Risposte a Carlo Molari sul valore espiativo e soddisfattorio del sacrificio di Cristo

 Risposte a Carlo Molari

sul valore espiativo e soddisfattorio

 del sacrificio di Cristo

Un Lettore mi ha presentato, chiedendomi un parere, alcuni brani del teologo Carlo Molari, recentemente defunto, tratti da una relazione da lui tenuta il 30 luglio 2009 (https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-significato-della-croce-e-lequivoco-del-sacrificio/#_ftnref10).

Rispondo per punti al testo del Molari.

 

1.«I motivi per i quali Gesù ha potuto far sì che la croce, che era condanna ingiusta, conseguente al rifiuto di accogliere la sua proposta di conversione per la venuta del Regno di Dio, sia stato evento di salvezza, non sono precisati in modo articolato e uniforme nella Scrittura […]

Risposta. Cristo ha insegnato che avrebbe dato la sua vita in riscatto di molti (propter nostram salutem), che innalzato da terra, avrebbe attirato tutti a sé, che egli era il serpente innalzato nel deserto guardando il quale gli uomini si sarebbero salvati, che ognuno di noi deve prendere la sua croce e seguirlo, che offriva il suo corpo e il suo sangue in sacrificio per la remissione dei peccati, tutte affermazioni riflettendo sulle quali la Chiesa nei secoli successivi avrebbe capito che Gesù ha realizzato la profezia di Is 53 del Servo di Dio, il quale, caricatosi innocente del peso delle nostre colpe, ci ha liberati dal peccato e dalla morte col sacrificio sacerdotale di se stesso (Eb c.10) sull’altare della croce, offrendosi in sacrificio espiatorio e riparatore per le remissione dei peccati (Consacrazione eucaristica), ha pagato col suo sangue il prezzo del nostro riscatto dando così adeguato compenso e soddisfazione al Padre al nostro posto (Concilio di Trento, Denz.1529) per l’offesa ricevuta dal peccato, ci ha riconciliati col Padre ed ha attirato sui peccatori pentiti il perdono e la misericordia del Padre.

La Scrittura presenta l’opera salvifica di Cristo sotto sei schemi interpretativi che sono entrati nella formulazione del dogma della redenzione:

1). Gesù ha pagato al nostro posto il debito della colpa ovvero il prezzo del nostro riscatto. Schema della transazione economica o schema redentivo.

2). Gesù ci ha liberati dalla schiavitù del demonio strappandoci dal suo potere e restituendoci alla soggezione al Padre. Schema demonologico-liberazionista.

3). Gesù si è offerto in sacrificio cultuale espiatorio per la remissione dei peccati ottenendoci grazia, misericordia e perdono da parte del Padre. Schema cultuale religioso.

4). Gesù si è interposto come mediatore di pace fra Dio e gli uomini. Schema della conciliazione.

5). Gesù ha dato soddisfazione al Padre al nostro posto e ci ha resi capaci di operare meritoriamente per la nostra la salvezza, che è dono gratuito del Padre. Schema giuridico-salvifico.

6). Gesù è il medico che con la grazia della croce ci guarisce dalla malattia del peccato, ci rimette in salute e ci ridona la vita dopo la morte. Schema sanitario.


2. Le componenti della storia della salvezza sono fondamentalmente due: una discendente, costituita dall’azione divina che attraverso Cristo offre grazia e perdono all’uomo, l’altra ascendente, costituita dal cammino dell’uomo Gesù che attratto e condotto dalla grazia dello Spirito giunge alla perfezione della identità filiale (cfr “reso perfetto” Eb. 5,9) e traccia per l’uomo il cammino verso la vita eterna, offrendo nello stesso tempo la forza dello Spirito per percorrerlo […]

Risposta. Giusta l’azione discendente divina e quella ascendente umana di Cristo. La prima comporta la gratuità della salvezza. La seconda comporta il merito. «Reso perfetto» non si riferisce al Figlio, già di per sé perfetto ab aeterno, ma all’umanità di Cristo, in quanto Cristo, nel corso della sua vita terrena ha progredito nella virtù (Cf Lc 2,52).


3. Il primo modello, prevalentemente ascendente, considera Gesù come il Figlio/servo che sulla croce offre a Dio riparazione per i peccati degli uomini e merita da Dio quei doni di grazia che salvano l’umanità intera dal male, giustificandola. Le metafore utilizzate nel Nuovo Testamento e i riferimenti profetici del Primo Testamento hanno provocato diverse spiegazioni sul ruolo svolto da Gesù nell’offrire a Dio il giusto compenso per i peccati degli uomini, come loro sostituto e/o rappresentante. Egli, soffrendo e morendo, secondo le varie metafore, avrebbe compiuto un sacrificio di espiazione, versato il prezzo del riscatto, offerto una soddisfazione proporzionata all’offesa ricevuta, subito la pena del peccato al posto degli uomini o come loro rappresentante […].

