Ateismo e salvezza - Sesta Parte (6/10)

 

Ateismo e salvezza

Sesta Parte (6/10)

 La Kabbalà

Conduce all’ateismo la concezione kabbalistica di Dio come En-Sof, «all’infinito»[1]. Super-Infinito, nome supremo innominabile, magico ed esoterico, al di sopra del Nome Jahvè, il Tetragramma. Secondo questa visione l’uomo è emanazione dell’En-sof e quindi è potenzialmente onnipotente. Attua questa potenza magica mediante l’uso calcolato numerologico del Nome Jahvè, che gli consente di creare il Golem, ente materiale pensante al servizio dell’uomo. 

Prometeo

I saggi pagani avevano già il sentore che il voler essere come Dio o il considerarsi un dio o il ribellarsi al dio o il voler detronizzare il dio e sostituirsi a lui, è una folle presunzione, che essi chiamavano hybris, che possiamo tradurre con: "arroganza", “protervia”, "tracotanza" o "superbia". L'uomo fa bene ad esser grande, ma non deve pretendere di innalzarsi al di là dei suoi limiti. Non deve trasgredire (trans-gradior= vado oltre) i confini che gli ha posto la divinità.

Ciò è illustrato molto bene dai famosi miti di Icaro e di Prometeo, già esaltato, quest'ultimo, da Marx, il quale lo chiamò "il primo dei santi del calendario filosofico", nonchè dei Titani, i quali volendo spodestare gli dèi, furono debellati da Giove e gettati nel Tartaro. Un corrispettivo molto interessante di questi miti è il racconto biblico della torre di Babele.

Solo col panteismo l'uomo possiede per natura un sapere divino, come avviene nello gnosticismo[2] e nella teosofia[3], oppure l'uomo è considerato per natura un dio, che eventualmente deve prender coscienza della sua divinità, come avviene nella visione indiana[4].

Esempi di rinascita moderna dell'antico panteismo pagano sono l'esoterismo massonico e la filosofia di Severino, il quale giudica nichilista il cristianesimo, perché secondo lui il concetto di creazione dal nulla comporterebbe l’affermazione che l’essere è niente; il che ovviamente è falso, perché il dire che l’essere viene dal nulla non coincide affatto col dire che l’essere è nulla.

 Venire-da significa provenienza dove il proveniente cioè l’essere creato segue a ciò da cui proviene, ma non lo nega. Non essere è ben altra cosa dal venire-da o provenire-da. «Dal nulla» non vuol dire negare l’essere proveniente dal nulla, perché «proveniente» non significa negare se stesso per il semplice fatto di provenire dal nulla.  Certo il nulla nega quell’essere che viene dal nulla, ma quel nulla è prima di quell’essere che proviene dal nulla, per cui quando l’essere si attua, scompare quel non-essere che lo nega.

Guglielmo di Ockham[5]

Conduce all’ateismo il nominalismo occamista, per il fatto che, benchè la sua gnoseologia sia realista, sostenendo che l’intelletto ha per oggetto l’ente individuale esistente fuori dell’anima, concepisce l’universale solo come un’entità mentale artificiale, che egli significa con un nome convenzionale, che suppone per una collezione di individui diversi e simili fra di loro.

Si capisce allora come Dio per Ockham non può intendere l’universale, ma intende solo il singolare. Ora, posto che è la volontà a contattare il singolare, ecco che l’intelletto è soppiantato dalla volontà, e il volere sostituisce il sapere, secondo il noto detto sit pro ratione voluntas. È chiaro che un Dio di sola volontà, chiuso nel concreto senza l’universale astratto, per quanto lo si proclami buono, senza intelletto è stoltezza, che conduce la volontà alla violenza; tuttavia Ockham non tira le conseguenze atee di tale impostazione, ma resta comunque testa, benchè di un teismo che favorisce l’autoritarismo in quanto volontarista; ma d’altra parte favorisce il liberalismo individualista ed utilitarista per l’esagerata accentuazione della singolarità.

Cartesio

Cartesio si professava cattolico e praticava effettivamente la religione cattolica. Praticava la morale cattolica, ma disse espressamente, che quella per lui era solo una «morale provvisoria», in vista della elaborazione della autentica morale che discendeva dal suo sistema, morale che non ebbe mai l’audacia di formulare, ma che non sarà altro che l’etica dell’idealismo tedesco, che produrrà il comunismo e il nazismo.

