Riflessioni sul purgatorio - Seconda Parte (2/2)

 

Riflessioni sul purgatorio

Seconda Parte (1/2)

Le condizioni di vita delle anime purganti

L’anima purgante si trova in uno stato di gioia profonda che nessuno le può togliere, perché, a differenza di quand’era quaggiù, allorchè non era del tutto sicura della propria salvezza e temeva di potersi perdere, ora è certa di essere salva, sente con assoluta certezza di aver raggiunto un’innocenza indefettibile, sente con infinita soddisfazione e consolazione di essere gradita ad Dio,  ha fatto la sua scelta irrevocabile per Dio, ha sentito la sentenza di assoluzione del Giudice divino, tira un enorme sospiro di sollievo, è passata all’esame, è stata promossa.

La giustizia divina esige ancora un perfezionamento; il processo di purificazione e di espiazione è penoso e doloroso; l’anima è oro che si trova nel crogiolo; ma c’è il pieno consenso all’operazione della divina giustizia addolcita ed intrisa di misericordia; il dolore è grande, il fuoco brucia, ma non importa; lo accetta volentieri, tanta è la gioia che sente nel contempo e fa come il paziente che si mette volentieri nella mani di un chirurgo fidato. 

Non è ancora giunta alla beata visione: occorrono alcuni ritocchi e aggiustamenti finali operati dal divino Artista, affinchè essa raggiunga quella bellezza, che la renda degna di essere ammessa alla presenza dello Sposo; ma l’attesa non sarà lunga e potrà essere abbreviata con l’aiuto dei propri cari e delle anime generose rimaste qui in terra. Intanto, in compagnia delle altre anime purganti ed assistita dall’angerlo custode, benignamente guardata dalla Madonna, l’anima passa il tempo a intercedere per i bisogni di noi rimasti sulla terra nei pericoli, nella tentazioni, nelle prove, nelle angosce, nei peccati e nelle sofferenze.

La dottrina del purgatorio è molto consona alla condizione comune dell’uomo, che da una parte rifugge dalla malvagità intenzionale e deliberata, ma d’altra parte non ha lo slancio degli stati eroici, fatica a capire il valore di una felicità puramente spirituale e tende quindi alla mediocrità: ama Dio ma ama anche il mondo. Oggi è diffusa l’idea che tutti dopo la morte voliamo in paradiso. Ma se andate a guardare il loro modo di pensare e di vivere, vi accorgerete che non lo sanno, perché dalla loro vita si può supporre che in fin dei conti a loro il paradiso non interessa più di tanto.

Dobbiamo fare in modo di andare subito in paradiso

senza passare dal purgatorio

È sbagliatissima la convinzione oggi di molti, che non credono nel purgatorio della necessità di espiare i nostri peccati col pretesto che Dio è buono e comprensivo, con la convinzione illusoria di andare subito e comunque in paradiso, ne avessimo fatte di tutti i colori, come se l’acquisto del paradiso fosse una specie di automatico ed immancabile scatto di carriera per anzianità di lavoro in base ad un accordo sindacale col padronato.

Non è affatto così. Per aver certezza di andare subito in paradiso, occorre per tutta la vita tener l’occhio fisso su Dio come sommamente amato e fine ultimo, nulla anteponendo a Lui o mettendo al pari di Lui, pronti a lasciar tutto pur di non perdere Lui, occorre un continuo lavoro di infervoramento, di consolidamento delle proprie convinzioni di fede, di continua penitenza e purificazione dai propri peccati, un continuo sforzo per progredire nelle virtù e una lotta continua contro il peccato, la carne, il mondo e Satana, sempre in un santo timor di Dio ed evitando quella imprudente e sfrontata sicumera che nasce dall’idea luterana della giustificazione forense, che non è affatto fiducia in Dio, ma è tentare Dio, tale da accentuare la sua ira anziché placarla, un atteggiamento che sotto colore di umiltà nasconde l’autoreferenzialità a se stesso del nostro io.