Risposta. Tutte queste affermazioni non vanno messe al condizionale, ma all’indicativo perché sono le varie espressioni del dogma della redenzione.


4. Resta in questa prospettiva una grave difficoltà già avvertita in modo generico dal Catechismo del Concilio di Trento. Dopo aver dichiarato che tutta la religione e la fede cristiana si fondano sulla efficacia salvifica della croce, esso afferma: “Se vi è una qualche cosa che fa difficoltà alla mente e alla intelligenza umana lo è certamente il mistero della croce, il più difficile fra tutti, e a stento noi possiamo concepire che la nostra salvezza dipenda dalla croce e da colui che per noi su quel legno è stato inchiodato” (Catechismo del Concilio di Trento P. 1, a. 4, n. 57) […]

Risposta. Queste parole del Concilio di Trento sono commoventi, perché testimoniano dell’umiltà della Chiesa, che pure è Sposa di Cristo ed interprete infallibile della sua parola e del suo Mistero, davanti all’incomprensibilità del Mistero, nella consapevolezza della limitatezza della nostra debole ragione e della povertà dei nostri concetti, per quanto veri, nel comprendere l’apparente scandalosità della Croce che ci salva.


5. Praticamente la difficoltà veniva risolta con l’aggiunta di una componente discendente costituita dalle strutture ecclesiali e sacramentali, collegate alla croce, attraverso le metafore dell’acqua e del sangue scaturite dal costato di Cristo. La croce salverebbe perché muove Dio a diffondere grazia. Di fatto la salvezza diventa effettiva solo quando l’azione redentrice di Cristo trova accoglienza presso il Padre, il quale nella Sua risposta benevola introduce l’uomo in una nuova condizione di esistenza, facendolo rinascere come figlio, lo libera dai mali eventualmente provocati dal peccato e lo accoglie nel regno definitivo della vita.

Risposta. Tutto ciò è esatto, però va messo all’indicativo per i motivi di cui sopra.

 

6. Tutto questo dipende dall’azione svolta da Cristo, dai meriti da Lui acquisiti, ma di fatto si compie attraverso lo Spirito effuso da Cristo risorto e quindi attraverso l’attuale azione della sua Chiesa e dei suoi sacramenti. Questo modo di pensare a livello della pietà popolare è giunto fino al Concilio Vaticano II e in alcuni ambiti ecclesiali resta tuttora.

Risposta. Non si tratta di un «modo di pensare a livello della pietà popolare» ma del modo di pensare della Chiesa nella sua formulazione dogmatica.


7. In realtà attribuire a Dio volontà vendicativa o punitiva non si concilia con l’immagine evangelica di Dio che, come aveva promesso nei profeti (“perdonerò la loro iniquità, e non mi ricorderò più del loro peccato” Ger. 31, 34), in Cristo è giunto ad offrire perdono “gratuitamente, per grazia” (Rom. 8, 14) “non imputando agli uomini le loro colpe” (2Cor. 5, 19) proprio nel momento in cui gli uomini rifiutavano in modo violento la proposta di Gesù e non accoglievano l’offerta della Nuova Alleanza. Il Dio rivelato da Gesù offre perdono di propria iniziativa e senza porre condizioni preliminari».

Risposta. In Dio c’è una volontà di giustizia, che ha comportato il castigo del peccato di Adamo con la morte e la volontà del Padre che il Figlio, prendendo su di sé, Lui innocente, il castigo al nostro posto (Is 53), compensasse col suo sacrificio e riparasse all’offesa subìta dal peccato dell’uomo.

E c’è una volontà di misericordia, per la quale il Padre per misericordia ha voluto che l’uomo in Cristo potesse essere in grado di sdebitarsi del debito della pena del peccato e quindi, unendosi alla croce salvifica di Cristo, ottenesse il perdono delle colpe e potesse collaborare con i meriti delle opere buone della penitenza alla propria salvezza.

Non esiste quindi una condizione preliminare alla nostra salvezza che dipenda da noi, ma l’iniziativa della nostra salvezza è la grazia preveniente. Una volta però che siamo in grazia, la salvezza diventa condizionata dal compimento delle nostre opere buone in grazia, detta questa volta conseguente.

