La polemica di Cristo contro l'ipocrisia
Seconda Parte (2/3)
L’ipocrisia è causata dalla disonestà intellettuale
e questa a sua volta è causata dalla superbia
L’atto col quale il nostro spirito coglie la verità è di per sé un atto dell’intelletto, dove la volontà nulla ha a che vedere, ma vale invece la necessità: se l’intelletto è messo davanti all’evidenza o alla conclusione di una tesi dimostrata, è necessitato a dare il suo assenso alla verità certa e immediatamente o mediatamente evidente. Non può non vedere la verità e non sapere di conoscere la verità. L’errore, in questo caso, non è possibile. L’intelletto non sbaglia e sa di non sbagliare e perché non sbaglia.
Tuttavia nell’attività conoscitiva la volontà gioca sempre una parte essenziale, a patto però che non invada il campo riservato all’intelletto con la pretesa di completare il suo atto, come credeva Blondel[1], atto che invece l’intelletto sa e può benissimo compiere da solo, con le sue sole forze. Tutt’altro infatti è il compito della volontà: è quello di provocare l’azione e il moto dell’agente verso il bene intellegibile, che è il fine dell’agire volontario, utilizzando le potenze dell’appetito sensitivo, ossia le passioni.
L’intelletto genera un’attività immanente allo spirito, fà un lavoro di interiorizzazione e smaterializzazione del reale esterno, rendendoselo rappresentativamente presente sotto forma di concetto, di concepito o di cogitatum.
La volontà invece dà il via ad un’azione transitiva, fisica o esterna, nello spazio, per la quale il soggetto si muove, o entra in possesso fisicamente del bene desiderato o mette cogitativamente o fisicamente in pratica il precetto o l’intento della volontà.
Ma anche l’intelletto non può avere la pretesa di sostituire la volontà con una visione puramente astratta o formale, com’è suo costume, della realtà, nella quale manchi la percezione dell’agire o produrre concreto, ossia della causalità efficiente, materiale o spirituale. In questi casi il soggetto restando inerte, dissolve l’agire nel pensare e nel parlare, quasi che questi atti gli bastino per credere di aver fatto abbastanza[2]. Qui si ha quell’altra forma di ipocrisia denunciata da Cristo, quando avverte che non basta dire Signore, Signore, se non si mette un pratica la volontà del Signore.
Un esempio di questo formalismo astratto e illusorio lo vediamo in coloro che concepiscono l’atto creativo divino non come una produzione dal nulla di tutto l’ente, ma come la dipendenza formale dei teoremi che si deducono da una figura geometrica mediante la definizione dell’essenza di quella stessa figura geometrica, dove il divenire e il moto sono evidentemente assenti, cosa che è intollerabile quando ci si domanda chi ha creato il mondo, fatto evidentemente di enti divenienti ed agenti. Questo vuol dire fermarsi sul piano delle essenze, ignorando l’essere, che è precisamente ciò che fa sì che qualcosa sia reale ed esistente.
Occorre però aggiungere che la volontà ha, nel processo conoscitivo, la responsabilità di far sì che l’intelletto accetti o non accetti la verità. Ha la possibilità, per mezzo di certi artifici, di far sì che l’intelletto prenda per vero o dia per vero ciò che non è vero. È, questa, la menzogna. Essa è connessa con l’ipocrisia, per la quale il pensante appare a se stesso o agli altri come pensante e parlante in nome della verità, mentre in realtà inganna se stesso e gli altri.
E come questo avviene? Attraverso un doppio innaturale procedere del pensiero e del linguaggio, per il quale la mente restando come non può restare naturalmente orientata da Dio alla verità, congiunge tuttavia contraddittoriamente, di sua volontà, a questa inclinazione al vero l’affermazione del falso.
Ossia l’ipocrita, invece di opporre il sì al no in assoluta alternativa ed in esclusione reciproca (aut-aut), secondo il precetto evangelico (Mt 5,37), che poi è il fondamentale principio della logica, li accoppia (et-et), come se si trattasse di accostare semplicemente dei diversi, e quindi come se questa terza posizione desse prova di un pensare più aperto, ampio ed inclusivo. Invece S.Paolo mostra il significato del principio di non contraddizione enunciato da Cristo[3] con le seguenti parole:
«Forse che quello che decido io lo decido secondo la carne, in maniera da dire allo stesso tempo “sì” e “no”? Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no»: Il Figlio di Dio Gesù Cristo che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo non fu “sì” e “no”; ma in Lui c’è stato il “sì”. E in realtà tutte le promesse di Dio in Lui sono diventate “sì”» (II Cor 1, 17-20).