Tuttavia c’è buon motivo di pensare che la sua adesione ai dogmi del cattolicesimo non fosse convinta, ma solo di convenienza, perché in effetti essi non hanno alcuna base razionale nella sua filosofia, la quale invece, come è stato dimostrato da Cornelio Fabro in un suo amplissimo e documentatissimo studio storico-critico[6], studio sul quale baso la mia critica a Cartesio, è tale da condurre all’ateismo attraverso l’idealismo panteista tedesco.

Iniziamo col ricordare che, come è noto, Cartesio sostiene che l’idea di Dio è naturalmente insita nella nostra mente. Già qui siamo fuori strada, perché, propriamente parlando, solo Dio possiede l’idea a priori di se stesso, essendo Egli stesso l’Idea assoluta di Se stesso, come pure ben vide Hegel.

Invece noi non possediamo nessuna idea innata di Dio, ma la ricaviamo per astrazione intellettiva dalla considerazione ragionata delle cose sensibili esterne, delle quali abbiamo certa, oggettiva, immediata ed iniziale esperienza e circa le quali ci interroghiamo sull’origine della loro esistenza.

Viceversa, come sappiamo, la visione di Cartesio avrà un enorme successo e sarà ripresa da Kant, il quale appunto parlerà di «idea di Dio» come «forma a priori», della ragione e dove a priori vuol dire: da-ciò-che-è-prima. Ora, dobbiamo notare che esiste un prima del conoscere e un prima nell’essere. Non è vero, come credeva Spinoza, che l’ordine delle idee corrisponde all’ordine delle cose: è l’inverso.

Infatti, il prima nell’essere è Dio, mentre l’a posteriori, il da-ciò-che-è-dopo, sono le creature, perché Dio è il creatore delle creature. Viceversa, nel processo del nostro conoscere, ciò che sta prima, all’inizio sono le creature, conosciute per prime. Da queste passiamo a Dio, per cui quel Dio che è prima nell’essere, nel conoscere viene dopo, alla fine, come culmine e vertice del conoscere.

Ora, in base a ciò, dobbiamo osservare contro Cartesio che soltanto Dio possiede l’idea innata ossia riflessa di Dio e sulla base di questa idea conosce il mondo che egli crea. La tesi di Cartesio, dunque, secondo la quale noi possediamo l’idea di Dio a priori, senza averla ottenuta a posteriori, ossia da una riflessione sull’esperienza delle cose, è una tesi che considera la nostra mente come fosse la mente divina, per cui, mettendo la nostra mente al posto di Dio o identificandola con quella di Dio, porta rispettivamente al panteismo e all’ateismo.

Occorre notare inoltre che il principio cartesiano del sapere posto nella coscienza di pensare e non nell’esperienza della realtà esterna, conduce all’ateismo perché il mio esistere non è il principio dell’essere, ma la mia coscienza di pensare proviene dal mio esistere. Occorre osservare che io sono il principio del mio sapere, ma non del mio essere, il quale precede ed è presupposto al sapere e alla mia autocoscienza.

Osservo che io compio certamente l’atto del mio sapere, ma traggo il mio sapere dal contatto con le cose, dall’essere esterno alla mia mente. Senza questo contatto non posso farmi l’idea o il concetto delle cose e quindi di Dio, perché il concetto è un rispecchiamento, un’immagine o una rappresentazione mentale della cosa o del reale, che mi faccio con la mente per conoscerlo.

Conduce all’ateismo il razionalismo cartesiano, per il quale la ragione è capace da sé di conoscere tutto il conoscibile per mezzo dei suoi concetti e ragionamenti, per cui non ammette al di là e al di sopra di sé, fosse pure Dio, qualcosa che essa non possa conoscere e dimostrare.

Cartesio non giunge a sostenere, come farà Hegel, che la ragione umana ha un potere infinito perché di per sé essa è «il divino nell’uomo»; e tuttavia, negando che ci sia qualcosa che la ragione non possa sapere scientificamente, ossia dimostrativamente, è chiaro che rendeva inutile la fede cristiana e già sboccava nello gnosticismo, che sarebbe poi stato fatto proprio dalla massoneria e dall’idealismo tedesco[7].

