia di Abramo si deduce dunque che ad Abramo è stata rivelato il piano del Padre di offrire il Figlio per la salvezza dell’umanità. Qui indubbiamente abbiamo una vera rivelazione divina, al di là e indipendentemente da qualunque condizionamento culturale.

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    3. Caro Anonimo,
      io direi che non si tratta tanto di abbandonare il senso letterale. Anche l’esegesi moderna dice chiaramente, in continuità con quella tradizionale, che il senso letterale è fondamentale e si deve sempre partire da esso.
      Il chiarimento che ci offre l’esegesi moderna è dato dal fatto che lo stesso senso letterale a volte fa riferimento ai condizionamenti storico-culturali ed altre volte esprime il dato rivelato.
      Compito dell’esegeta è quello di capire quando c’è in gioco il condizionamento umano e quando invece si manifesta la Parola di Dio.

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    4. La prudenza interpretativa esige il capovolgimento della Tradizione.
      Non ci sono dubbi. Ogni hermeneuta serio avverte che la formula "Abramo, Abramo. - Eccomi", è in linguaggio biblico il modo in cui Dio inizia il dialogo con la persona (v.gr., Adan, Cain, Samuel, ecc). Questa "illusione uditiva" di Abramo è pericolosissima e può trasformare il racconto di qualsiasi comunicazione divina da parte dell'agiografo in una farsa.

      L'unico caso simile che trovo nella Bibbia casa con la teoria pellegrina di padre Cavalcoli è il voto di Iefte, così diverso da questo caso e che mostra chiaramente quando un uomo sbaglia. Osservate le differenze astronomiche tra un racconto e l'altro, e la cura con cui l'agiografo non parla mai di una comunicazione del Signore, si tratta di un'azione imprudente de Iefte, alla quale segue l'inganno riguardo all'adempimento di un voto immorale (Giudici 11, 30-36). La tradizione ermeneutica ebraica è qui rilevante anche, fa riferimento ai voti unilaterali e illeciti.

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    5. Caro Davide,
      riguardo al concetto di tradizione, le ho già risposto distinguendo la sacra Tradizione, che ci trasmette il dato rivelato, e la tradizione esegetica, che va soggetta a un continuo progresso guidato dallo Spirito Santo, sotto la sorveglianza della Chiesa.
      Come le ho già detto, in questo episodio di Abramo, il dato rivelato consiste nel fatto che Dio comanda ad Abramo di compiere un sacrificio. Ma quale sacrificio? Qui entra in gioco la visuale dell’agiografo, il quale, secondo quanto ci insegna la moderna esegesi secondo i generi letterari, imbastisce una drammatizzazione.
      Abramo è convinto di sentire che Dio lo chiama. E quindi in un primo tempo si convince di dover sacrificare il figlio, fino a che l’angelo non lo distoglie da questo atto. Solo a questo punto emerge il dato rivelato e cioè il dovere di Abramo di sacrificare l’ariete.
      Questa drammatizzazione non comporta nessuna illusione, perché Abramo è in buona fede e questo suo atteggiamento motiva la lode che Dio fa della sua fede.
      E’ pericolosa invece l’interpretazione che faccia di Dio il promotore di sacrifici umani, benchè l’interpretazione precedente sia a sua volta motivata dalla buona fede nel presupposto di una obbedienza basata su di una teologia volontaristica, anche questa ovviamente in buona fede.

      Per quanto riguarda il caso di Iefte concordo naturalmente con lei nel riconoscere che nel proposito di Iefte non c’è certamente la volontà di Dio. Però il suo voto assomiglia in qualche modo al proposito di Abramo. Abramo riceve la grazia di essere illuminato su quella che era veramente la volontà di Dio, mentre Dio lascia il povero Iefte nel suo errore involontario.
      Quanto alla figlia, è interessante notare che essa pure, come suo padre e come Abramo, si convinse che avrebbe dovuto essere sacrificata. A nessuno dei due venne in mente di desistere da questo atto, perché entrambi erano convinti che fosse voluto da Dio.

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  5. Caro Padre Giovanni,
    io ammiro la pazienza, la benevolenza, la carità, l'instancabile affanno di insegnare, come eccelsa opera di misericordia a chi è nell'errore.
    E non mi riferisco qui ad errore per quanto riguarda l'interpretazione del capitolo di Genesi 22, perché questa questione esegetica è materia discutibile, finché la Chiesa non si emette in modo autoritativo e quindi vincolante per il fedele cattolico.
    Mi riferisco al fatto che il lettore che gli sta obiettando la sua interpretazione esegetica (Davide), ha più volte dimostrato in questa occasione, e in altre, di essere un "cattolico" lontano dalla piena comunione ecclesiale, o, come dice papa Francesco, un cattolico situato ai margini del corso centrale della corrente cattolica (per non usare l'espressione "cattolico scismatico").
    Ripeto: ammiro la sua pazienza, e la ringrazio, perché leggendo le sue risposte a Davide, impariamo sempre di più. Grazie.