Così il Padre ha rimesso gratuitamente all’uomo pentito il debito della colpa del peccato grazie al sacrificio di Cristo, ma nel contempo il Padre ha voluto che grazie al sacrificio di Cristo fosse pagato il debito della pena ovvero fosse scontata o espiata la pena del peccato (ossia la morte), la quale pena, grazie alla potenza salvifica della croce, è stata così trasformata in principio di riconciliazione dell’uomo col Padre e germe di vita eterna.

8. «[…] la prospettiva discendente si riferisce alla testimonianza di amore che Cristo ha offerto in modo sublime sulla croce e alla forza dello Spirito che ha immesso nella storia umana per la sua fedeltà alla testimonianza dell’amore. La componente ascendente (ciò che Gesù offre a Dio per la salvezza dell’uomo) è scomparsa completamente e la croce è divenuta il simbolo della misericordia di Dio che, come aveva promesso (“perdonerò la loro iniquità, e non mi ricorderò più del loro peccato” Ger. 31, 34), in Cristo è giunto ad offrire perdono “gratuitamente, per grazia” (Rom. 8, 14) “non imputando agli uomini le loro colpe” (2Cor. 5, 19) proprio quando i responsabili del popolo rifiutavano in modo violento l’offerta e non riconoscevano il tempo della Nuova Alleanza offerta in Gesù.

Risposta. La componente ascendente, ossia l’offerta sacrificale di Sé al Padre fatta da Cristo non scompare affatto col realizzarsi della componente discendente, perché questa è solo la parte di Dio nell’opera della salvezza, ma Dio vuole che facciamo anche la nostra parte, perchè ha voluto che l’uomo si salvasse non per sola grazia (troppo comodo!), come credeva Lutero, ma collaborando con i suoi meriti all’opera della grazia, il che di nuovo implica l’aspetto sacrificale dell’opera della salvezza. Che Cristo si sia sacrificato per noi non servirebbe a nulla, se noi non uniamo alle sue le nostre sofferenze.

 9. Molte pagine bibliche dicono con chiarezza che Gesù ha ricevuto da parte di Dio la missione di trasmettere agli uomini una parola di misericordia, la potenza dello Spirito Santo. A coloro che sono “stanchi e oppressi” Gesù promette: “troverete ristoro” (Mt. 11,28).
Dio non ci ha salvato in Cristo perché ha ricevuto da Lui una adeguata riparazione, bensì perché per mezzo di Lui ha offerto agli uomini doni di vita. La croce in questa prospettiva appare un evento contingente, determinato dal rifiuto umano di accogliere il Vangelo della grazia.

Risposta. Sì, ma ce ne sono anche altre che parlano della necessità di fare penitenza, di vincere i vizi, di sforzarci per l’acquisto delle virtù, di saper rinunciare agli allettamenti del mondo e allontanare le insidie del demonio, nonché di espiare i peccati in unione alla croce di Cristo. Queste cose non contraddicono quelle, ma occorre metterle assieme, perché è solo così che comprendiamo veramente come avviene la nostra salvezza. Altrimenti restiamo nei nostri peccati e invece di camminare verso la salvezza, camminiamo verso la perdizione.

La croce non è per nulla un evento contingente, ma del tutto necessaria alla salvezza. Senza la croce non c’è salvezza. La salvezza è il prodotto e l’effetto della croce così come il bene vince il male, la vita salva dalla morte e la luce dissipa le tenebre.

10. Proprio per questo la testimonianza della croce è preziosa: mostra che ogni evento, anche ingiusto e contrario al volere divino, può essere vissuto in modo salvifico. Il suo valore salvifico però non sta nella sofferenza che merita perdono, ma nella gratuità dell’amore di Cristo “che ha amato sino alla fine” (cfr Gv. 13, 1), ed è divenuto “icona” dell’amore misericordioso del Padre, strumento dello Spirito che ha effuso. […]

Risposta. È vero che «ogni evento, anche ingiusto e contrario al volere divino, può essere vissuto in modo salvifico». Ed è vero che la salvezza è effetto gratuità dell’amore di Cristo, “che ha amato sino alla fine” (cfr Gv. 13,1), ed è divenuto “icona” dell’amore misericordioso del Padre, strumento dello Spirito che ha effuso».

Tuttavia questo amore salvifico gratuito che ci viene donato è proprio quello che ci dà la forza e la volontà di vivere in Cristo e con Cristo crocifisso quella «sofferenza che merita perdono», che è la stessa sofferenza del sacrificio col quale Cristo ha meritato il perdono del Padre, sacrificio partecipando al quale con i nostri sacrifici, partecipiamo dei meriti soprannaturali di Cristo e possiamo meritare anche noi de congruo quella salvezza che Egli ci ha meritato de condigno.