Che poi il bene perfezioni il semplice essere inteso come essenza, questo lo aveva già capito Platone e lo ribadisce San Tommaso, quando Platone ha detto che Dio è epèkeina tes usias, al di là dell’essenza. Ma nel contempo Platone ha chiamato Dio to pantelòs on, l’ente totalmente e perfettamente ente.

Pascal

«Dio sensibile al cuore» è il succo della teologia di Pascal. «Cuore», come si sa, è il termine biblico usato da Cristo per significare l’anima in quanto radice delle potenze vitali, sensibili e intellettuali, emotive e volontarie. Comunque, nel linguaggio di Cristo troviamo tutti i termini che si riferiscono all’attività della ragione e dell’intelletto in rapporto a Dio[8]. Egli stesso è il Logos, ossia la Ragione sussistente, evidentemente principio trascendente, fondante e regola dell’umana ragione, partecipazione dello stesso Logos e finalizzata alla conoscenza del Logos.

Pascal è vittima del concetto cartesiano di ragione, chiuso nelle scienze matematiche e meccaniche, per cui, influenzato anche dal pessimismo filoluterano giansenista, non riesce a vedere come la filosofia possa e debba trattare convenientemente di Dio.

Eccolo allora contrapporre inopportunamente il «Dio dei filosofi» al «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», come se Colui che la ragione scopre essere l’Essere sussistente non fosse lo stesso Dio, nascosto, nel primo caso, e rivelato, nel secondo, e ridurre il credere ad una «scommessa» come se si trattasse delle corse dei cavalli e non piuttosto dell’impegno più serio e fruttuoso della ragione, che mette in gioco l’eterno destino dell’uomo.

Spinoza

Nasconde l’ateismo il concetto di Dio di Spinoza come unica Sostanza esistente, fondata su se stessa, alla maniera di Parmenide, Sostanza assoluta esistente in forza della sua essenza, dotata di molti modi e di infiniti attributi, fondamentalmente il pensiero e l’estensione, quindi ad un tempo spirituale e materiale, Spirito e Natura, Sostanza che si determina e si finitizza nella molteplicità degli enti:  omnis determinatio est negatio, in quanto  le cose sono una negazione determinata della Sostanza.

Gli enti  però per Spinoza non sono sostanze, ma manifestazioni particolari ed accidentali della Sostanza, suprema tra le quali c’è l’intelletto umano, che raggiunge la sua perfezione nell’amor Dei intellectualis, che però non è un atto dell’uomo come creatura di Dio, perché Dio non crea niente dal nulla, in quanto nulla esiste al di fuori di Dio, ma Dio stesso vede se stesso e il mondo nell’uomo, come uomo e mediante l’uomo attributo di Dio, sicchè l’uomo a sua volta diventa l’occhio di Dio, come dice Spinoza, per cui vede Dio, se stesso e il mondo così come Dio li vede, ossia sub specie aeternitatis.

L’ateismo si nasconde sotto il deismo

Fenomeno caratteristico della mentalità empiristica inglese è il deismo, in particolare quello di Hume[9], che viene distinto dal teismo, in quanto mentre questo comporta l’affermazione certa, necessaria, universale ed obbligatoria dell’esistenza di Dio in base al principio di causalità applicato analogicamente partendo dall’esperienza sensibile e elevando l’intelletto alla conoscenza di Dio come ipsum Esse, il deismo è un atteggiamento mentale e morale infrollito, illanguidito ed opportunistico, per il quale il soggetto ammette l’esistenza di Dio in forza di una sua decisione utilitaristica, revocabile e di convenienza, non necessitata dall’intelletto e dall’applicazione del principio di causalità.

Per il deista l’affermazione dell’esistenza di Dio non è la conclusione certa di un ragionamento incontrovertibile, che tocchi l’essere o l’esistenza delle cose; non implica che egli intenda con l’intelletto metafisico la portata intellegibile ed ontologica della sua affermazione; non richiede che egli sappia che cosa è lo spirito; non richiede un impegno morale assoluto, tale da render il soggetto pronto a rinunciare alla vita, pur di restar fedele alla sua convinzione.

Essa è una semplice credenza comune discutibile e non del tutto certa, che non pretende di trascendere l’esperienza, l’immaginazione e l’emozione, un’esperienza mistica e concreta, estranea alle idee astratte, facente parte della propria storia personale, non esprimibile in concetti metafisici, perché la metafisica è il segno della presunzione della ragione di abbandonare il mondo materiale, elevandosi ad un piano di realtà, lo spirito, non verificabile dall’esperienza sensibile.