In realtà, la contravvenzione a questo fondamentale principio di limpidezza, onestà e logica del pensare e del parlare, e conseguentemente di rettitudine, fedeltà e coerenza nell’agire, crea l’ipocrisia, la doppiezza, la falsità del pensare demoniaco, generatore di confusione, di equivocità nel linguaggio e di fraintendimenti e malintesi nel comprendere, tanto che già nel Genesi il demonio è rappresentato dall’immagine del serpente, dalla lingua biforcuta. Da qui le invettive di Cristo contro gli ipocriti: «Serpenti, razza di vipere!» (Mt 23,33).
Nella vita presente Cristo ci propone il sì, e quindi l’onestà e la coerenza; il demonio ci propone il no mediante il doppio gioco, ossia l’ipocrisia. Quaggiù sentiamo sia l’attrattiva di Cristo che quella del demonio e facciamo fatica a deciderci, dal che il ricorso all’ipocrisia e all’astuzia. Il paradiso consiste in un sì deciso, irrevocabile e definitivo con Cristo e nella definitiva liberazione dalla tentazione del no. Dal che l’eterna beatitudine causata dal vero raggiungimento di Dio nostro sommo bene e fine ultimo.
L’inferno invece consiste nel restare eternamente impigliati e lacerati fra il sì e il no; un sì che sarebbe stata la nostra inclinazione naturale verso Dio, inclinazione che abbiamo rinnegato andando contro natura, e un no, che abbiamo pronunciato volontariamente per colpa nostra cedendo alle seduzioni di Satana. Dal che la nostra pena eterna, causata dal volontario e definitivo no a Cristo nostro Dio e vera nostra eterna felicità. Resta al dannato la perversa soddisfazione, dettata dalla superbia, di aver fatto la propria volontà, accettando la pena dell’inferno, pur di stare lontano da Dio.
Stando così le cose, l’esercizio del pensiero e del linguaggio cade sotto il dominio dell’ordine morale e le regole della logica diventano regole morali della comunicazione umana. Non è quindi moralmente lecito usare del pensiero per opporsi alla verità o per ingannare il prossimo o per sostituire a Dio il proprio io o qualche creatura preferita a Dio.
Il rischio, come ci insegna Cristo nella sua polemica contro i farisei (cf Gv 8, 12-59), è quello di prendere come dio il demonio, creando nel prossimo due posizioni estreme parimenti deleterie: o quella di spegnere in esso per scetticismo il gusto e il desiderio di apprendere la verità, o quella opposta di creare degli gnostici presuntuosi, che credono di poter essere la sorgente della verità.
Come l’ipocrisia ha origine dalla superbia? Occorre che consideriamo che cosa è e che cosa comporta la superbia. Il superbo confonde il proprio essere col proprio intendere. Siccome il nostro intelletto è capace di salire verso l’alto, di elevarsi al pensiero di Dio, di trascendersi così da tendere verso Dio, di aprirsi all’intellezione dell’assoluto, dell’eterno e dell’infinito, allora il superbo ritiene che il suo proprio essere sia capace di elevarsi oltre se stesso, di elevare, aumentare ed accrescere se stesso fino a diventare egli stesso Dio.
Interessante, al riguardo, il duplice senso del verbo yperairo: in senso attivo significa sollevo, trascendo, innalzo, elevo, supero, oltrepasso, vado oltre; in senso passivo, significa mi innalzo, mi esalto, mi sopravvaluto, mi gonfio. Il primo senso indica la potenza del pensiero, che dalle cose basse sale a quelle alte, fino a Dio. E questo è atto di umiltà. È il transcende teipsum, del quale parla Sant’Agostino. Il secondo invece indica la superbia, ed è in tal senso che San Paolo in II Ts 2,4 usa il riflessivo yperairòmenos per indicare l’empio che si innalza fino a mettersi al posto di Dio.
