I beati del paradiso vedranno i dannati dell’inferno? - Prima Parte (1/3)

I beati del paradiso vedranno i dannati dell’inferno?

Prima Parte (1/3)

Mille cadranno al tuo fianco

     e diecimila alla tua destra; ma nulla ti potrà colpire.

          Solo che tu guardi con i tuoi occhi

            vedrai il castigo degli empi.

Sal 91, 7-8

 

Una domanda indiscreta che si pone San Tommaso

È di tutta evidenza che i beati del paradiso godranno eternamente della visione delle grandi opere della divina misericordia in se stessi e negli altri beati, secondo il detto amato da Santa Teresa d’Avila: «misericordias Domini in aeternum cantabo». Tuttavia, nel Supplemento alla Somma Teologica, alla questione 94, San Tommaso si pone una serie di domande che a molti di noi oggi possono sembrare imbarazzanti se non scandalose: si chiede se i beati del paradiso vedranno i dannati dell’inferno (art.1), se avranno pietà per la sorte dei dannati (art.2), e se si rallegreranno per le pene dei dannati (art.3). 

Per quale motivo porsi domande del genere? Che utilità possono avere? Possiamo gioire delle pene altrui? Possiamo essere contenti che certi nostri fratelli, magari familiari e congiunti, abbiano per sempre fallito il senso della loro vita? Che abbiano scelto contro Dio con le conseguenze che ciò comporta? Che ci abbiano lasciato per seguire il demonio nell’inferno? E che dire di quelli che ci hanno perseguitato a causa di Cristo? Ci odiano in eterno a causa della nostra fede? Non potremmo perdonarli?

Indubbiamente nel clima attuale, restio ad ammettere l’esistenza di dannati, domande del genere appaiono del tutto stonate o possono sembrare addirittura irritanti. Ma le questioni che Tommaso si pone in campo teologico, per quanto alcune di esse non manchino di essere segnate dal tempo, se a tutta prima possono sembrare inattuali, strane o superate, in realtà, ad un esame più attento, ci riservano delle sorprese, e si rivelano ispirate a una profonda insospettata percezione del mistero cristiano, tali da proporre valori sempre vivi ed attuali e da farci penetrare più a fondo in certi lati del mistero che ignoravamo o che fraintendevamo.

Queste domande che proponiamo all’attenzione del Lettore sono strettamente congiunte col serissimo argomento della beatitudine e in special modo col suo aspetto sociale, ed inoltre hanno un chiaro aggancio con vicende che viviamo in questa vita, anzi, è partendo da esse che possiamo immaginare che cosa potrà avvenire in cielo. A tutti noi piace veder realizzarsi la giustizia. Se i carabinieri catturano un mafioso responsabile dell’uccisione di sette persone, ci rallegriamo. E se questo tale, dopo due anni di carcere riesce ad evadere, ci rattristiamo.

Ricordiamoci che se non esiste una giustizia divina nell’al di là, viene meno il fondamento della giustizia umana nell’al di qua. Nessuno, maltrattato dagli uomini, potrà sperare che Dio rimedi ai difetti della giustizia umana. E che dire di un Dio che premia i malfattori?

Ora, queste domande naturalmente hanno senso solo se si ammette l’esistenza di dannati. Ma io ho dimostrato in vari modi nelle mie pubblicazioni in questo blog e in un libro[1], riprendendo la tesi della teologia tradizionale e soprattutto quanto è chiaramente affermato da Nostro Signore Gesù Cristo, e più volte confermato ed insegnato dalla Chiesa che essi effettivamente esistono.

Andare all’inferno non è una semplice possibilità che ci lascia ignari se di fatto tale possibilità è o non è attuata almeno per alcuni; se cioè nell’inferno c’è o non c’è qualcuno. No. La Chiesa insegna che effettivamente «non tutti si salvano», come insegna per esempio il Concilio di Quierzy dell’853.