Se vogliamo esser sicuri di andare subito in paradiso, dobbiamo invece organizzare la nostra vita in modo da fare il nostro purgatorio adesso, in modo tale che quando dovremo presentarci davanti al tribunale di Cristo, siamo purificati da ogni macchia, abbiamo saldato tutti i debiti, abbiamo i conti a posto, abbiamo molti guadagni da offrire a Dio ottenuti dal traffico dei nostri talenti, abbiamo dato sufficiente soddisfazione, abbiamo espiato e riparato abbastanza. Abbondare nelle penitenze è cosa saggia; così saremo più sicuri di aver pagato o espiato abbastanza, così da non rischiare di non aver pagato a sufficienza.

Per esser sicuri, inoltre, di andar subito in paradiso, bisogna che ci animiamo con ogni mezzo di quello che Santa Caterina chiamava l’«infocato o ardentissimo desiderio», dobbiamo accenderci di una fortissima volontà, dobbiamo caricarci di entusiasmo, infiammarci di intensa carità, farci guidare dallo Spirito Santo e  dall’angelo custode, dobbiamo partire da saldissime convinzioni di fede, conoscere bene la strada e percorrerla a tutta velocità, di corsa, come dice la sposa del Cantico[1], con tutte le nostre forze, come se dovessimo gareggiare nello stadio, secondo il paragone che ci offre lo stesso San Paolo[2].

Dobbiamo abituarci alla a guerra, guerra però non tanto esteriore, benché occorra anche difenderci da nemici esterni, quanto piuttosto interiore contro le passioni che ci accecano e ci inducono al peccato e contro le potenze sataniche, che con la loro astuzia vorrebbero sedurci, con le loro blandizie che vorrebbero farci montare la testa, potenze sataniche che con l’insinuarci sensi di colpa vorrebbero scoraggiarci,  con le loro insidie vorrebbero farci cadere, con le loro accuse vorrebbero abbatterci e con le loro minacce vorrebbero spaventarci.

Occorre fare in modo di non aver alcun legame od alcuna intelligenza col demonio, sì da poterne escludere ogni influsso nella nostra vita. Andare in paradiso, infatti, vuol dire essere totalmente liberi dal demonio e dalle sue astuzie e falsità. Rischiamo invece il purgatorio, se non c’è in noi questa totale volontà di non cedere o non acconsentire per nulla ai suoi ragionamenti, alle sue seduzioni, alle sue lusinghe e alle sue tentazioni.

Va subito in paradiso chi serve Dio con totale coerenza, senza doppiezze o compromessi col mondo. Va invece in purgatorio chi non rinuncia del tutto al mondo; serve Dio, sì, ma ama anche il mondo. È sì attratto da Dio, ma anche dal mondo. Teme Dio, ma anche il mondo. Opera certo per Dio, ma dà un contributo anche al mondo. Ama gli amici di Dio, ma anche quelli del mondo. Segue le vie di Dio, ma anche le astuzie e le vanità del mondo.

Va in paradiso chi gusta le primizie dello Spirito, chi fruisce della caparra dello Spirito Santo. Va in purgatorio chi cerca sì il paradiso, ma è soddisfatto anche di questo mondo. Si prepara sì al paradiso, ma sta bene anche qui. Bisogna però fare attenzione che queste primizie non sono tanto una condizione dell’anima separata, quasi che si tratti di liberarsi dal corpo, ma è l’esperienza della risurrezione del corpo.

Chi invece va in purgatorio, crede sì alla risurrezione, ma in modo molto astratto, come se essa nulla avesse a che fare con la vita presente, e fosse totalmente in un al di là assolutamente misterioso, sul quale è inutile indagare, per cui o resta ancora legato alla concezione platonica dell’anima che lascia il corpo oppure a alla concezione epicurea della irrinunciabilità del piacere fisico. Ne viene che il soggetto per l’uno o per l’altro motivo vede malvolentieri, come è naturale, il momento della morte, non ci pensa, e quindi non si tiene pronto. Ciò fa sì che, non essendo abbastanza purificato, bene che vada, va in purgatorio.