L’idealista, che confonde il pensiero con l’essere, per il fatto che egli nel conoscere Dio, diviene Dio intenzionalmente o rappresentativamente mediante il concetto di Dio, crede di esserlo realmente, crede di essere egli stesso realmente Dio. Infatti per lui l’essere coincide col concetto dell’essere; il reale e l’ideale sono la stessa cosa.
Diverso, invece, è elevare il pensiero ed elevare il proprio essere. Elevare il pensiero a Dio è un dovere, benché si debba evitare la presunzione di sapere ciò che oltrepassa i limiti della nostra intelligenza. Invece, pretendere di innalzare da sé il proprio essere al di là dei suoi limiti è superbia. Se il superbo ha il concetto di Dio, per lui questo significa che egli stesso è Dio.
Ora la superbia è quell’amore di sé che è basato su questa spropositata considerazione di sé[4], che fa sì che il superbo senta il proprio io come al principio e al fondamento di tutto, dell’essere e del sapere, al di sopra e al centro di tutto, fine e scopo di tutto. Tutto gli è dovuto, nessuna legge lo obbliga, nessun vincolo lo lega, nessuna azione gli è proibita, nessun limite gli è imposto, da nessuno egli dipende, nulla esiste al fuori di lui, tutto esiste per sua benevola concessione e per il suo comodo.
Come e perché dunque l’ipocrisia scaturisce dalla superbia? Visto che cosa è la superbia, la risposta non dovrebbe essere difficile. L’ipocrita, a causa della superbia, vuole affermarsi sugli altri, vuole stare al di sopra, non perché egli sia effettivamente a loro superiore, ma perché si ritiene superiore – per lui il pensiero non s’identifica con l’essere? -; vuol essere ammirato, obbedito, seguìto lodato, magari anche adorato.
L’ipocrisia è il mezzo che il superbo usa per dominare sul prossimo in modo tale da accontentare il prossimo e se stesso, a costo di scontentare Dio. L’ambiente è cattolico? L’ipocrita finge di essere cattolico. L’ambiente è modernista? L’ipocrita acconsente volentieri di essere modernista. L’ambiente è marxista? L’ipocrita si adatta ad essere marxista. L’ambiente è musulmano? L’ipocrita, per quieto vivere, finge di essere musulmano. E così via.
Ma forse uno dirà: non ci sarà qualcuno ingannato in buona fede? Certamente. Ma non tutti sono così. Ci sono anche coloro che conoscono la verità, ma la tradiscono o la tacciono per convenienza. Questi sono gli ipocriti.
Quindi l’ipocrita è pronto a fare tutte le parti. Del principio di non-contraddizione o del terzo escluso[5] se ne infischia. Meglio Cartesio, Hegel e Nietzsche; meglio Protagora, Parmenide ed Eraclito, che Aristotele, San Tommaso e Gesù Cristo.
Cartesio, sommo maestro di ipocrisia
Nel processo mentale che causa il peccato di ipocrisia avviene un falso moto di riflessione e di autostima, causato, come abbiamo visto, dalla superbia, moto che non è fondato sull’accesso alla realtà, accesso che viene bloccato o negato o dal dubbio o dal rifiuto, ma questo contrasto col reale si risolve in una decisione del pensiero di centrarsi su se stesso, pur fingendo nello stesso tempo l’osservanza del realismo gnoseologico.
Ciò vuol dire che non possiamo capire che cosa è l’ipocrisia condannata da Cristo se non andiamo alle sue radici teoretiche e metafisiche. Essa trova qui, infatti, le sue prime scaturigini, per cui, se vogliamo eliminare l’ipocrisia alla sua radice, bisogna che operiamo a questo livello originario della vita dello spirito.
La guida che dobbiamo adottare in questa discesa nel profondo è la «filosofia prima» è Aristotele. Per questo San Tommaso le ha dedicato tanta attenzione, perché da buon Domenicano, servo della verità, ha capito che lì il grande filosofo ci mostra il luogo d‘origine del sapere e dove quindi c’è il principio dell’errare, il che è come dire: dove l’ipocrisia trova le sue risorse primordiali ammaliatrici per ingannare noi stessi e gli altri, offendendo Dio e facendoci servi del demonio.
Certo qui Aristotele non parla né di Dio né del demonio, ma non è difficile collegare le sagge osservazioni dello Stagirita con quanto ci insegna Nostro Signore sulla possibilità e il dovere di accogliere la verità e di comunicarla agli altri.