11. In se stessa la croce è contraria al volere di Dio, conseguenza necessaria del rifiuto opposto alla proposta di conversione fatta da Gesù. Egli è stato costretto dagli uomini a continuare la missione redentrice in situazioni drammatiche e violente, rivelando così un Dio che continua ad amare anche quando infuria la violenza e l’odio, ed è dalla parte di chi soffre.

Risposta. Intendendo per «croce» la morte espiatrice di Cristo, si deve dire che la croce è stata voluta dal Padre come mezzo essenziale e fondamentale della nostra salvezza. Dio ha voluto la morte di Cristo come aveva voluto castigare Adamo con la morte, dopo averlo avvertito che, se avesse mangiato dell’albero, sarebbe morto. Neppure Dio può fare che l’effetto del peccato non sia la morte, perché il peccato è per definizione l’azione che procura la morte. Se Dio può far sì che uno ingerendo veleno non muoia, ciò non dipende dal fatto che il veleno non procuri la morte, ma dipende da un atto miracoloso divino, che toglie al veleno la sua nocività. Così Dio certo può sospendere la pena del peccato, ma ciò non rientra nel piano ordinario della salvezza, tanto che neppure per suo Figlio il Padre ha voluto fare eccezione, benché non avesse fatto nulla di male. Dio certo continua ad amare chi lo odia, ma ciò non vuol dire che lo mandi in paradiso, ma nel senso che Egli ama anche i dannati dell’inferno.

12. La croce è il momento in cui l’amore di Gesù ha raggiunto un vertice eccelso: “Egli ha amato sino alla fine” (Gv. 13,1) e risorgendo ha rivelato la potenza vivificante dell’amore. La croce diventa in tale modo il simbolo dell’azione divina che con la forza dell’amore può trasformare gli eventi anche più negativi della storia umana in storia di salvezza. La componente ascendente della salvezza risiede solo nel cammino dell’uomo Gesù e di ogni uomo che, al suo seguito, “condotto dallo Spirito” (Rom. 8,14) perviene all’identità filiale».

Risposta. Sono d’accordo. Unica osservazione: non è che Gesù pervenga all’identità filiale allorchè viene condotto dallo Spirito, ma è già Figlio dall’eternità.

13. «[…] persino nell’Antico Testamento, la direzione primaria dell’autentico sacrificio sembra chiara: da Dio all’umanità piuttosto che dalla umanità a Dio” [O’ Collins G., Gesù oggi. Linee fondamentali di cristologia, S. Paolo, 1993 p. 217]. Potremmo dire che sacrificio indica l’azione divina che riserva a sé una realtà per inserirla nelle dinamiche della storia salvifica.

Risposta. No. Il sacrificio è un atto umano di culto a Dio già presente nella religione naturale, quindi è atto dell’uomo o più precisamente del sacerdote, che sale a Dio. Vedi il simbolo biblico del profumo che sale verso l’alto. Possiamo certo dire che il Padre ha sacrificato il Figlio. E qui si tratta certo di un’azione discendente.

Ma che vuol dire? In concreto, di fatto significa che il Padre ci ha donato il Figlio che si è sacrificato per noi per volontà del Padre. Quindi, azione ascendente di Cristo uomo verso il Padre, anche se quest’azione ascendente è stata preceduta dall’azione discendente del Padre sull’umanità del Figlio per comandargli di compiere il sacrificio, il quale, non dimentichiamolo, è stato compiuto da Gesù in obbedienza al Padre a costo del sudore di sangue nel Getsemani.

14. Il corpo di Gesù è stato riservato a Dio fin dall’inizio, o meglio Dio ha riservato per sè il corpo di Gesù per giungere ad esprimere tutta la perfezione della sua offerta di vita agli uomini. In questo senso la lettera agli Ebrei applica a Gesù il salmo 39/40 “Non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto, ecco io vengo per fare o Dio, la tua volontà” (Eb. 10, 5-7). […] Cosa significa quindi che la croce è sacrificio? Significa che nella croce in Gesù il Dabar divino, il Logos del Padre ha potuto esprimersi in tale modo da iniziare la nuova tappa dell’alleanza. Gesù si è reso disponibile a Dio in modo compiuto e definitivo, senza residui. Solo in questo senso la croce può essere detto sacrificio.