    Nadia Marquez

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    1. Nadia, quando avevo 5 anni mi hanno insegnato una buona regola di educazione, non si parla male di una persona a un terzo quando è presente l'offeso. Vedo che non gliel'hanno insegnata. Non le hanno insegnato a non fare giudizi sconsiderati e spericolati, il che è più grave.

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    2. Caro Davide,
      quello che ho fatto è parlare bene di padre Cavalcoli, che sta conducendo un meritorio dialogo apologetico con qualcuno che, come lei stesso ha manifestato per le sue espressioni, è -per le sue stesse dichiarazioni- oggettivamente situato lontano dalla piena comunione con la Chiesa cattolica. E questo non è affatto parlare male di lei, perché non giudico la sua situazione di coscienza davanti a Dio o ai suoi peccati, ma qualifico oggettivamente la sua situazione nella Chiesa cattolica, se ancora lei si considera cattolico.

      Nadia Marquez

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    3. Cara Nadia,
      io ho seguito le obiezioni dei miei oppositori, perché mi rendo conto veramente che la mia posizione contrasta con una interpretazione che si potrebbe dire millenaria. Per questo ascolto con molta attenzione quelle obiezioni, che sono spesso serie e mi mettono in difficoltà.
      Tuttavia ogni volta mi accorgo di poterle risolvere. Per questo, i Lettori che mi hanno seguito non hanno perso tempo, ma insieme con me e i miei obiettori hanno fatto un cammino che ci fa progredire nella verità.

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  6. Caro Padre Cavalcoli,
    condivido il saggio intervento e la gratitudine di Nadia.
    È chiaro che lei prendi sul serio e come suo dovere religioso il compito apologetico nei confronti di coloro che sono fuori dalla retta via cattolica.
    Del resto, come ci ricordi dal Catechismo di San Pio X: “sopportare pazientemente le persone moleste”.

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    1. Caro Don Sabino,
      la ringrazio per le sue parole.
      Noi Domenicani siamo esercitati e abituati a questo tipo di confronti e devo dirle, come ho detto anche a Nadia, che questi obiettori spesso mi presentano delle obiezioni serie ed usano quasi sempre un tono garbato, che attira le risposte, sicchè alla fine, anche se ritengo di avere ragione, il risultato è che io a volte tutto sommato vengo ad imparare cose nuove dai miei stessi obiettori.
      È la pratica di quel dialogo che oggi è tanto raccomandato dalla Chiesa, per risolvere i gravi conflitti, che purtroppo esistono anche tra noi cattolici.

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  7. Caro Padre Cavalcoli:
    Non intendo continuare con il mio argomento precedente. Ora vorrei solo farle, se mi permette, una domanda sulla metodologia teologica.
    Vedo che lei, lasciando da parte i suoi accenti espositivi, prende in considerazione PUNTO PER PUNTO, le obiezioni del suo avversario, e risponde così come l'ha indicato il suo avversario.
    Ma nel prossimo passo, mi sembra che il buon senso portato a un corretto dialogo filosofico/teologico sia che il suo avversario, in modo simile e rispettoso, dovrebbe fare come lei ha fatto, cioè prendere PUNTO PER PUNTO le risposte che lei le ha dato e risponderle, sia accordandosi con voi, o rifiutando le vostre risposte CON ARGOMENTI, o sollevando nuove obiezioni o eventualmente segnalandovi che avete dimenticato di prendere in considerazione qualcosa della prima obiezione, ecc.
    Al contrario, il sig. Davide non risponde alle sue risposte, ma risponde "alla buona" (e a volte con lo stile di dare con riluttanza, non so da quale altezza, una misera elemosina o uno avanzo del tavolo...).
    Non credo che questo sia il modo giusto di condurre un dialogo rispettoso.
    Non da parte sua, ovviamente, ma del suo avversario.
    Almeno a me sembra così.

    Nadia Marquez

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    Risposte
    1. Cara Nadia,
      noi Domenicani siamo abituati a discutere con persone che non sempre seguono i metodi appropriati della discussione. Per questo cerchiamo di essere tolleranti.
      Io chiudo il discorso solo quando vedo che l’interlocutore non accetta le mie confutazioni, ma torna daccapo a sostenere i medesimi errori.
      Ora devo riconoscere che Davide fa una certa resistenza a quello che dico e nello stesso tempo vuole dimostrare di avere comunque ragione. Ma la verità deve essere cercata con umiltà, con l’ascolto reciproco e accettando le posizioni giuste dell’interlocutore. Altrimenti diventa un monologo.
      Devo però aggiungere che finora ha variato gli argomenti, dandomi l’occasione di volta in volta di rispondere.

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