La Chiesa ci dice dunque che all’inferno ci sono di fatto dei dannati, anche se non dice quanti sono e chi sono, anche se non esiste alcuna censura ecclesiastica contro chi, con ponderata opinione, immagina che all’inferno ci siano quelle date persone, che effettivamente in questa vita hanno dato scandalo, come ha fatto Dante Alighieri.

Nel contempo è possibile immaginare che lo stesso Giuda, grazie a un pentimento in punto di morte, si sia salvato, come ci ha proposto di ritenere Papa Francesco non in base ad un atto del suo magistero (non si tratta di materia di fede, ma di storia della salvezza), ma per una sua personale del tutto legittima opinione teologica.

Non è proibito pensare altresì che in paradiso il Faraone persecutore d’Israele, Nerone, Caligola, Maometto, il Saladino, Stalin ed Hitler, pentiti magari in fin di vita, godano della visione beatifica insieme alla Madonna, a San Giuseppe, a San Paolo, San Giovanni e a tutti i santi. Possono benissimo essere salvi purchè pentiti i più famosi eretici come Ario, Nestorio, Apollinare, Eutiche, Hus, Wycliff, Lutero, Calvino, Baio e Giansenio. È chiaro peraltro che sono salvi tutti coloro che si sono opposti a Cristo o per ignoranza o perché in buona fede, come furono gli stessi uccisori di Cristo da lui perdonati.

Le domande, dunque, che Tommaso si pone, sono più che legittime e suscitano la nostra più viva curiosità di sapere come rispondere, atteso il fatto che mai come oggi la Chiesa ha scoperto quanto è ampia la misericordia di Dio. Tuttavia, come ho ricordato molte volte nelle mie pubblicazioni e nelle mia predicazione, oggi purtroppo è diffusa una falsa nozione della misericordia, che io chiamo «misericordismo», per la quale molti, mossi da una vana confidenza in Dio,  ingannati da abili impostori, vogliono fare i furbi con Dio e col prossimo e cavarsela a buon mercato pensando così di poter continuare a peccare liberamente andando comunque in paradiso e scambiando la malizia per fragilità e la buona fede con la menzogna.

Le risposte dell’Aquinate

Tommaso risponde nel primo articolo che alla perfezione della beatitudine appartiene la visione dei dannati, che si trovano in una condizione contraria a quella dei beati.

 

«ora ogni cosa si conosce meglio se confrontata col suo contrario, perché i contrari, quando vengono accostati, diventano più chiari. E quindi, affinchè la beatitudine dei santi sia loro di maggior compiacimento e rendano maggiormente grazie a Dio di essa, è loro dato di poter vedere perfettamente la pena degli empi»[2].

Uno forse potrebbe dire: ma come posso rallegrarmi e non aver compassione nel vedere la pena eterna di un mio prossimo? Ed ecco che nel secondo articolo Tommaso affronta questa grave domanda e risponde con queste parole:

 

«la misericordia o compassione nasce quando uno vuol respingere il male di qualcuno; per cui di coloro nei quali secondo il giudizio della ragione non vogliamo respingere il male, abbiamo misericordia. Ora i peccatori, finché sono in questo mondo, si trovano in un tale stato, per il quale senza pregiudizio della giustizia divina possono esser trasferiti dallo stato di miseria e peccato alla beatitudine. E quindi la compassione dei beati verso di loro ha luogo, secondo l’elezione della volontà, così come si dice che Dio, gli angeli e i beati hanno compassione, volendo la loro salvezza; ed anche emotivamente, così come si dice che gli uomini che si trovano nella vita presente ne hanno compassione. Ma nella vita futura essi non potranno essere liberati dalla loro miseria. Per questo non potrà esserci compassione per le loro miserie secondo la retta ragione. Per questo i beati che si troveranno nella gloria non avranno alcuna compassione»[3].