Da questo punto di vista la vicenda di un Thomas More, benché egli fosse inglese, non riflette il deismo ma il teismo. Viceversa, potremmo chiederci se un Hume fosse stato disposto a dare la vita per la sua credenza nell’esistenza di Dio.

In altre parole, mentre il teista è pronto al martirio pur di non rinnegare o mettere in dubbio la sua convinzione, il deista calcola di volta in volta ciò che gli conviene fare per salvaguardare i suoi interessi del momento, ottenere successo mondano ed evitare noie, ora facendo il teista, ora facendo il deista.

Chi favorirà l’idolatria del Dio prodotto dal pensiero sarà Cartesio, il quale, dubitando della veracità dei sensi, sosterrà che l’idea di Dio è innata nella nostra mente, con la conseguenza di dar spazio alla convinzione kantiana che all’idea di Dio non corrisponde una realtà esterna per noi inconoscibile, ma che tale idea non è altro che l’idea regolatrice e sintetizzatrice suprema della ragione insita nella ragione. Eccoci di nuovo nell’idolatria. E qui Feuerbach colpisce giusto.

Il deismo illuminista massonico

Il deismo massonico deriva dal deismo anglicano empirista. Le Costituzioni di Anderson del 1723 affermano che il massone ammette l’esistenza di Dio come «Architetto dell’universo» e che «non può essere uno stupido ateo».

Tuttavia esse suppongono la visione kantiana della «religione entro i limiti della pura ragione»[10], nel senso che ammettere una religione non come religione naturale, ma come religione rivelata, ossia basata sulla supposizione di un Dio personale che parli di sè all’uomo e gli dia  ordini in vista di una salvezza celeste ed eterna, è visto come un uscire illecito e irragionevole dai giusti limiti della ragione, per entrare in un groviglio di problemi irresolubili e spingere a prospettive chimeriche, a desideri vani ed irrealizzabili, distraendo l’uomo dal prendersi cura dei problemi della vita reale.

Il Dio massonico fu fatto proprio dai massoni francesi del sec. XVIII, come Voltaire[11] e Robespierre[12], i quali sostennero che essendo l’esistenza di Dio un dato certo della ragione, doveva essere un principio dello Stato, ma nel contempo sostennero che il concetto di Dio dev’essere liberato dalla dogmatica e dalla morale cristiana, le quali sono un insieme di precetti autoritari e tabuistici, di leggende inattendibili, di miti puerili e fantasie assurde;  soffocano la libertà di pensiero, negano l’uguaglianza umana col creare privilegi e discriminazioni, proibiscono la tolleranza, mortificano la dignità della ragione e il valore della scienza e ne bloccano il progresso, spingono alla violenza, alla superstizione e conducono a costumi morali retrivi e alla tirannia. 

Il Dio massonico, quindi, è solo l’ideale della ragione del quale parla Kant. Tuttavia i gradi alti, «speculativi», prevedono una conoscenza esoterica e iniziatica di Dio come «gnosi»[13] o «scienza assoluta» come attuazione dell’«Io» di Fichte[14], ovvero come attuazione del panteismo.

In base a queste considerazioni si può dire che il concetto massonico di Dio, benché non privo di aspetti positivi, e benchè venga opposto all’ateismo, non è altro in fin dei conti che un’idea, quindi un idolo della ragione, mentre la ragione a sua volta non appare creata da Dio, ma è la ragione cartesiana, la ragione come atto del cogito, cioè dell’io che, pensando se stesso, pone se stesso.

Nella dottrina massonica è indubbiamente presente la figura di «Lucifero». Tuttavia il massone non crede per questo all’esistenza del diavolo. Lucifero è solo un simbolo per indicare la luce della ragione principio di libertà. Tuttavia, trattandosi della ragione kantiana, fondata su se stessa e non creata da Dio, per cui Dio viene concepito come ideale della ragione, è chiaro che con tali presupposti il culto massonico di Lucifero rischia veramente di essere un culto idolatrico del demonio[15] .

La nozione di Dio in Leopardi[16]

Leopardi non nega che Dio esista, solo che per lui questa esistenza, come quella di tutte le cose, origina dal nulla e si dissolve nel nulla. Non è una esistenza reale ma solo pensata o ipotizzata, solo «possibile», come egli dice. Ma in realtà non si attua: è un’illusione credere che Dio esista realmente. Il Dio-pensato di Leopardi assomiglia al Dio-Idea di Kant, se non fosse che Leopardi rifiuta empiristicamente il valore dell’idea secondo l’insegnamento platonico.