Risposta. Certamente Gesù sulla croce ci parla. È quello che San Paolo chiama «discorso della croce» (logos tu staurù, I Cor 1,18). Certamente sulla croce «il Logos del Padre ha potuto esprimersi in tale modo da iniziare la nuova tappa dell’alleanza. Gesù si è reso disponibile a Dio in modo compiuto e definitivo, senza residui».

Ma come concretamente si è reso disponibile? Appunto espiando, riparando e pagando per noi! Non basta quanto dice Molari. È troppo generico per qualificare il sacrificio di Cristo. Se vogliamo, Cristo sulla croce ci ha fatto una lezione di altissima teologia. Da duemila anni i teologi e i santi riflettono e meditano sulle famose parole dette da Gesù sulla croce. La sua cattedra però non era la tranquilla cattedra del docente universitario, ma il sangue che gli usciva dalle ferite e i dolori lancinanti che prefiguravano la sua morte per la remissione dei nostri peccati.

A questo punto mi viene in mente quanto dice lo stesso Lutero, sincero credente nel sacrificio espiatorio di Cristo, cioè che il vero teologo più che essere il docente magniloquente comodamente seduto in cattedra, è colui che partecipa della croce di Cristo. Altrimenti il parlare di «sacrificio» come fa Molari è una chiacchiera ridicola.

15. Quando Paolo scrive ai Romani: “Dio che non risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato in sacrificio per noi tutti, come non ci darà in dono, assieme a lui, tutte le cose?” esprime una dinamica oblativa, discendente. In questa linea deve essere letta l’azione di Cristo: “Cristo vi ha amato e ha offerto se stesso per noi oblazione e sacrificio di soave odore a Dio” (Ef. 5, 2) e “Gesù Cristo ha dato se stesso per noi allo scopo di riscattarci da ogni iniquità e purificare per sé un popolo che gli appartenga esclusivamente” (Tit 2, 13). Dio ha suscitato l’azione con cui in Gesù ci ha purificati, ci ha riscattati dalla schiavitù del peccato, ha ristabilito l’alleanza […].

Risposta. Su ciò non posso che essere d’accordo.

16. Espiare vuol dire perdonare, l’espiazione quindi non è nostra ma di Dio. Il termine biblico espiazione, quindi, non ha il significato attuale di “scontare un peccato, una colpa, sostenendone la pena o il castigo” […] I termini ebraici relativi all’espiazione si riferiscono ad un’azione purificatrice di Dio che si esercita abitualmente attraverso il sangue, ma che di per sé non implica la sofferenza del peccatore come pena del peccato commesso. […] “Il soggetto dell’espiazione, quindi è Dio, il quale attiva il suo perdono attraverso il rito espiatorio. L’azione espiatrice inoltre, viene esplicata mediante la purificazione dell’offerente il quale, attraverso la sacralità del sangue, rientra in sintonia con la divinità” [39]. R. Fabris riferendosi a queste riflessioni conclude: “Nel rituale dell’espiazione il soggetto del verbo kipper, «espiare» è Dio, per cui questo «espiare» equivale a «perdonare». […] In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione biblica. Dio purifica il peccatore, ‘copre’ i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto. (Cf Ger. 31, 34 che parla della nuova alleanza) […] In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione come nel Nuovo Testamento viene ricordata da Paolo (Rom. 3, 25: “lo ha prestabilito come strumento di espiazione” (strumento di espiazione o propiziatorio è il kaporeth: su cui veniva versato il sangue per potenziarlo nella sua dinamica purificatrice) e nella prima lettera di Giovanni (1 Gv 2,2: vittima di espiazione per i nostri peccati; 1 Gv. 4,10: (Dio) “ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”). Dio purifica il peccatore, copre i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto, come aveva preannunciato Geremia: “perdonerò le loro iniquità, non mi ricorderò più dei loro peccati” (31,34). Usare il termine ‘espiazione’ con il significato che ha oggi risulta perciò erroneo».

Risposta. No. San Gerolamo traduce il kipper ebraico con ex-piare, termine della religione romana che significa invece compiere un atto pio, similmente del resto al termine sacri-ficium, compio un atto sacro con l’offerta di una vittima. L’espiare e il sacrificare già nella religione naturale sono atti pii o sacri, ossia compiuti dal sacerdote in onore della divinità, per renderle culto, renderla propizia e favorevole e ottenere grazia e perdono.