Ma allora – potrebbe uno domandarsi – ciò forse significa che i beati godranno delle pene altrui? E risponde:

 

«una cosa può essere materia di gaudio in due modi. In un modo, di per sé, cioè in quanto si gode di qualcosa per se stessa. E così i beati non si allieteranno delle pene degli empi. In altro modo si allieteranno accidentalmente, ossia in ragione di qualcosa di aggiunto. Ed in tal modo i santi godranno per le pene degli empi, considerando in essi l’ordine della divina giustizia e la loro liberazione, della quale godranno. E così la divina giustizia e la loro liberazione saranno di per sé causa del gaudio dei beati ed accidentalmente della pena dei dannati»[4].

La volontà gode del bene. Ma realizzare la giustizia è un bene. Ora tale realizzazione comporta la pena del dannato. Il beato non gode del male del dannato in quanto male: sarebbe crudeltà; ma gode del fatto che esso è punito giustamente.

 

Il castigo non è un atto di violenza ma di giustizia,

benché comporti la coercizione della volontà del punito

Alcuni identificano qualunque forzare o costringere o atto di forza o uso della forza o delle armi sic et simpliciter con la violenza e la crudeltà, quindi con l’ingiustizia. Ma è sbagliato. Violentare, ossia usare violenza contro qualcuno non è ancora costringere o non è ancora coercizione. Queste ultime possono essere legittime.

Violentare è peccato come offesa alla libertà della persona. Costringere può essere giusto provvedimento del giudice che manda in carcere il reo, il quale comprensibilmente non sarà entusiasta di andare in prigione, ma è caldamente invitato e riconoscere di subire la pena che si merita, come il buon ladrone che sta accanto a Gesù sulla croce e quindi a far propria volentieri la pena che gli è assegnata. Come quindi ci può essere una coercizione ingiusta, che è biasimevole violenza, così ci può essere una coercizione giusta, che è il giusto castigo. Costringere uno a ragion veduta a fare o subire qualcosa che non vuole o non gli piace può essere atto di giustizia e non necessariamente violenza o sopruso.

Il castigo non è di per sé un’ingiustizia, una crudeltà o una mancanza di misericordia. Esiste un castigo giusto e un castigo ingiusto. Se così non fosse verrebbe meno nella Chiesa, inizio del regno di Dio, e nello Stato il fondamento del sistema giudiziario e la società di sfascia, come sta succedendo oggi per colpa dei misericordisti. Si ha mancanza di misericordia quando questa dovrebbe intervenire e non c’è. Ma la semplice assenza può essere giustificata dal fatto che non ci sono le circostanze per esercitarla.

Ci sono circostanze invece nelle quali occorre esercitare la giustizia e non la misericordia. Il medico pietoso, dice il proverbio, incancrenisce la piaga. Se non basta la cura farmacologica, occorre l’intervento chirurgico. Se non bastano le buone, possono servire le cattive.  Non occorre avere la saggezza di Salomone per capire queste cose. Chi fa obiezioni non è un misericordioso, ma uno che vuol farla franca. E questo non è onesto.

Si deve essere misericordiosi quando le circostanze lo richiedono, giusti e severi, quando lo chiedono altre circostanze, in tutti i casi sempre al fine di assicurare il bene del prossimo e nell’esercizio della carità. Occorre saper discernere. Non si deve lasciar correre o far finta di non vedere quando si deve intervenire e correggere, e non si deve bastonare o insultare chi non ce la fa.

La misericordia è illimitata non relativamente al suo funzionamento, ma alla sua potenza. Esistono cioè circostanze nelle quali l’autorità deve smettere di essere misericordiosa e passare alla giustizia e alla punizione. Sono quelle circostanze nelle quali il peccatore per la sua arroganza ed ostinazione, si rivela incorreggibile o sensibile solo alle minacce. Certo oggi alcuni restano indifferenti anche se si minaccia loro l’inferno perché, illusi dai buonisti, pensano di salvarsi comunque e deridono chi crede all’esistenza dell’inferno. Ma costoro se insistono, non scamperanno alla ghehenna, contenti loro.