Alla fine della sua vita giunge a dire addirittura che lo stesso concetto di Dio è impossibile e contradditorio. Ma siccome accetta la contraddizione – e qui egli assomiglia curiosamente ad Hegel suo contemporaneo – insiste nell’accettare questo Dio contradditorio, che afferma e nega la nostra felicità, sostenendo che l’unica felicità che possiamo avere è questa illusione.

Nella sua mente, mentre a livello di esperienza umana egli è del tutto realista, cosa che lo rende così attento alla dinamica dei nostri sentimenti, gli permette di costruirsi un’immensa cultura storico-letteraria e di elaborare la sua splendida poesia, viceversa a livello metafisico, per un’impressionante cecità intellettuale,  egli chiama illusione la verità, ossia che Dio esiste realmente ed è creatore del mondo, e verità l’illusione, cioè che il mondo è sospeso nel nulla senza alcun creatore e Dio stesso è un fantasma che proviene dal nulla.

Si vede allora che egli è influenzato dall’empirismo settecentesco, antimetafisico, non interessato alla questione dell’origine dell’essere, ma soltanto ai fenomeni per dominarli con la tecnica e assicurare all’uomo una felicità puramente terrena. Ma nel contempo egli ha per conto proprio una spiccatissima attitudine metafisica, che però realizza completamente alla rovescia, reificando il nulla e vanificando l’essere.

Egli nota il divenire delle cose sensibili ed umane, ma non è capace di vedere che esse richiedono di essere fondate sull’Eterno immutabile. Egli ha il concetto di questo Eterno, ma invece di concepirlo ed affermarlo come Essere e come Realtà o riconoscerlo come esistente, lo intende come Nulla. Il Nulla al posto di Dio.

Non è difficile scoprire alla radice del pensiero leopardiano il concentrarsi sul proprio io, effetto ultimo del cogito cartesiano, che proprio agli inizi dell’’800 era stato condotto da Fichte alle sue estreme conseguenze panteistiche e quindi atee. Leopardi non dichiara apertamente questa convinzione, ma essa si manifesta chiaramente quando parla del «mio sistema» in contrapposizione alla dottrina del cristianesimo, con la pretesa di dare un’interpretazione del cristianesimo, che in realtà lo distrugge. Illusi pertanto sono quei critici, i quali, per il semplice fatto che Leopardi parla di Dio, hanno creduto che fosse un teista, senza badare a cosa Leopardi intendesse con la parola Dio.

In realtà, stanti le suddette motivazioni, un ateismo più raffinato e radicale di quello leopardiano, celato sotto un falso e contorto teismo, non lo si potrebbe concepire. Esso prende da Hume l’empirismo, ma abbandona Hume nella sua incapacità di capire la metafisica. Invece Leopardi la capisce benissimo, anche se manca il principio di causalità. Solo che la sua è una metafisica rovesciata, dove il nulla sta al posto dell’essere. Potremmo pensare anche all’esistenzialismo sartriano.  È la metafisica del nichilismo[17].

Per Leopardi l’esistente sono solo le cose materiali mutevoli e corruttibili che cadono sotto i nostri sensi, né c’è da domandarsi perché esistono. Esistono perché esistono e basta. Siamo davanti al più grossolano sensismo. Ma quello che sorprende in Leopardi è che egli, con tutto ciò e al di là di tutto ciò, possiede una perfetta concettualità metafisica, che lo contrappone al sensismo di un Hume, che non capisce nulla di metafisica.

Leopardi invece ha un concetto metafisico esattissimo di Dio, come essere primo, supremo, eterno, immutabile, infinito, sussistente, ragione di se stesso, assolutamente necessario, esistente a sé, esattamente come San Tommaso. Si direbbe che lo avesse appreso da lui, anche se non ce lo dice. Tuttavia egli, con tutto ciò, non si sente necessitato ad affermarne l’esistenza, ma la nega volontariamente. Siamo davanti, quindi, alla forma più compiuta e colpevole di ateismo riscontrabile nella storia del pensiero umano.