In I Gv 2,2 e 4,10 Gesù è presentato come ilasmòs, che Gerolamo traduce con propitiatio e la CEI «vittima di espiazione». Dio evidentemente non può essere vittima, ma semmai in Cristo, è colui che offre la vittima. Ciò significa che nel culto cristiano Gesù, il Figlio si offre come vittima di espiazione. È dunque il Figlio, nell’umanità di Gesù sacerdote della Nuova Alleanza nel suo sangue, che compie l’espiazione; non è il Padre.

Questi accetta l’atto espiativo del Figlio e si rende propizio all’uomo concedendo il suo perdono. Questa è la dottrina della Scrittura e per conseguenza del dogma della redenzione. È chiaro che l’idea che il sacrificio plachi l’ira divina, pur presente nella liturgia, è una semplice metafora per esprimere il fatto che in realtà è l’uomo che placa la sua ira contro Dio, mantenendo sempre Dio il suo amore verso il peccatore, anche quando l’offende col peccato ed Egli lo punisce. C’è da aggiungere che l’offerta al Padre di Gesù vittima di espiazione viene perpetuata nella Messa dal sacerdote in persona Christi come rinnovazione incruenta del sacrificio di Cristo.

Il perdono, dunque, non è l’expiatio, ma è l’effetto dell’expiatio. L’expiatio è compiuta dal sacerdote per ottenere il perdono. L’espiazione non è affatto un atto divino, come lo è invece il perdono, ma all’atto espiatorio del sacerdote corrisponde l’atto divino del perdono.

17. «La teologia, infatti, da tempo si era resa conto che il mistero della croce non poteva essere interpretato adeguatamente considerando Cristo solo come colui che offre a Dio una riparazione per conto degli uomini. Anche S. Tommaso d’Aquino alla linea ascendente dell’azione di Cristo nei confronti del Padre (merito, soddisfazione, sacrificio, redenzione, espiazione 3 S. Th. Q. 48, 1-5), aggiunge la linea discendente con la dottrina della causalità strumentale di Gesù che comunica agli uomini la grazia meritata (3 S. Th. q. 48 a. 6). In questa prospettiva a metà del secolo XX fu riscoperta la funzione salvifica della risurrezione e si cominciò a parlare della croce/risurrezione o della Pasqua come unico evento di salvezza [vedi Durrwell F. X., La risurrezione di Gesù, mistero di salvezza, Paoline, Roma 1963 (originale 1954)]. In tale prospettiva la missione di Gesù non consiste solo nell’offrire riparazione a Dio per i peccati degli uomini ma anche, e per alcuni soprattutto, nel trasmettere agli uomini quella forza spirituale che fa fiorire novità di vita. Questa è l’opera (ergon Gv. 4,34) compiuta da Cristo per salvarci: ha donato lo Spirito (“ricevete lo Spirito Santo” Gv. 20, 22) e ha perdonato i peccati.

Risposta. Sono d’accordo.

18. […] Il termine “soddisfazione” non è biblico. Significa “risarcimento o riparazione dovuta per aver procurato o subito un danno o un’offesa”. È stato utilizzato nella tradizione per esprimere il compenso che Gesù avrebbe offerto a Dio per le offese ricevute dagli uomini peccatori. Il senso antropomorfico del termine ha inquinato per molti secoli la soteriologia: nelle sue diverse coniugazioni è da abbandonare. Greshake G., osserva che S. Anselmo “è il primo che costruisce esplicitamente la soteriologia sull’assioma ‘aut satisfactio aut poena’ che Tertulliano aveva sviluppato nella teologia della penitenza”[ Greshake G., Soteriologia nella storia della teologia, in Redenzione ed emancipazione, Queriniana, 1975 p.113].

Risposta. Non importa che il termine soddisfazione non si trovi nella Scrittura. Esiste il concetto. E per questo il Concilio di Trento lo ha usato per spiegare il mistero della redenzione (satisfecit pro nobis, Denz. 1529). È chiaro che Dio non è stato come un proprietario umano, il quale derubato di una sua proprietà, esige di essere risarcito o, avendo subìto un danno, esige di essere compensato del danno ricevuto e che il danno sia riparato, o che essendo stato offeso, esige che gli sia data soddisfazione o gli sia resa giustizia.

Eppure la Scrittura usa proprio questo linguaggio, che ovviamente non dev’essere antropomorfizzato, ma neppure può essere sostituito o ignorato o, peggio, biasimato. Va rettamente interpretato, perché, trattandosi di un mistero soprannaturale di fede, dobbiamo stare col linguaggio usato dalla Scrittura e interpretato dalla Chiesa, non possedendo per conto nostro con la nostra semplice ragione, il criterio per giudicare e valutare.

