Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice - Terza Parte (3/3)

 Nel sacrificio di Abramo Dio non si contraddice

Continua il dialogo con Bruno. 

Terza Parte (3/3)

19 agosto 2022      

Caro Padre Giovanni, io avevo scritto: Ecco, dunque, che anche la frase immediatamente successiva a questa, ma strettamente concatenata

“e gli disse «Abramo! […] Prendi tuo figlio […] Isacco […] e offrilo in olocausto»”,

non può essere interpretata come effettiva volontà divina che il sacrificio di Isacco sia portato sino all’estrema conseguenza”.

Su cui lei ha replicato:

«Rispondo dicendo che il sacrificio che Dio chiede ad Abramo non è un atto che comporti una premessa ed una conseguenza, quasi fosse un sillogismo, ma è un atto morale indivisibile, dotato di una sua specifica formalità, che è appunto il sacrificio».

Rispondo a mia volta:

Certamente il comando di Dio nei riguardi di Abramo è un atto morale indivisibile in forma di sacrificio. Quando ho scritto che la frase, costituente tale comando, “non può essere interpretata come effettiva volontà divina che il sacrificio di Isacco sia portato sino all’estrema conseguenza”, non mi riferivo ad Abramo, ma a noi lettori della Sacra Scrittura, a tutti coloro che nel corso dei secoli hanno cercato di abbeverarsi al libro ispirato da Dio, ai quali in questo caso, a mio parere, Egli ha fornito una fondamentale chiave di interpretazione di quanto sta per essere narrato tramite quell’incipit:

“Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo […]”.

Caro Bruno, dato che lei mi presenta il racconto del sacrificio in questi termini, ossia in relazione a ciò che noi lettori possiamo vedere, allora capisco che effettivamente la narrazione di questo sacrificio ha un inizio e una fine.

Viceversa, Abramo doveva necessariamente essere all’oscuro, per tutta la durata del test che, con quella richiesta, Dio lo stava mettendo alla prova. Se Abramo fosse stato al corrente, sin dall’inizio, che si trattava di una prova nella quale mai Dio avrebbe voluto/permesso l’immolazione finale di Isacco… la prova, l’esame a cui il patriarca veniva chiamato non avrebbe avuto alcun senso… sarebbe stato come se, mi si passi il paragone profano, ad un esame scritto di matematica, gli esaminatori fornissero agli esaminandi non solo il testo dei quesiti e problemi da risolvere, ma anche le soluzioni.

Anche su questo punto concordo. È evidente che una prova di fede, proprio per essere una prova, deve essere qualcosa di difficile.

Dunque, mentre era necessario che, per quei tremendi tre giorni della prova, Abramo ignorasse che era oggetto di una prova, noi lettori della Genesi, veniamo sin da subito illuminati sul senso di quanto sta per esserci narrato.

Abramo si accorse subito di essere sottoposto ad una prova e a una prova tremenda e difficilissima, perché molto probabilmente gli sorse il dubbio atroce che Dio si fosse rimangiato la promessa.

Questo significa che Abramo cominciò a meritare fin da subito, dando prova di obbedienza, così come Dio desiderava.

Possiamo dire però che Abramo ignorava all’inizio il vero contenuto della prova, che gli viene svelato solo dall’angelo.

Abramo saprà che si era trattato di una prova quando Dio, tramite l’angelo gli dirà:

“Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”.

Lei ha scritto:

«Dobbiamo distinguere l’inizio e compimento della prova dall’inizio e compimento del sacrificio. Mentre non possiamo contrapporre un inizio e un compimento senza mettere la volontà divina in contraddizione con se stessa, si può e si deve parlare di un inizio e di un compimento della prova».

Rispondo: sono d’accordo, si può e si deve parlare di un inizio e di un compimento della prova.

Abramo si accorge che la prova che Dio gli aveva chiesto ha un contenuto diverso da quello che inizialmente credeva. E come se ne accorge? Perché l’angelo stesso glielo rivela.

Questo vuol dire che la prova era già iniziata, allorchè Abramo, secondo la lettera del testo sacro, riceve da Dio il comando di sacrificare il figlio. Quindi con l’intervento dell’angelo la prova continua: Abramo capisce che cosa veramente Dio voleva e lo mette in atto, sacrificando l’ariete.