Cartesio è un eminente esempio di fariseismo moderno, che ha preteso di negare l’evidenza sia del dato sensibile che del dato primo del pensiero, l’ente intellegibile, che l’intelletto intende superando il sensibile, secondo il principio di identità dell’ente. Cartesio ha dubitato irragionevolmente del dato del senso e dell’intelletto, scambiando il principio d’identità da lui mal formulato (A=A), per una vuota e inutile tautologia. Eppure anche lui, se doveva vivere e pensare, doveva ben valersi dei dati del senso e dell’intelletto e del medesimo principio.
Viceversa Cartesio ha preteso di porre in dubbio e d’infirmare questi dati primordiali del sapere, notissimi a tutti, dandoci a credere d’aver trovato un principio più radicale e veramente primo – il famoso cogito -, raggiunto, come sostengono i suoi seguaci, mediante un dubbio metodico, il quale invece non è affatto metodico, perché il dubbio metodico porta alla certezza, mentre la certezza che Cartesio vorrebbe offrirci non è, come spesso si crede, la certezza del proprio io pensante, ma la certezza di dubitare, perché il cogito cartesiano è un cogito senza oggetto; è il semplice dubito affettato universale e si sa che il dubitare non è un pensare, ma una oscillazione del pensiero, che non prende posizione né per il sì né per il no.
Ma, come ho già detto, al di là del sì e del no, o del bene e del male, per esprimerci con Nietzsche, l’ipocrita cerca una terza possibilità: l’unione del sì e del no. Respinge il principio del terzo escluso; ma allora entra nell’orbita di quel «resto» che «appartiene al diavolo» (Mt 5,37). E di fatti. che Dio è il Dio dell’ipocrita? È il Dio di quella realtà che sta alla base della certezza del senso e dell’intelletto? È quel Dio che fonda il principio di identità nell’essere e di non-contraddizione nel pensiero? O è un dio della doppiezza e della menzogna. Per questo Cristo accusa i farisei di «aver per padre il diavolo» (Gv 8,44).
L’ipocrisia come vizio morale nasce dal pensiero artificiosamente sdoppiato, di cui ho parlato sopra, un pensiero, direbbe Cristo, che serve a due padroni: alla realtà e a se stesso; a se stesso per decisione della volontà e alla realtà per inclinazione naturale. L’ipocrita nega quello stesso rapporto alla realtà che gli serve per negare il rapporto con la realtà.
Egli, direbbe il Salmo «si scava un pozzo profondo e cade nella fossa che ha fatto» (Sal 7,16), Egli vorrebbe fondare il suo pensare sul suo proprio io; ma proprio per costruire questo falso fondamento è costretto a pensare, e il pensiero lo porta necessariamente alle prime evidenze oggettive, che vorrebbe respingere. Il suo pensare è dunque un atto di violenza che fa a se stesso e al contempo agli altri che vorrebbe imbonire che le sue false idee. Ma la sua violenza, come dice il Salmo, «gli piomba sulla testa» (7,17).
Quanto più lo scettico cartesiano è nel dubbio, tanto più, al di là di un apparente spirito liberale e tollerante, è assolutista e dogmatico nelle sue asserzioni, dispotico ed autoritario nella sua volontà, indisposto a ricevere qualunque critica od obiezione, caldo spregiatore di tutti coloro che non la pensano come lui.
E questo perché? Perché come tutti noi il cartesiano ha un ineliminabile bisogno di certezza e non trovandolo o non volendolo trovare nei dati dei sensi e nelle verità prime dell’intelletto, si aggrappa ostinatamente all’affermazione di se stesso. E guai a chi gli dà torto! Dotato di alto potere di seduzione, solleticando quella tendenza alla superbia che è in tutti noi, il cartesianismo accende nelle menti la sua fiamma, soddisfacendo ad un tempo quella nostra sete di gloria che viene dagli uomini anziché da Dio.
La metafisica cartesiana mette il pensiero sulla strada dell’ipocrisia e della doppiezza, perché Cartesio ha affrontato il problema della metafisica con metodo egocentristico e autoreferenziale, che porta allo gnosticismo. Egli ha capito che essa tocca la questione dell’essere e dell’esistere, e quindi la questione del fondamento primo della scienza, ma invece di prendere in considerazione, come si conviene alla scienza, l’ente universale, l’ente in quanto ente e i princìpi della scienza dell’ente, ha concepito, in modo ingiustificato la metafisica come coscienza da parte dell’io del proprio esistere e pensare individuale, negando le evidenze prime del senso e dell’intelletto.