Il termine soddisfazione fa riferimento al fatto che col peccato l’uomo si è sottratto alla volontà e alla grazia divine e si è assoggettato a un altro dominio, quello del diavolo. Certo che metafisicamente parlando, Dio non può perdere nulla e non può essere privato di nulla. Ma quando la Scrittura parla dell’opera di giustizia del Figlio che ha riscattato l’uomo a prezzo del suo sangue e, sottraendolo al dominio del demonio, ha restituito l’uomo a Dio suo legittimo proprietario e signore, si riferisce in realtà non ad una perdita subìta da Dio, ma ad una perdita subìta dall’uomo con l’essersi staccato da Dio col peccato. Dio non ha perduto niente; è l’uomo che ha perso se stesso. Ma una volta chiarito questo, nulla impedisce l’uso delle metafore bibliche, le quali si esprimono in termini antropomorfici che avvicinano Dio all’uomo, ed in tal modo innalzano l’uomo a Dio.


19. Il termine “soddisfazione” è insensato: Dio non deve essere soddisfatto
Molti teologi oggi difendono la teoria anselmiana contro le deviazioni che essa ha subito nella storia. Dal punto di vista storico essi hanno forse ragione, ma certamente l’impostazione anselmiana dipendeva dai modelli giuridici del tempo che egli aveva studiato a Padova nella sua giovinezza. Gonzalez riassume in modo corretto il pensiero del teologo medioevale: “Sant’Anselmo nega che il Padre abbia inviato il Figlio suo per morire in croce (sarebbe ingiusto far morire un giusto al posto dei peccatori), ma lo ha mandato al mondo con la missione di predicare il Vangelo; il Figlio ha trovato la morte per fedeltà (obbedienza) a questa missione, rifiutata dagli uomini. Dal momento che gli uomini avevano peccato, erano incapaci di ‘soddisfare’ per il loro peccato (che consiste nell’offendere Dio venendo meno all’ordine che Egli ha stabilito); si può soddisfare solo offrendo più di quello che è dovuto, ma tutto ciò che l’uomo ha o fa (inclusa la morte) egli lo deve. Dunque per lui può soddisfare solamente Gesù Cristo (se Dio vuole mandarlo) perché la sua morte (non essendo Egli peccatore) non gli è dovuta, ma può accettarla per pura generosità e libertà” [Gonzalez Carlos Ignacio, Cristologia. Tu sei la nostra salvezza, Piemme, 1988 p. 263].
Ma oggi non c’è nessun motivo per utilizzare questa categoria: Dio non deve essere soddisfatto. Dio giustifica gratuitamente, per grazia. In Gesù egli rivela e realizza questa sua decisione».

Risposta.  Definire «insensato» il termine soddisfazione riferito alla redenzione di Cristo vuol dire insultare la dottrina del Concilio di Trento e falsare il dogma della redenzione.  Sant’Anselmo non dipende dall’Università di Padova, ma dalla Scrittura. La dottrina della soddisfazione, che Anselmo ricava dalla Scrittura ci dice semplicemente che l’uomo col peccato è caduto in una situazione di miseria, tale che da essa con le sue sole forze, non è in grado di risollevarsi. Per potersi salvare e recuperare la grazia perduta, occorrerebbe all’uomo una forza divina, tale da poter trasformare la morte, castigo del peccato, in vita. Quest’uomo designato da Dio è Gesù Cristo, il quale può risarcire il Padre in forza della sua ricchezza divina e sempre per la sua divina potenza può dare efficacia salvifica al suo sacrificio espiatorio.

Sant’Anselmo non fa che riprendere il profeta Isaia (c.53) quando insegna che Cristo innocente ha preso su di sé il peso dei nostri peccati ottenendo per noi dal Padre misericordia e perdono. Dar soddisfazione al Padre non significa altro che questo:

«Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità, per le sue piaghe siamo stati guariti. Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori».

La Bibbia paragona inoltre la situazione del peccatore a quella di un debitore insolvente e incapace di rifondere il debito, perché concepisce il peccato come un debito che l’uomo contrae con Dio senza poi aver più la capacità di sdebitarsi. Il peccatore ruba a Dio ciò che gli appartiene, cioè se stesso e lo distrugge. Dio per tornare in pace con l’uomo esige di essere risarcito. Chi è in grado di ripagare il Padre di ciò che gli è stato sottratto? Il Figlio che, a prezzo del suo sangue, ricompra o redime l’uomo ostaggio di Satana.