Insomma egli è vincolato da lacci che lo tengono legato al mondo e lo frenano nel salire al cielo. Va in paradiso chi si è liberato da questi lacci, non è trattenuto a terra ed è libero di volare al cielo. Va in paradiso chi non è appesantito da interessi o mire o gusti o abitudini mondani. Va in purgatorio chi cammina verso il cielo appesantito da bardature inutili e distraenti, sicchè non sfrutta abbastanza le energie sane ma perde tempo nelle vanità del mondo.

Ora bisogna fare attenzione al fatto che il rinnovamento della spiritualità avviato dal Concilio ha abbandonato una concezione del desiderio del paradiso, che era infetta di dualismo platonico[3]. Nei santi del passato, infatti, soprattutto quelli dei primi secoli, il loro desiderio del paradiso lo esprimono col desiderio di lasciare il corpo, ossia di morire.

Ora, possiamo concedere che essi intendessero supporre che per arrivare alla visione beatifica occorre passare dalla morte; tuttavia, da come si esprimono, non si può negare un influsso forse inconscio di platonismo scambiato per desiderio di perfezione o di libertà. Nel buddismo e nell’induismo questo morboso desiderio di morire è ancora più accentuato, tanto più che per queste religioni il corpo è una vana, illusoria e tentatrice apparenza.

Chi fa l’esperienza di quelle primizie è più certo di andare subito in paradiso di chi non si cura di farle o le ritiene impossibili. Indubbiamente esiste oggi un escatologismo ingenuo, spericolato, avventato, secolaresco utopistico e pretestuoso, che abbassa l’escaton al livello della terra e dell’oggi, o crede di poter fare a meno delle cautele o delle rinunce ancora necessarie nell’attuale stato di natura decaduta.

Il fine del cristianesimo, secondo il Padre Albert Nolan[4], non è ultraterreno, perché non esiste un altro mondo oltre a questo e superiore a questo, «celeste», come pure sostenne Gustavo Gutiérrez, ma il fine del cristianesimo è la felicità un questo mondo. La «vita futura» è il futuro storico di questo mondo in cui viviamo adesso[5]. Non deve interessarci che cosa c’è dopo la morte: questo appartiene al mistero di Dio. Fidiamoci di Lui. Egli ci chiede semplicemente la solidarietà sociale, la fratellanza universale e la lotta per la giustizia e i diritti umani su questa terra. Tutto qui. E ne avanza.

Così, col pretesto che ormai Cristo ci ha liberati e ci perdona, si è diffuso un pacifismo imbelle che finisce col dar spazio ai violenti, una libertà sessuale, che ignora il valore del pudore e della castità, una promiscuità di religioni come se già tutti fossimo ormai in pace con tutti, felici abitanti della Gerusalemme celeste, un’abolizione dell’austerità e della disciplina, degli obblighi e dei divieti, e una depenalizzazione buonista dei delitti come se tutti fossimo capaci di esser buoni con le nostre forze, angioletti mossi dallo Spirito Santo.

Ora dobbiamo osservare che la vera libertà non è la semplice spontaneità dell’agire, per quanto buona sia l’inclinazione e l’intenzione della volontà, ma essa richiede una responsabile facoltà di scelta, un’austerità di vita ed una severa disciplina di obbedienza alla legge morale. Solo quando ci saremo esercitati a lungo avremo per amore di Dio e in questa disciplina ascetica interiorizzato la legge e la avremo fatta nostra, solo allora il nostro comportamento e la nostra condotta saranno libera espressione dell’amore e la libertà coinciderà con la conformità alla legge.