La misericordia invece è illimitata nel suo esercizio perché è per sua essenza un donare gratuitamente per puro amore, senza limite e al di là dei meriti e di misure limitate, mentre la giustizia, che resta tuttavia anch’essa bontà ed effetto dell’amore, è regolata e limitata dalla considerazione della quantità di merito, buono o cattivo che sia, del destinatario. Per questo San Giacomo dice che la misericordia ha la meglio sul giudizio (Gc 2,13).

La misericordia è segno di maggiore bontà; per questo ha il primato sulla giustizia. Se il miserabile, è pentito, umile e di buona volontà, attira misericordia e il misericordioso, che vogliamo supporre ricco, non si accontenta di compensarlo secondo il merito e di dargli la giusta paga, ma aggiunge regali e favori a non finire.

Chi non fa misericordia non è necessariamente un animo duro ed egoista, ma può essere benissimo un santo, se è vero che Cristo per primo non fa misericordia ai reprobi. O forse che i misericordisti sono più misericordiosi di Gesù Cristo?

Ma se il prossimo è orgoglioso, supponente, sfrontato, protervo, ipocrita, crudele e impenitente, non vuol ragionare e nega l’evidenza, non merita misericordia, e del resto non la chiede neanche per il suo orgoglio, e semmai la invoca secondo il concetto che ne ha il misericordista, come lasciapassare per continuare a peccare senza essere punito ma anzi col paradiso assicurato.

Non confondiamo allora la violenza con la severità della giustizia. La violenza è l’esatto opposto della giustizia. L’azione violenta, come dice Aristotele, è quell’«atto il cui principio è fuori di noi e tale che chi lo compie o chi lo subisce non vi coopera per nulla: ad esempio, se qualcuno viene trasportato in qualche luogo dal vento o da uomini che si sono impadroniti di lui»[5].

Invece chi punisce il malfattore o lo costringe a fare un lavoro penoso non esercita una vera violenza, perché in questo caso, come osserva Aristotele, l’atto del punito «è dubbio se sia involontario o volontario»[6]. Aristotele non fa questo esempio, ma ne fa uno simile. L’esercizio della coercizione non è quindi necessariamente riprovevole; non è necessariamente violenza; ma nell’esempio suddetto è giustizia. È violenza, è ingiustizia, se invece il violento costringe uno a commettere un peccato o lo penalizza ingiustamente.

Occorre affermare quindi che la coercizione della volontà del malfattore punito dal giudice è possibile e legittima, ma la pressione del dovere sulla volontà, ossia il necessario morale od obbligo morale non necessita l’azione, che per sua essenza è libera, ma al contrario la stimola e la giustifica. 

La volontà può essere pressata od obbligata da un agente esterno, ma non costretta e non violentata, perché o l’atto volontario è libero o non è volontario. Quindi anche chi agisce controvoglia perché pressato da qualcuno agisce sempre liberamente, benché con tristezza.

Nessun uomo può ontologicamente e quindi moralmente costringere un altro a fare quello che vuole lui, se l’altro non vuol farlo. Solo Dio, come causa dell’atto volontario della creatura, può muovere la volontà della creatura. Il padrone può costringere il suo cane a fare quello che gli comanda sotto minaccia del bastone, perché il cane non agisce per volontà, ma solo deterministicamente per istinto. Invece iI reo che va in carcere perché glielo comanda il giudice ci va certo malvolentieri, ma sempre con un atto libero

Qui la libertà diminuisce ma non sparisce. Invece chi agisce per evitare una giusta punizione o sotto minaccia di un giusto castigo, se agisce per timor di Dio, il suo agire è pienamente libero e virtuoso. Se invece agisce solo per evitare la punizione, senza amore e rispetto per il punitore, e senza amore per il bene comandato, allora il suo gesto è meschino ed egoistico.