Rispetto al primo comando di Dio, quello che richiede il sacrificio di Isacco, noi, in questo nostro dialogo, forse ci siamo focalizzati troppo sul tragico esito finale che tale comando evoca, e non abbastanza su tutto il percorso che Abramo dovrà affrontare prima di eventualmente approdare a quel momento finale in cui effettivamente il sacrificio potrà compiersi o meno. Eppure, è proprio su ciò che Abramo passerà, come reagirà e, in definitiva, se si arrenderà o rimarrà fermo nella fede, durante tutto questo itinerario, che egli verrà valutato da Dio, è il “percorso” che costituisce la “prova”. E in tale percorso, la prospettiva di dover uccidere il proprio figlio, costituisce il tarlo, il tormento angosciante che dovrà pesare come un macigno sulle spalle di Abramo, rendendo la prova davvero ai limiti delle possibilità della creatura umana.

Su questo punto sono d’accordo.

Intendo cioè sottolineare che il comando di Dio non è consistito nel chiedere ad Abramo di sacrificare subito, lì dove si trovava, suo figlio, ma di rendersi obbediente ad una procedura, che ha una sua durata nel tempo, che prevede più passi da eseguire, dove in ciascuno dei vari momenti e degli atti da compiere, il padre di Isacco avrebbe potuto cedere e implorare Dio di non fargli portare a termine quella richiesta, oppure di non essere umanamente in grado di soddisfarla.

Apprezzo molto questa idea secondo cui Abramo avrebbe potuto cedere e chiedere a Dio che gli risparmiasse di sacrificare il figlio, essendo in coscienza convinto che si trattasse proprio della volontà di Dio.

“va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”

È da questa particolare, precisa indicazione divina, che scaturisce il percorso, che durerà tre giorni, della “passione” di Abramo, perché tanto ci vorrà per raggiungere quel monte.

Anche qui possiamo cogliere una reciproca dipendenza funzionale: il percorso, essenzialmente interiore, che Abramo compie nei tre giorni del suo “calvario” non avrebbe avuto la sua pienezza di senso se non fosse stato incessantemente pervaso dal tarlo del doverlo concludere con l’olocausto del figlio amato ma, al tempo stesso, la richiesta, da parte di Dio, di sacrificare Isacco non può essere scissa dal percorso preparatorio che l’accompagna, pena l’alterazione di quanto ci dice il testo sacro.

Certamente la persuasione che Abramo si era fatto all’inizio che Dio volesse il sacrificio del figlio, questa persuasione va tutta a merito della fede e dell’obbedienza di Abramo.

E il riconoscere, all’interno del comando divino che richiede il sacrificio, l’importanza del “percorso” a cui Abramo è chiamato, ci conferma ulteriormente, che il sottoporre a “prova” la fedeltà del patriarca è, per noi, l’autentico significato della richiesta di Dio, che deve però passare nel lasciar credere ad Abramo, sia pur per un limitato periodo di tempo, che Egli voglia la morte di Isacco.

Sono d’accordo che l’autentico significato della richiesta di Dio, a prescindere dal mutamento dell’oggetto del comando divino, sta nella coerenza con la quale Dio, chiedendo ad Abramo l’obbedienza, gli infonde la forza di credere e di obbedire, per cui Abramo supera brillantemente la prova.

Lei ha scritto:

«[…] l’angelo interviene mentre Abramo ha iniziato a sacrificare Isacco.

Questo che cosa significa? Che Dio ha voluto l’inizio e non il compimento? Rispondo dicendo che se Dio non ha voluto il compimento, è segno che non ha voluto neppure l’inizio. Ma possiamo pensare che Dio abbia voluto l’inizio e non il compimento?».

Alla luce di quanto detto prima, mi sento di replicare che Dio non ha voluto il sacrificio, ma ha voluto il percorso preparatorio ad esso che Abramo ha dovuto affrontare, e attraverso cui la sua fede obbedienziale è stata valutata e premiata dal Signore.

Sono d’accordo.

Durante tale percorso, Abramo non ha commesso alcuna singola azione, in sé moralmente inaccettabile, tale da ritenere improponibile che Dio possa averglielo comandato. Non appena Abramo brandisce il coltello, il percorso preparatorio è giunto al termine, e sarebbe davvero l’inizio di quell’olocausto umano che Dio non vuole, sicché interviene l’angelo e il sacrificio non avviene, tanto che la tradizione ebraica lo ricorda non come sacrificio ma come la «legatura (‘aqedah) di Isacco».   

Anche su ciò sono d’accordo.   

Lei ha scritto:

«Se invece la motivazione di ciò che Dio ha chiesto ad Abramo è l’intento divino di provare la fede di Abramo, allora possiamo dire che l’angelo motiva questo significato, facendo riferimento alla volontà divina di mettere Abramo alla prova».

Rispondo: sì è questa che ritengo essere la motivazione di ciò che Dio ha chiesto ad Abramo.