Severino ha ragione a considerare Leopardi come il più significativo pensatore dell’Occidente. Leopardi è esattamente agli antipodi del più grande, che è San Tommaso. C’è però nel giudizio di Severino un aspetto che va precisato: il più significativo nel senso che è il più ateo. In questo senso non è il migliore, ma il peggiore. Non è il più sapiente, ma il più stolto. «Dixit insipiens in corde suo: Deus non est» (Sal 13,1; 52,1).

Ciò che può ingannarci in Leopardi è che egli ammette bensì l’esistenza di Dio, ma non un’esistenza reale. L’ammette nel senso che essa non è solo concepita come possibile ma non affermata; essa non è reale ma fondata sul nulla, che è l’unica realtà veramente e necessariamente esistente. Fondata sul nulla perché sono io che volontariamente la concepisco come possibile oggetto della mia mente, senza alcuna necessità logica o senza affatto essere obbligato dalla constatazione di un’esistenza oggettiva e reale.

Ciò vuol dire che davanti alle cose contingenti che passano, Leopardi non applica il principio di causalità, non si domanda quale Ente può essere sufficiente per spiegare la loro esistenza. Egli le vede come se avessero la loro ragion d’essere solo in se stesse, nella loro stessa caducità. Egli assolutizza il contingente in modo tale che esso non ha bisogno di giustificare la sua esistenza, pur venendo dal nulla ed andando verso il nulla. D’altra parte è chiaro che questo nulla eterno e necessario prende il posto di Dio. Il Dio di Leopardi è il Dio della negazione, dell’assurdo, della morte, dell’insensatezza, del nulla.

È presente nel contempo in lui un rancore contro la natura, alla quale sembra addebitare la colpa di averlo formato, lui, deforme, eppur bisognoso di felicità, sentendosi invece innocente. Manca in lui la coscienza d’aver peccato davanti a Dio e di meritare la pena. Il male non viene da lui ma dalla natura «matrigna» che è Dio stesso determinato a sua volta dal Fato. Così Leopardi invece di riscattarsi dal peccato, gode del destino avverso precorrendo in certo modo Nietzsche.

Tutto ciò naturalmente comporta la negazione sdegnosa dell’esistenza reale ed eterna di Dio inteso come Causa prima, Essere sussistente, necessario ed assoluto, orribile immagine del Fato. Nell’Inno Ad Arimane[18] Leopardi mette come sinonimi «natura, fato e Dio» come princìpi dei mali che affliggono l’uomo, senza rendersi conto che il male non può aver origine da Dio, ma solo dalla creatura, mentre è necessario porre l’esistenza di Dio come infinitamente buono, causa dell’universo e salvatore dell’uomo.

Fichte

Io sono posto perché mi sono posto[19]

L’io si pone come determinato dal non-io[20]

 

Da qui seguirà Fichte, giusto bersaglio della successiva critica feuerbachiana, perché, dichiarando inesistente la cosa in sé extramentale, nel contempo concepirà l’io come autofondato, sviluppo dell’io cartesiano e sostituto del biblico Io Sono di Es.3,14, sicchè l’io umano identificato all’io divino prende il posto di Dio e Fichte giustamente verrà accusato dai suoi contemporanei di ateismo[21]. 

Così si spiega che Feuerbach ricavi l’ateismo da Hegel, che riprende il concetto fichtiano dell’io come coincidenza di pensiero e di essere, anzi di pensiero e di fare. Infatti Feuerbach, trascurando il fatto che Dio va concepito come causa esterna e trascendente della mente umana, ha buon gioco nel negare l’esistenza di un Dio, che effettivamente in Hegel non è altro che un ente di ragione, astratto e immaginario, prodotto della stessa mente umana, senz’alcun riferimento alla realtà oggettiva sensibile esterna.

Fine Sesta Parte (6/10)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 novembre 2023
 

Leopardi non nega che Dio esista, solo che per lui questa esistenza, come quella di tutte le cose, origina dal nulla e si dissolve nel nulla. Non è una esistenza reale ma solo pensata o ipotizzata, solo «possibile», come egli dice. Ma in realtà non si attua: è un’illusione credere che Dio esista realmente. Il Dio-pensato di Leopardi assomiglia al Dio-Idea di Kant, se non fosse che Leopardi rifiuta empiristicamente il valore dell’idea secondo l’insegnamento platonico.

Alla fine della sua vita giunge a dire addirittura che lo stesso concetto di Dio è impossibile e contradditorio. 