Cartesio ha concepito la coscienza del proprio io pensante, come se precedesse e fondasse la conoscenza dell’ente, degli enti, dell’uomo, del mondo, degli angeli e di Dio, quando invece è quella conoscenza che precede la coscienza di conoscerle. Abbiamo coscienza di sapere perchè abbiamo saputo e non sappiamo perchè abbiamo coscienza di sapere.
È solo Dio che sa perchè è cosciente. Infatti Egli non assume nulla dal di fuori di Sé. Noi invece siamo coscienti perché sappiamo, perché abbiamo attinto alle cose esterne. Se la nostra coscienza non parte dalla conoscenza delle cose e non si riempie di esse, l’atto di coscienza è coscienza di nulla, è una coscienza vuota.
Cartesio ha preteso di sostituire come affermazione di base della metafisica la proposizione io sono alla proposizione l’ente esiste, che conduce in teologia all’affermazione Egli È. Ha preteso, come ha capito bene Fichte dietro il suggerimento dell’io penso kantiano, di attribuire l’Io Sono a se stesso al posto di Dio.
Il cartesianismo produce degli ipocriti, che per la loro superbia pareggiano il proprio io all’Io divino, mentre nella condotta ordinaria quotidiana nascondono questa loro superbia sotto l’apparenza rispettabile del sepolcro imbiancato.
Fine Seconda Parte (2/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato 10 dicembre 2022
L’ipocrisia come vizio morale nasce dal pensiero artificiosamente sdoppiato, un pensiero, direbbe Cristo, che serve a due padroni: alla realtà e a se stesso; a se stesso per decisione della volontà e alla realtà per inclinazione naturale.
L’ipocrita nega quello stesso rapporto alla realtà che gli serve per negare il rapporto con la realtà.
Immagine da Internet: La moneta del tributo, di James Tissot – Museo di Brooklyn, New York
[1] Cf J. Maritain, L’intelligenza e la filosofia di Maurice Blondel in Riflessioni sull’intelligenza, Editrice Massimo, Milano 1987, c. III.
[2] Famosa è quella battuta che esprime bene in due parole questa forma di ipocrisia: «armiamoci e partite!».
[3] Esso si può esplicitare così: dire sì ciò che è sì e dire no ciò che è no.
[4] Cf San Tommaso, Sum. Theol., II-II, q.162.
[5] Vi è oggi chi respinge il principio del terzo escluso pensando che favorisca una mentalità ristretta ed esclusivista, che non sa accettare la diversità e l’alterità. Vedi: Chiara Giaccardi – Mauro Magatti, La scommessa cattolica, Il Mulino, Bologna 2019, p.85. Si tratta di un gravissimo fraintendimento, perché è proprio questo principio fermissimo, che, rettamente inteso, assicura la possibilità e l’intellegibilità dell’altro e del diverso. Non esiste una terza possibilità oltre il sì e il no. Non si può e non si deve dare un sì-no. Cristo ci avverte con tutta chiarezza. Questa idea viene dal diavolo. Perchè? Perché tale supposta possibilità, come cerco di dimostrare in questo articolo, nasce dalla superbia e, ben lungi dal salvare il pluralismo, è principio di una conflittualità irresolubile, e crea inoltre e conduce alla menzogna e alla doppiezza propria dell’ipocrisia, che è la sapienza diabolica, della quale parla la Lettera di S.Giacomo.
Caro Padre,
RispondiEliminaLei scrive che l’intelletto, quando posto davanti all'evidenza, non solo non sbaglia e sa di non sbagliare, ma sa anche perché non sbaglia. Ora, è certissimo che l'intelletto si adegui all'evidenza, ma come fa l'intelletto a sapere il motivo per cui non sbaglia? Forse lo sa perché vede la propria "adaequatio" alla "res"? Mi farebbe piacere una Sua spiegazione. Un caro saluto.
piacere una Sua spiegazione. Un caro saluto.