Io avevo scritto:

Dunque, la richiesta del sacrificio di Isacco non è stata il fine del volere di Dio, ma la via scelta da Dio per testare la fede obbedienziale di Abramo, riservandosi di interromperla al momento opportuno.

Su cui lei ha replicato:

«Caro Bruno, mi sembra che questo distinguere la via del sacrificio dal fine del sacrificio sia una distinzione che non regge. Infatti, il comando del Signore, stando al puro testo biblico, cioè alla lettera, non si presenta in un modo deduttivo, come fosse il passaggio da un inizio al compimento, ma appare chiaramente come duplice: un primo comando, che chiede il sacrificio di Isacco, e un secondo comando, che lo proibisce».

Rispondo:

D’accordo che il comando del Signore nel testo biblico, alla lettera, si presenta come duplice, un primo che chiede il sacrifico di Isacco, e un secondo che lo proibisce, ma perché, in quanto comando, è rivolto ad Abramo, che non deve ancora percepire che trattavasi di una “messa alla prova”. L’incipit di Genesi 22, “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo […]”, resta ignoto per l’Abramo prima della prova, ma è rivolto a noi lettori, per aiutarci a inquadrare quale significato attribuire ad una richiesta di sacrificio umano, che altrimenti risulterebbe inaccettabile per il Dio misericordioso che già l’Antico Testamento comincia a manifestare. E tale significato è appunto, secondo me, che trattasi della via che il Signore ha scelto per testare la fede abramitica.

Su ciò non concordo. Mi pare evidente che il racconto del comando divino di sacrificare il figlio non appare una prova soltanto per noi lettori, ma si riferisce a un comando, che Abramo percepisce immediatamente come una prova di fede e di obbedienza, tanto è vero che obbedisce immediatamente col proposito di sacrificare il figlio.

Lei ha poi ribadito sinteticamente la sua tesi:

«[…] in un primo tempo Abramo capisce una cosa e poi, all’arrivo dell’angelo, comprende di avere frainteso la vera volontà di Dio».

Mi consenta Padre Giovanni, le seguenti considerazioni.

Se Dio avesse comunicato ad Abramo che desiderava, in modo inequivocabile, l’olocausto di un animale, è ragionevole ritenere che il patriarca mai si sarebbe sognato di pensare al figlio, ma si sarebbe senz’altro avviato ad eseguire il sacrificio di un agnello o di un ariete.

Abramo fu intenzionato a sacrificare il figlio perché in buona fede ritenne che il comando ricevuto fosse veramente comando divino, finché non fu illuminato dall’angelo.

Al primo momento della prova Dio si manifesta permettendo nella mente di Abramo un’idea della volontà divina, che non corrisponde a ciò che Dio veramente voleva. Come spiegare questo intervento divino? Dio ha ingannato Abramo? Sarebbe empio il solo pensarlo. Ma Dio semplicemente, considerando le conseguenze del peccato originale, che rendono fallibile la nostra conoscenza, ha permesso che Abramo fraintendesse il comando divino.

C’è da aggiungere che, dato che Abramo ha fatto ciò in buona fede e ha seguito la sua coscienza, è stato approvato da Dio, dal momento che noi sappiamo che la coscienza può sbagliare, ma dobbiamo sempre seguire la nostra coscienza, che, come dice San Bonaventura, è la voce di Dio. Per questo, anche se facciamo qualcosa che oggettivamente non corrisponde alla volontà divina, ma in buona fede crediamo che sia cosa buona, non solo restiamo innocenti davanti a Dio, ma veniamo premiati.

Affinché dunque la sua tesi possa ritenersi plausibile, bisogna ipotizzare che la richiesta del sacrificio, da parte del Signore, sia stata comunicata ad Abramo in una modalità che, in qualche modo, lasciasse minimamente aperta la possibilità che potesse anche trattarsi di un sacrificio umano.

Qui non concordo. Non è che la richiesta del sacrificio umano, da parte di Dio, sia stata fatta in un modo minimo. Non è stata fatta per niente. È Abramo che ha creduto, in buona fede, che Dio volesse un sacrificio umano.

Ripeto: se la richiesta di Dio fosse stata esplicitamente del sacrificio di un animale, Abramo, a meno che non si voglia pensare che non fosse nel pieno delle sue facoltà mentali (ma ciò non ha senso), avrebbe semplicemente adempiuto a tale comando.

Il fatto è che Abramo non capisce subito che Dio voleva il sacrificio dell’ariete, ma c’è voluta la rivelazione dell’angelo perchè comprendesse.