Ma siccome accetta la contraddizione – e qui egli assomiglia curiosamente ad Hegel suo contemporaneo – insiste nell’accettare questo Dio contradditorio, che afferma e nega la nostra felicità, sostenendo che l’unica felicità che possiamo avere è questa illusione.

 

Il Dio massonico è solo l’ideale della ragione del quale parla Kant. Tuttavia i gradi alti, «speculativi», prevedono una conoscenza esoterica e iniziatica di Dio come «gnosi» o «scienza assoluta» come attuazione dell’«Io» di Fichte, ovvero come attuazione del panteismo.

In base a queste considerazioni si può dire che il concetto massonico di Dio, benché non privo di aspetti positivi, e benchè venga opposto all’ateismo, non è altro in fin dei conti che un’idea, quindi un idolo della ragione, mentre la ragione a sua volta non appare creata da Dio, ma è la ragione cartesiana, la ragione come atto del cogito, cioè dell’io che, pensando se stesso, pone se stesso.

Immagini da Internet:
- Giacomo Leopardi
-Simboli massonici

[1] Vedi di Gershom Scholem, La cabala, Edizioni Mediterranee, Roma 1992; Julio Meinvielle, Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano, a cura di don Ennio Innocenti, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1988.

[2] La gnose, une question philosophique, a cura di N. Depraz e J.-F. Marquet, Les Editions du Cerf, Paris 2000.

[3] E.P.Blavatsky, Introduzione alla teosofia, Bocca Editori, Milano 1911.

[4] Mahendranat Sircar, Hindu mysticism according to the Upanishads, Trubner&Co, London 1974.

[5] Orlando Todisco, G.Duns Scoto e Guglielmo d’Occam, Dall’ontologia alla filosofia del linguaggio, Libreria Universitaria, Cassino 1989; Pierre Alféri, Guillaume d’Ockham. Le singulier, Les Editions deMinui,ORIS 1989; Guglielmo di Ockham, Scritti filosofici, a cura di Alessandro Ghisalberti, Nardini Editore, Firenze 1991.

[6] Introduzione all’ateismo moderno, Edizioni dell’Istituto del Verbo Incarnato, Segni 2013.

[7] Schelling ha fatto le lodi esplicite dello gnosticismo.

[8] Vedi per es. Mt 7,6; 15, 16-17; 16,8; 22,38; Lc 5,22.

[9] Vedi i suoi Dialoghi sulla religione naturale, Edizioni Laterza, Bari 1963.

[10] Edizioni Laterza, Bari 1985.

[11] Vedi Scritti filosofici, ,2 voll., Edizioni Laterza, Bari 1962

[12] Vedi Albert Manfred, Rousseau, Mirabeau, Robespierre. Tre personaggi della Rivoluzione francese, Edizioni Progress, Mosca 1989.

[13] Vedi Vicomte Léon de Poncins, Freemasonry and the Vatican. A struggle for recognition, Britons Publishing Company, London 1968.

[14] Vedi Filosofia della massoneria, Bastogi Libri, Roma 2023.

[15] Vedi su questa tesi la dotta trattazione del Padre Paolo Siano: Introduzione allo studio del luciferismo massonico, un Fides Catholica, 2, 2006, pp.13-80. Soprattutto le pp.37-38 e74-80.

[16] Vedi lo studio molto interessante ed approfondito di Emanuele Severino: Cosa arcana e stupenda, Mondadori, Milano 2020.

[17] Cf Vedi gli studi sul nichilismo di Vittorio Possenti: Nichilismo teoretico e la “morte della metafisica”, e Terza navigazione. Nichilismo e metafisica, entrambi per Armando Editore, il primo nel 1995, il secondo nel 1998. Meraviglia che Possenti non parli del nichilismo leopardiano. Del tutto errato, invece è il concetto severiniano di nichilismo, che secondo lui sarebbe implicito nel concetto cristiano della creazione. Vedi Essenza del nichilismo, Adelphi Edizioni, Milano 1995.

[18] Puerili e abbozzi vari. A cura di Alessandro Donati. Bari, Laterza, 1924.

[19] La dottrina della scienza, Edizioni Laterza, Bari 1971, p.41.

[20] Ibid., p.102.

[21] Vedi la vicenda narrata da Fabro nella sua Introduzione all’ateismo moderno, Edizioni dell’Istituto del Verbo Incarnato, Segni 2013, pp.543-576; 635-644.

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