EliminaCaro Giuseppe, quando noi siamo davanti a un qualcosa di evidente, come per esempio un principio metafisico o di morale o di logica, noi non conosciamo il motivo per il quale possediamo la certezza dell’evidenza. Ma questo non è necessario all’esperienza dell’evidenza. Questo non significa che non possiamo conoscere questo motivo, ma per saperlo occorre la psicologia e cioè sapere che l’oggetto del senso è immediatamente contattato dal senso, l’oggetto dell’immaginazione è immediatamente contattato dalla coscienza o dal ricordo, e l’oggetto immediato dell’intelletto è la natura dell’ente materiale ricavato dall’esperienza. Questa conoscenza conduce l’intelletto alla formazione delle prime verità o dei primi principi della ragione che sono evidenti per la semplice analisi del soggetto e del predicato della proposizione. Per esempio, se io dico che l’ente contingente è causato, è sufficiente che io consideri il significato dell’essere causato e abbia presente che cosa è il contingente, perché io mi renda conto della verità di questo principio, per il fatto che il causato non può essere altro che il contingente, il quale non ha in sé la ragione della propria esistenza, per cui la deve ricevere da un altro, che è appunto la causa.
Caro Padre Cavalcoli,
RispondiEliminariflettendo sul suo articolo sulle radici dell'ipocrisia, le cui fonti originarie risiedono nella superbia, mi sono reso conto di un'informazione che sembra banale, ma che potrebbe essere importante per capire quello che lei dici.
Intendo quanto segue:
Ho visto in alcuni film a tema poliziesco, o serie televisive sullo stesso argomento, che quando tra i loro personaggi compare un serial killer, il loro disturbo psicologico, cioè la fonte della loro mania omicida, viene spesso qualificato con il termine "narcisismo ". È un "narcisista".
Non pensi che sia una buona caratterizzazione dell'ipocrita, in termini di disturbi psicologici?
Caro Ross,
Eliminal’ipocrita finge di essere quello che non è al fine di ottenere un successo umano. In questo atteggiamento io vedrei facilmente il narcisismo, non tanto inteso in un senso psicologico, quanto piuttosto come forma di vanagloria e di autocompiacimento, atteggiamenti che naturalmente si collegano col desiderio di piacere agli altri nella forma del rispetto umano, ossia a prescindere dalla pratica di autentici valori morali.
A questa fenomenologia, io aggiungerei l’aspetto dell’esibizionismo, cioè il piacere di esibirsi non allo scopo di servire o di edificare il prossimo, ma per attirare la sua attenzione e ammirazione e ricevere, come dice Gesù, gloria dagli uomini e non da Dio, che ci dà la vera gloria.
C’è come un intreccio di tre elementi: l’ipocrisia, il narcisismo e l’esibizionismo sono collegati tra di loro, come le tre manifestazioni di chi, invece di porsi al servizio dei fratelli e dar gloria a Dio, desidera la gloria per se stesso.
Questo è l’atteggiamento tipico degli eretici e dei seduttori.
Il termine che cercavo nel commento precedente, e non riuscivo a trovarlo, era "psicopatico".
RispondiEliminaEbbene, quello che cercavo di dire nel commento precedente era che in film polizieschi o serie TV è comune che uno psicopatico (serial killer) sia considerato irredimibile, proprio perché il suo disturbo psicologico gli impedisce di riconoscere i propri errori, e lui non arriva mai a pentirsi e a chiedere perdono (o almeno è miracoloso che ciò avvenga). Proprio per questo motivo, questa classe di psicopatici viene spesso descritta come "narcisista".
Caro Ross,
Eliminaio mi ero messo sul piano morale, però capisco che su questo argomento esista anche il punto di vista psicologico. Per questo, non ritenendomi sufficientemente competente in questo campo, non posso fare altro che prendere atto del significato psicologico della parola “narcisista”, mentre io l’ho usata dal punto di vista morale.
Per quanto riguarda la responsabilità dello psicopatico, sempre precisando che io non sono uno psicologo di professione, credo che intervalli si verifichino anche nei casi più gravi. Nel qual caso il soggetto, se è consapevole di aver commesso una colpa, ha la possibilità di pentirsi. Inoltre, se il suo disturbo mentale è talmente condizionante da comportare una recidività, anche in questo caso il soggetto può approfittare dei momenti lucidi per purificare la sua anima. È il famoso settanta volte sette, del quale parla Gesù Cristo.