Dunque, affinché la sua tesi, Padre Giovanni, possa ritenersi possibile, appare necessario che il comando divino lasciasse, nella mentalità di Abramo, un sia pur piccolo dubbio che potesse riguardare un essere umano piuttosto che un animale.

Abramo era convinto in buona fede che Dio gli avesse chiesto il sacrificio di Isacco. Su ciò Abramo non aveva dubbi, benchè forse si sarà chiesto che ne era della promessa della discendenza in Isacco.

Sicché, provo a proseguire con la sua tesi, Abramo si sarebbe convinto, ingannandosi, che doveva compiere un sacrificio umano.

Ma a questo punto è doveroso porsi la seguente domanda: e perché Abramo avrebbe pensato proprio ad Isacco?

Perché Abramo aveva nell’orecchio l’uso del sacrificio del figlio, generalmente il primogenito, che è il bene più prezioso che un padre possa avere.

Abramo possedeva degli schiavi sui quali, a quei tempi, il padrone aveva diritto di vita e di morte. Avrebbe dunque potuto pensare ad uno di questi per l’olocausto da offrire al Signore.

In alternativa, poiché era d’uso in taluni popoli il sacrificio del primogenito da offrire a Dio, Abramo avrebbe potuto pensare a Ismaele che, pur non essendo figlio della sua legittima moglie Sara, era effettivamente il primogenito di Abramo ed era stato da lui accolto come figlio, anche per volere divino.

Il fatto è che Dio, per mezzo dei tre angeli, rivela a Sara, la legittima moglie, la nascita di quel figlio, che avrebbe dato luogo ad una sconfinata discendenza.

E invece no, Abramo avrebbe pensato di sacrificare proprio Isacco, che non solo era il figlio tanto desiderato ed amato, ma quello per mezzo del quale Dio stesso gli aveva promesso una grandissima discendenza.

Francamente, non le sembra che tale scelta di Abramo appaia difficile da credere?

Possiamo pensare che Abramo fosse in possesso di una concezione  di Dio primitiva, di tipo volontaristico, per la quale non appariva scandaloso che Dio si possa contraddirsi, per cui Abramo probabilmente, benchè avesse il ricordo della promessa, sentendo in se stesso questa supposta nuova volontà di Dio, si era adattato.

Non sarebbe più semplice e credibile dedurre che, essendosi Abramo indirizzato senza tentennamenti verso Isacco, la richiesta divina dell’olocausto non fosse genericamente “aperta” alla possibilità di sacrificio umano (come prima ipotizzato), ma riguardasse inequivocabilmente la persona di Isacco? Altrimenti, se ci fosse stata una pur minima possibilità che così non fosse… Isacco sarebbe stato davvero l’ultima persona a cui Abramo avrebbe pensato per un sacrificio umano.

Certamente Abramo ha pensato ad Isacco, probabilmente in relazione a quella concezione del sacrificio umano, della quale ho parlato sopra.

In sintesi, sull’aspetto della comunicazione del sacrificio da Dio ad Abramo, io vedo solo le tre seguenti possibilità:

1.     Dio aveva comunicato ad Abramo che desiderava, inequivocabilmente, il sacrificio di un animale. In questo caso, il successivo comportamento di Abramo appare ingiustificabile anzi incomprensibile, dunque ritengo che questa possibilità debba essere scartata.

Secondo la narrazione biblica, Abramo, in un primo tempo non aveva capito che Dio volesse il sacrificio dell’ariete, ma glielo ha fatto capire l’angelo.

2.     Dio aveva comunicato ad Abramo che desiderava un sacrificio in un modo che, almeno per la mentalità del patriarca, poteva essere interpretato sia come sacrificio di un animale che di un essere umano, ed Abramo si sarebbe ingannevolmente convinto di questa seconda ipotesi. In questo caso, non è ragionevole che Abramo abbia poi scelto Isacco, piuttosto che un suo servo o Ismaele, dunque anche questa seconda possibilità, a mio avviso, deve essere scartata.

Secondo il testo letterale, Dio chiede ad Abramo di sacrificare Isacco. Ed è proprio Isacco, in quanto il figlio prediletto, che Abramo si sente in dovere di sacrificare a Dio.

3.     Dio aveva comunicato ad Abramo che desiderava, inequivocabilmente, il sacrificio non di un qualsiasi essere umano, ma proprio e solo di Isacco. Resta, anche per esclusione, l’unica possibilità logicamente plausibile, oltre a risultare perfettamente in linea con la lettera del testo biblico.     

Ricordo che l’interpretazione letterale della Sacra Scrittura, in linea di principio, è cosa normale e doverosa.