Non si tratta di sostituire il dovere col volere, ma di far sì che attraverso la pratica metodica e severa del dovere, giungiamo gradualmente, per amore, a trasformare il dovere in volere e l’obbligo morale in azione libera. Questa è la perfezione morale. Ma questa è la condizione escatologica. Pretendere di realizzarla subito adesso è quel falso escatologismo che ho denunciato.

È vero che l’impulso fondamentale dell’azione dev’essere l’amore di Dio, ma nella vita presente, che risente delle conseguenze del peccato originale, è impossibile una vita sociale serena e costruttiva senza lo sforzo ascetico da parte di tutti per vincere le cattive tendenze nell’esercizio delle virtù e nel dominio   delle proprie passioni[6].

Il Concilio Vaticano II ci presenta l’esperienza delle primizie dello Spirito in un modo più biblico di quanto fino ad allora si era concepita e vissuta nella storia della santità. È rimasto il carattere di un’esperienza mistica contemplativa come pregustazione della visione beatifica e della liberazione dai mali di questo mondo.

Ma la Chiesa ha abbandonato una certa impostazione platonica per la quale si concepiva la gioia di questa esperienza come quella dell’anima che si libera dal corpo, e ci presenta invece questa gioia come fondata sulla futura risurrezione, per la quale l’anima è ricongiunta col suo corpo e non è fuggita dal mondo, ma al contrario è pienamente signora della natura e in comunione con essa, come era nel progetto divino al momento della creazione.

L’impostazione precedente sembra infatti supporre una specie di antipatia, ripugnanza o diffidenza per il mondo della materia e del senso: il corpo, il mondo, la natura e il sesso, dimenticando che in realtà si tratta di valori che di per sé, ovviamente al loro posto e al di sotto dello spirito, sono però parte integrante della felicità umana e quindi in ultima analisi della beatitudine eterna.

La Chiesa ha meglio compreso che esiste una sana affermazione di sé e un vanto dei propri meriti che non è superbia, una sana competizione col prossimo che non è invidia, un giusto sdegno che non è il vizio dell’ira, esiste un sano godimento del sesso che non è lussuria, un giusto uso della forza, che non è violenza, una giusta cura della salute che non è il vizio della gola, una moderazione nelle proprie iniziative che non è accidia.  Per affermare la grazia e la fede non occorre svilire la natura o insultare la ragione.

Il modo col quale il Concilio concepisce la pregustazione attuale della futura risurrezione si potrebbe paragonare alla bravura dello studente che ancor prima di giungere alla laurea realizza qualcosa di ciò che farà dopo la laurea a differenza di quegli studenti che la prendono comoda raggiungendo in dieci anni quella laurea che potrebbero ottenere in quattro. Lo studente zelante si potrebbe paragonare a chi è pronto ad andare subito in paradiso; l’altro a colui che rischia il purgatorio.

In conclusione, è possibile ed anzi doveroso stare nelle condizioni di andar subito in paradiso. Se l’inferno ripugna, il purgatorio non attrae. Ma si può esser certi di evitarlo? Se è per questo non esiste neppure assoluta certezza di non andare all’inferno, con buona pace dei buonisti. Ma questa incertezza è benefica, perché ci stimola a rafforzare la certezza intensificando l’impegno nelle buone opere. Dobbiamo esser certi che ciò che facciamo è bene. O che vi sia quanto meno probabilità che lo sia.