Il giusto si compiace per la realizzazione della giustizia. Ha piacere che sia premiato chi ha meritato di essere premiato e che sia punito chi ha meritato di essere punito. Conosce la scala dei valori e mette al primo posto ciò che deve stare al primo posto. Antepone i doveri verso Dio a quelli verso il prossimo. Dà per primo l’esempio del rispetto della legge e del compimento del proprio dovere. Evita di barcamenarsi tra la verità e la menzogna. Dice sì al sì e no al no. Giudica con giustizia e imparzialità dando ragione a chi ha ragione e dando torto a chi ha torto. Non si lascia corrompere dai regali. È amico di tutti, ma soprattutto della verità e della giustizia. Ignora il rispetto umano perché teme Dio. Denuncia le ingiustizie senza temere le minacce dei potenti.  Non pretende di ricevere un trattamento di favore, ma semmai è largo di favori anche verso chi non li merita. Ama i suoi nemici e prega per loro. Si difende, ma non si vendica. Lascia a Dio la vendetta.

Accetta serenamente di aver ricevuto il castigo meritato senza cercare di farla franca. È giusto nel compensare secondo il merito, nel pagare i propri debiti e nel pagare gli altri secondo il dovuto, nell’esigere o nel rivendicare secondo il suo diritto. È misericordioso verso coloro che non possono pagare, pietoso e compassionevole verso i sofferenti, tollerante verso i fastidiosi, servizievole verso i bisognosi, e soccorrevole verso quelli che non ce la fanno da soli.

Si adopera perché la legge venga rispettata da tutti, perché sia fatta giustizia a chi ha patito ingiustizia e affinchè il malfattore sia punito e perché il popolo venga liberato dal tiranno. Libera l’oppresso dall’oppressore. Difende i deboli dai prepotenti.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 giugno 2023


 

Ci sono circostanze invece nelle quali occorre esercitare la giustizia e non la misericordia. Il medico pietoso, dice il proverbio, incancrenisce la piaga. Se non basta la cura farmacologica, occorre l’intervento chirurgico. Se non bastano le buone, possono servire le cattive.  Non occorre avere la saggezza di Salomone per capire queste cose.

Si deve essere misericordiosi quando le circostanze lo richiedono, giusti e severi, quando lo chiedono altre circostanze, in tutti i casi sempre al fine di assicurare il bene del prossimo e nell’esercizio della carità. Occorre saper discernere. Non si deve lasciar correre o far finta di non vedere quando si deve intervenire e correggere, e non si deve bastonare o insultare chi non ce la fa.


Immagine da Internet: Raffaello Sanzio, Giudizio di Salomone, Città del Vaticano, Musei Vaticani
 

[1] L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.

[2] Sum. Theol., Suppl., q.94, a.1.

[3]Ibid., a.2.

[4] Ibid., a.3.

[5] Etica Nicomachea, l. III, c.1, 1110a3, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.51.

[6] Ibid.

3 commenti:

  1. Caro padre, perdonami la mia ignoranza. Una tale affermazione da te menzionata, del Concilio di Quierzi, dell'853, ha valore dogmatico, infallibile? Non è un consiglio regionale?

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    1. Caro Sandro,
      è vero che il Concilio di Quierzy non fu un Concilio Ecumenico, e tuttavia fu approvato da Papa San Leone IV. Questo Decreto del Concilio fu citato anni fa da un Documento della Commissione Teologica Internazionale dedicata al limbo. Ora, quando si tratta di materia di fede, confermata dal Papa, dobbiamo pensare che qui il Papa agisce in conformità del dono dell’infallibilità dottrinale.
      Questo dogma fu confermato dal Concilio di Trento in questi termini: “Sebbene Cristo sia morto per tutti, non tutti tuttavia ricevono il beneficio della sua morte, ma soltanto coloro ai quali è comunicato il merito della sua passione (Denz. 1523).
      I salvati sono quelli che, sulla scorta della Scrittura, il Concilio e la Liturgia chiamano gli “eletti” e il Concilio di Trento chiama i “predestinati”. Il che vuol dire che non tutti sono eletti e non tutti sono predestinati.
      La dottrina della predestinazione è fondata su San Paolo (Ed. 1,5.11)

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    2. Grazie, Padre Cavalcoli, per la sua gentile e rapida risposta.

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