Tuttavia, da sempre i buoni esegeti si sono accorti che certe interpretazioni letterali causavano gravissimi inconvenienti, nel nostro caso l’idea di un Dio che vuole i sacrifici umani.

Per questo la tradizione esegetica della Chiesa, in questi casi cerca una interpretazione che eviti quegli inconvenienti e che dia ragione del carattere di quel testo. Soprattutto l’esegesi moderna ha per esempio scoperto che certi passi della Scrittura non sono da intendere in senso storico, ma solo simbolico o allegorico o teologico.

Ricordo inoltre la dottrina dei generi letterari esposta in un importante documento della Pontificia Commissione Biblica: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 15 aprile del 1993 (https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html).

Ed era necessario che la richiesta divina riguardasse proprio il figlio amato di Abramo, affinché il sacrificio di Isacco prefigurasse quello di Cristo. Così, nelle parole del Padre e dottore della Chiesa sant’Efrem (https://lanuovabq.it/it/santabramo-1-1):

«Abramo aveva molti servitori; perché Dio non gli dice di sacrificare uno di loro? Perché l’amore di Abramo non si sarebbe rivelato attraverso un servitore: occorreva per questo il suo stesso figlio (Gn 22, 1-18). Parimenti c’erano molti servitori di Dio, ma Egli non mostrò il suo amore verso le creature tramite nessuno di loro, bensì tramite il proprio Figlio, grazie al quale fu proclamato il suo amore per noi: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16).  

Caro Bruno, non c’è dubbio che il sacrificio di Abramo è prefigurativo del sacrificio di Cristo. Perché Dio non vuole il sacrificio di Isacco, ma quello di Gesù? Perché Isacco è un semplice uomo e un semplice uomo non può riscattare l’intera umanità, mentre il sacrificio dell’uomo Gesù è salvifico, perché è il sacrificio di un uomo, che è Dio.     

 

26 agosto 2022

Caro Padre Giovanni,
ho scoperto che anche l’importante scrittore ecclesiastico Tertulliano aveva manifestato la possibile sussistenza di un legame tra il sacrifico di Abramo e l’esortazione evangelica ad amare Dio più di qualsiasi altra persona cara:
«[…] il Signore aveva ordinato ad Abramo di offrire in sacrificio il figlio non certo per tentarne la fede, bensì per apprezzarla nel momento della prova; voleva fare di Abramo un esempio che servisse al suo comandamento, che avrebbe più tardi formulato, per cui nessuno dovrebbe tenere in conto i suoi familiari più di Dio» (Tertulliano, De oratione 8, 2-3, tradotto in La preghiera, a cura P.A. Gramaglia, Paoline, 1984, pag. 189).

Caro Bruno, l’avvertimento di Gesù, secondo il quale, se vogliamo seguirlo, dobbiamo “odiare” i nostri familiari, non può assolutamente essere applicato nel caso del sacrificio di Abramo, perché si arriverebbe all’assurdo di credere che per seguire Cristo dovremmo uccidere i nostri familiari sacrificandoli a Dio.

Infatti il Primo Comandamento non consente di violare gli altri Comandamenti, per obbedire al Primo.