A tal fine, quando sorgono dubbi o incertezze, fermiamoci ad esaminarli con calma, ragioniamoci su, pronti ad accettare l’esito, chiedendo luce a Dio. Possono essere cose circa le quali altri non capirebbero e sarebbe troppo difficile per noi spiegar loro il problema. Non temiamo di esaminarle da soli. Dio è con noi per illuminarci. Non respingiamo la luce oppure sappiamo attenderla.  Può capitare un’alternanza di sì e di no. Accettiamo serenamente l’esito della ricerca, oppure cerchiamo di essere sinceri nella ricerca. La speranza non delude. Il paradiso ci aspetta.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 settembre 2023

La vera libertà non è la semplice spontaneità dell’agire, per quanto buona sia l’inclinazione e l’intenzione della volontà, ma essa richiede una responsabile facoltà di scelta, un’austerità di vita ed una severa disciplina di obbedienza alla legge morale. Solo quando ci saremo esercitati a lungo avremo per amore di Dio e in questa disciplina ascetica interiorizzato la legge e la avremo fatta nostra, solo allora il nostro comportamento e la nostra condotta saranno libera espressione dell’amore e la libertà coinciderà con la conformità alla legge.

Non si tratta di sostituire il dovere col volere, ma di far sì che attraverso la pratica metodica e severa del dovere, giungiamo gradualmente, per amore, a trasformare il dovere in volere e l’obbligo morale in azione libera. Questa è la perfezione morale. Ma questa è la condizione escatologica.


La Chiesa ha meglio compreso che esiste una sana affermazione di sé e un vanto dei propri meriti che non è superbia, una sana competizione col prossimo che non è invidia, un giusto sdegno che non è il vizio dell’ira, esiste un sano godimento del sesso che non è lussuria, un giusto uso della forza, che non è violenza, una giusta cura della salute che non è il vizio della gola, una moderazione nelle proprie iniziative che non è accidia.  Per affermare la grazia e la fede non occorre svilire la natura o insultare la ragione.

In conclusione, è possibile ed anzi doveroso stare nelle condizioni di andar subito in paradiso. Se l’inferno ripugna, il purgatorio non attrae.


Immagini da Internet:
- La liberazione delle Anime del Purgatorio, affresco nel cimitero di Lonate Pozzolo
- Costa Giuseppe sec. XIX, Dipinto di Anime del purgatorio

[1] Ct 4,4.

[2] I Cor 9,24.

[3] Questo influsso platonico si nota per esempio in S.Ignazio di Antiochia, il quale manifesta apertamente la volontà di abbandonare la «materia». D’accordo, anche Cristo ha voluto morire per noi, ma non si è mai espresso un quella maniera platonica, ma ha sempre aggiunto l’annuncio della sua futura risurrezione. Bisogna dire però, ed è evidente, che Ignazio intendeva esprimere il suo incondizionato desiderio di essere con Cristo, che ricorda il desiderio dello stesso S.Paolo. E questo va benissimo. Tuttavia oggi noi, più che manifestare il desiderio di lasciare il corpo, manifesteremmo piuttosto il desiderio di risorgere da morte e di fruire della ricongiunzione dell’anima col corpo in Dio.

[4] Nel suo libro God in South Africa, pubblicato nel 1988 dalle Edizioni americane Grand Rapids, Mich. Eermans.

[5] Anche Schillebeeckx sembra essere su questa linea. Incredulo circa la divinità di Cristo, riduce il cristianesimo a un umanesimo progressista pallidamente mosso dallo Spirito Santo e la Chiesa a una specie di ONLUS di tendenza mistica. Abbassando in tal modo l’ideale cristiano, non gli è difficile immaginare che siamo già adesso alle soglie dell’era escatologica e che il paradiso è a portata di mano. I dannati secondo lui vengono annullati. Del purgatorio non fa parola, ma, data la sua concezione lassista della vita cristiana, sembra di fatto attendere più il purgatorio che il paradiso. Vedi il suo libro Umanità. La storia di Dio, Queriniana, Brescia 1992.

[6] Questo utopismo e questa etica spontaneistica, sotto pretesto dell’amore e del farsi guidare dallo Spirito Santo si nota nel pensiero del Padre Timothy Radcliffe, come per esempio nel suo libro Alla radice della libertà. I paradossi del cristianesimo, Tipografia La Grafica Editrice, Verona 2018.

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