Dio dunque giustifica gratuitamente nel senso che la salvezza viene dalla sua grazia. Ma ciò non toglie che Egli chieda soddisfazione e compenso per l’offesa del peccato. Il che vuol dire che chiede all’uomo di fare, in Cristo, la sua parte, corrispondendo alla grazia con le opere riparatrici e penitenziali.

È gratuito ciò che proviene da Dio, ma è doveroso e condizione per essere salvi l’opera del peccatore pentito, che in Cristo e grazie a Cristo dà soddisfazione al Padre unendo la sua croce quotidiana alla croce di Cristo. È da ipocriti prendere a pretesto la gratuità della grazia per evadere dalla responsabilità di unire ad essa le nostre opere di riparazione e di soddisfazione. La salvezza è essere franchi e non farla franca.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 giugno 2022

Mons. Carlo Monari

 

Un Lettore mi ha presentato, chiedendomi un parere, alcuni brani del teologo Carlo Molari, recentemente defunto, tratti da una relazione da lui tenuta il 30 luglio 2009 

 

Immagine da Internet

3 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    non posso che ringraziarla sentitamente delle parole di chiarificazione e di puntuale critica, rispetto a diverse affermazioni del teologo Molari, alla luce dei dogmi del Magistero infallibile della Chiesa.

    RispondiElimina
  2. Devo purtroppo, con amarezza, constatare che anche alcune parole del Papa emerito (http://www.fondazioneratzinger.va/content/dam/fondazioneratzinger/contributi/QUO%202016%20063%201703%2000004-05.PDF), vengano talvolta strumentalizzate, per attenuare, se non svalutare, il valore del sacrificio espiatorio e soddisfattorio di Cristo sulla croce. Nel 2016, nel corso di un’intervista, fu rivolta, dal gesuita Jacques Servais, la seguente domanda a Benedetto XVI:
    «Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno (cfr. GS IV 215.ss) […] Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che [il Dio] quello dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4)?».
    E Benedetto XVI, allora Papa emerito, spinto dalla preoccupazione pastorale di non far percepire Dio Padre come il “carnefice vendicativo” del Figlio innocente, rispose (forse non con il consueto rigore teologico):
    «La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile […] La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è ab intrinseco una sola. Quando il Figlio nel giardino degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l’umanità al di dentro della volontà di Dio […] Ma allora perché mai la croce e l’espiazione?
    […] Mettiamoci di fronte all’incredibile sporca quantità di male, di violenza, di menzogna, di odio, di crudeltà e di superbia che infettano e rovinano il mondo intero […] L’antico Israele era convinto che il quotidiano sacrificio per i peccati e soprattutto la grande liturgia del giorno di espiazione (yomkippur) fossero necessari come contrappeso alla massa di male presente nel mondo […] I cristiani sapevano che il tempio distrutto era stato sostituito dal corpo risuscitato del Signore crocifisso e che nel suo amore radicale e incommensurabile era stato creato un contrappeso all’incommensurabile presenza del male [...] Essi sapevano anche che di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita. Essi sapevano che il Cristo crocifisso e risorto è un potere che può contrastare quello del male e che salva il mondo. E su queste basi poterono anche capire il senso delle proprie sofferenze come inserite nell’amore sofferente di Cristo e come parte della potenza redentrice di tale amore […] Su queste basi diventa più perspicuo il rapporto tra il Padre e il Figlio. Riproduco sull’argomento un passo tratto dal libro di de Lubac su Origene che mi pare molto chiaro:
    “Il Redentore è entrato nel mondo per compassione verso il genere umano. Ha preso su di sé le nostre passiones prima ancora di essere crocefisso, anzi addirittura prima di abbassarsi ad assumere la nostra carne: se non le avesse provate prima non sarebbe venuto a prender parte alla nostra vita umana. Ma quale fu questa sofferenza che egli sopportò in anticipo per noi? Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, lui che è sovrabbondante di longanimità, pazienza, misericordia e compassione, non soffre anch’egli in un certo senso? “Il Signore tuo Dio, infatti, ha preso su di sé i tuoi costumi come colui che prende su di sé suo figlio” (Deuteronomio 1, 31). Dio prende dunque su di sé i nostri costumi come il Figlio di Dio prende su di sé le nostre sofferenze. Il Padre stesso non è senza passioni! Se lo si invoca, allora Egli conosce misericordia e compassione. Egli percepisce una sofferenza d’amore (Omelie su Ezechiele 6, 6)”».

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Bruno,
      ho pubblicato un commento a quelle parole di Benedetto XVI, che ha pronunciato in risposta alla domanda del Padre Gesuita Jean Servais.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.