Lei ha scritto:
«[…] è chiaro che Abramo non poteva assolutamente immaginare che Dio avrebbe voluto il sacrificio di un uomo, che è anche Dio, cosa che ci sarebbe stata rivelata dallo stesso Gesù Cristo».
Su un piano puramente razionale, non posso che darle ragione.
E tuttavia non possiamo trascurare che sin dai primi secoli, diversi e autorevoli autori hanno sostenuto che ad Abramo erano state donate virtù profetiche, tali da permettergli di poter pre-vedere, in qualche modo, la passione del Figlio di Dio. Alcuni esempi:
Il Padre della Chiesa sant’Ireneo di Lione, che lo scorso 21 gennaio (https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2022/01/21/0048/00099.html) papa Francesco ha proclamato dottore della Chiesa con il titolo di doctor unitatis, scrisse:
«In Abramo infatti l’uomo aveva imparato in anticipo e si era abituato a seguire il Verbo di Dio. E infatti Abramo, avendo seguito l’insegnamento del Verbo di Dio secondo la sua fede, con animo sottomesso concesse in sacrificio a Dio il figlio suo unigenito e amato, affinché Dio avesse il beneplacito di offrire in sacrificio, in favore della sua intera discendenza, il proprio Figlio diletto e unigenito, per la nostra redenzione. Esultò dunque con forza Abramo, essendo profeta e vedendo nello Spirito il giorno della venuta del Signore e la economia della passione, per mezzo del quale egli stesso e tutti coloro che credono in Dio, come lui credette, avrebbero iniziato ad essere salvati» (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 5, 4-5).
Origene:
«Abramo perciò sperava che Isacco sarebbe risorto e credeva che sarebbe accaduto ciò che ancora non si era verificato. […] Anzi, per dirla più apertamente, Abramo sapeva di rappresentare un’immagine della futura verità, sapeva che dal suo seme sarebbe nato Cristo, il quale sarebbe stato offerto come più vera vittima di tutto il mondo e sarebbe risorto dai morti» (Origene, Omelia VIII sulla Genesi).
Il santo vescovo di Cartagine Quodvultdeus (fine IV secolo - 454):
«Abramo, pur sapendo che il figlio non era ancora idoneo a procreare, obbedì tuttavia all’ordine di Dio con tanto zelo, nella convinzione che Dio non è immemore delle sue promesse e che si stava compiendo una sorta di misterioso simbolo della futura passione del Signore e con lo sguardo naturalmente rivolto a quel giorno della nostra redenzione, di cui parla il Signore nel Vangelo, quando rimprovera i Giudei: “Vostro padre Abramo ha desiderato vedere il mio giorno e lo ha visto e se n’è rallegrato”. Abramo ha evidentemente visto simboleggiato nel figlio il giorno della passione del Figlio di Dio […] Isacco non è stato sacrificato per il motivo che la risurrezione era riservata al Figlio di Dio: tutti questi sono i misteri che Abramo credendo meritò di vedere in figura e che noi per mezzo della grazia sappiamo che si sono compiuti» (Quodvultdeus, Libro delle promesse e delle predizioni di Dio I,17,24, Città Nuova, 1989, pag. 78-79).
Il santo e Dottore della Chiesa, nonché ottavo Papa della Chiesa copta, Atanasio di Alessandria:
«Anche Abramo, il grande capostipite dei patriarchi, esultò non perché vide il suo proprio giorno, ma quello del Signore […] e mentre offriva il proprio figlio, adorava il Figlio di Dio; e mentre gli era impedita l’uccisione di Isacco, contemplava Cristo in quell’agnello che fu immolato in quanto Dio» (Atanasio di Alessandria, Lettera festale VI, 8, citato in Laura Carnevale, Obbedienza di Abramo e sacrificio di Isacco, Il pozzo di Giacobbe, 2022, pag. 120).
Alla luce di tali posizioni, Padre Giovanni, possiamo escludere che Abramo avesse una qualche preveggenza del sacrificio di Cristo?

Caro Bruno,

le testimonianze che lei mi porta sono degne di alta considerazione.
Non parliamo poi dell’autorità delle parole di Nostro Signore Gesù Cristo!
Davanti a queste testimonianze, come posso rispondere? Risponderei in due modi.

Primo. Come interpretare le parole di Nostro Signore? Che cosa ha inteso dire? Io ritengo che Gesù abbia voluto esplicitare quanto era implicitamente contenuto nella promessa, che Dio aveva fatto ad Abramo. E cioè, che cosa? Che cosa significa la sconfinata discendenza di Abramo, se non la salvezza dell’intera umanità? E chi ha procurato la salvezza all’intera umanità? Nostro Signore Gesù Cristo.

Quindi, quando Gesù dice: “Abramo ha visto il mio giorno”, ha inteso dire questo. Solo che evidentemente, prendendo alla lettera il contenuto della promessa, è chiaro che Abramo non poteva fare una simile deduzione.

Per questo la tesi di Abramo come profeta, non trova nessun appiglio nel racconto biblico. Ma è Dio che nella sua pedagogia avrebbe preparato, attraverso i Profeti, la venuta di Nostro Signore Gesù Cristo.

Secondo. È cosa nota che sin dai primi secoli, fino ai tempi del Concilio Vaticano II, è invalsa una esegesi cattolica dell’Antico Testamento, la quale ha esagerato nel trovare un riferimento a Cristo mediante una certa forzatura del testo, il quale invece così come suona non consente una simile operazione.

Non che da quei passi non si possa ricavare il mistero di Cristo, ma questa operazione è legittima se fatta da noi, che già conosciamo Cristo, e non la si può fare invece ricavandola dagli stessi testi, perché sarebbe una interpretazione arbitraria ed impositiva.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 26 agosto 2022      



Che cosa significa la sconfinata discendenza di Abramo, se non la salvezza dell’intera umanità? 

E chi ha procurato la salvezza all’intera umanità? Nostro Signore Gesù Cristo.

 

Immagine da Interrnet:

- Giulio Cesare Procaccini, Sacrificio di Isacco, olio su tela, Courtesy Bibliopathos 

6 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    vorrei innanzitutto fare una precisazione.
    Nel mio precedente intervento, è rispetto alle seguenti parole:
    «Abramo doveva necessariamente essere all’oscuro, per tutta la durata del test che, con quella richiesta, Dio lo stava mettendo alla prova. Se Abramo fosse stato al corrente, sin dall’inizio, che si trattava di una prova nella quale mai Dio avrebbe voluto/permesso l’immolazione finale di Isacco… la prova, l’esame a cui il patriarca veniva chiamato non avrebbe avuto alcun senso…»,
    che io ho inteso dire, successivamente e in più punti, che Abramo non era consapevole di “esser messo alla prova”. È solo per brevità che non ho ripetuto per intero le considerazioni di cui sopra, ma ora mi rendo conto che così facendo, potevo essere frainteso.
    Ribadisco che affinché la prova avesse senso, Abramo non doveva possedere la certezza che il Signore, nel momento supremo, gli avrebbe impedito l’uccisione del figlio. Poteva sperarlo, ma non averne la certezza. È in questo senso che intendevo dire che Abramo doveva ignorare di trovarsi all’interno di un “test” che non si sarebbe mai concluso con la morte di Isacco:
    «L’incipit di Genesi 22, “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo […]”, resta ignoto per l’Abramo prima della prova, ma è rivolto a noi lettori, per aiutarci a inquadrare quale significato attribuire ad una richiesta di sacrificio umano, che altrimenti risulterebbe inaccettabile per il Dio misericordioso che già l’Antico Testamento comincia a manifestare. E tale significato è appunto, secondo me, che trattasi della via che il Signore ha scelto per testare la fede abramitica».
    Viceversa, condivido assolutamente che anche Abramo, oltre al lettore, comprende che la sua fede viene “messa alla prova”, ma senza alcuna “garanzia” di come andrà a finire, e dunque sottoscrivo pienamente le sue parole:
    «Abramo percepisce immediatamente come una prova di fede e di obbedienza, tanto è vero che obbedisce immediatamente col proposito di sacrificare il figlio».

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    1. Caro Bruno, come ho detto più volte, la richiesta di un sacrificio umano, così come appare dalla lettera del testo, deve essere considerata non come una richiesta effettiva, perché ciò ci mostrerebbe un Dio che vuole sacrifici umani.
      Per questo motivo non possiamo fermarci all’interpretazione letterale, ma siamo obbligati ad escogitare una diversa interpretazione, quale quella che più volte ho ripetuto, che ci faccia sfuggire all’ipotesi orribile di un Dio che vuole sacrifici umani.
      Ora, la soluzione che io propongo sembra oggi più che mai necessaria. Infatti, in un momento della Chiesa nel quale abbiamo un Papa che più di qualunque altro predica la misericordia, è assolutamente intollerabile mantenere una interpretazione, che, per quanto abbia avuto credito per millenni, si mostra oggi in netto contrasto con la figura di un Dio misericordioso, che pure anche lei giustamente riconosce.

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  2. Lei ha scritto:
    «Al primo momento della prova Dio si manifesta permettendo nella mente di Abramo un’idea della volontà divina, che non corrisponde a ciò che Dio veramente voleva. Come spiegare questo intervento divino? Dio ha ingannato Abramo? Sarebbe empio il solo pensarlo. Ma Dio semplicemente, considerando le conseguenze del peccato originale, che rendono fallibile la nostra conoscenza, ha permesso che Abramo fraintendesse il comando divino».
    Poi ha riportato quanto io avevo scritto:
    «Affinché dunque la sua tesi possa ritenersi plausibile, bisogna ipotizzare che la richiesta del sacrificio, da parte del Signore, sia stata comunicata ad Abramo in una modalità che, in qualche modo, lasciasse minimamente aperta la possibilità che potesse anche trattarsi di un sacrificio umano»,
    criticandolo con queste parole:
    «Qui non concordo. Non è che la richiesta del sacrificio umano, da parte di Dio, sia stata fatta in un modo minimo. Non è stata fatta per niente. È Abramo che ha creduto, in buona fede, che Dio volesse un sacrificio umano».
    Mi chiedo: ma stiamo davvero dicendo, io e lei, qualcosa di così distante?
    Lei ha affermato che il Signore avrebbe permesso che in Abramo si formasse l’idea che Dio voleva un olocausto umano, io invece (volendo portare avanti la sua tesi) che il Signore nel comunicare ad Abramo la richiesta di sacrificio abbia lasciata aperta, in qualche modo, una pur minima possibilità che si potesse recepirla come sacrificio umano.
    Ora, come poteva formarsi quell’idea in Abramo, se nel comando divino del sacrificio non fosse stato presente un qualche spiraglio in quella direzione? Oppure, formulandola, in altri termini: se Dio, nel comandare il sacrificio, avesse escluso in maniera categorica, assoluta un olocausto umano, Abramo avrebbe potuto fraintendere la richiesta divina?
    Ipotizziamo che, in Genesi 22, 2 anziché “Prendi tuo figlio […] va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto…” fosse stato scritto: “Prendi un agnello/ariete va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto…”, e Abramo, nel proseguo della narrazione, si fosse comportato esattamente come è scritto in Genesi 22, 3-10.
    Che cosa avrebbe dovuto pensare il lettore? Che Abramo era ubriaco, o impazzito, oppure posseduto da Satana… perché altrimenti, in condizioni normali di intendere e di volere, non è possibile scambiare, confondere un animale per un figlio. Ma poiché nulla ci autorizza a pensare, per il patriarca, ad una perdita, pur temporanea, delle proprie facoltà mentali… a meno che non si voglia tirare in ballo la possessione satanica, dobbiamo necessariamente dedurne che Dio, nel comunicare ad Abramo la richiesta del sacrificio, non ha detto, in modo inequivocabile: “Prendi un agnello/ariete…”, altrimenti Abramo non avrebbe fatto quello che ha fatto.
    Dunque, per suffragare la sua tesi dell’Abramo fraintendente il comando divino, siamo costretti, obtorto collo, a postulare che nella comunicazione di tale comando ad Abramo, non fosse del tutto escluso che potesse trattarsi di sacrificio umano.
    Se Dio avesse voluto che non ci fosse alcuna possibilità di fraintendimento della sua richiesta, avrebbe fatto in modo che così fosse, ma evidentemente non è stata questa la sua volontà.
    In altre parole, la sussistenza di un tale “spiraglio”, di quella “minima” possibilità di cui avevo scritto, è conditio sine qua non del fraintendimento abramitico di cui lei parla (sempre nell’ottica di portare avanti la sua tesi).
    E dico, obtorto collo, perché questo scenario ci porta comunque ad avvicinarci a pensieri da cui volentieri vorremmo restar lontani, come la possibilità di ambiguità, di uno “pseudo-inganno” divino, sia pur a fin di bene…

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  3. Un precedente capitolo della Genesi, il 18, ci svela a quale grado di confidenza, quasi di familiarità era arrivato il rapportarsi di Abramo con Dio:
    «Disse allora il Signore: "Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!".
    Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: "Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?". Rispose il Signore: "Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo". Abramo riprese e disse: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?". Rispose: "Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque» (Gen 18, 20-28).
    E la narrazione prosegue in quella che appare una sorta di serrata contrattazione, tra Abramo e Dio, sul numero di giusti necessario e sufficiente per lasciare in vita la città di Sòdoma, numero che scenderà a quaranta, a trenta, a venti e infine a dieci.
    Ha scritto il teologo Dionisio Candido:
    «Tanti aspetti rendono questo racconto biblico straordinario. Si può fare riferimento anzitutto alla pazienza del Signore, che lascia fare ad Abramo senza mai indispettirsi. In questo senso, non basta spiegare questo racconto vedendovi semplicisticamente i segni di un ingenuo antropomorfismo. È più corretto riconoscervi invece la dinamica relazionale tipica tra due amici, che si sentono liberi di forzarsi reciprocamente la mano per ottenere un favore a volte per sé, altre volte per qualcun altro. Abramo è “l’amico di Dio” (il titolo ebraico di ‘ohabi, “amico mio”, in riferimento ad Abramo si trova anche in Is 41,8 e 2Cr 20,7, nel Nuovo Testamento si riprende in Gc 2,23) e per questo può permettersi di atteggiarsi con lui in modo persino sfrontato. Il patriarca ha stretto un legame di obbedienza a Dio non supina, ma intelligente e matura […] sente di poter negoziare con Dio» (D. Candido, Le sette obbedienze di Abramo, 2009, San Paolo, pag. 45-46).
    Se questo ha un fondamento, se questo era il tenore del rapporto che si era instaurato tra Dio ed Abramo, è lecito chiedersi: come è possibile che dinanzi alla prospettiva di dover sacrificare il proprio figlio amato, donato da Dio con la solenne promessa di una sterminata discendenza… Abramo non si sia rivolto al Signore per chiedergli se avesse veramente capito il Suo comando, ed anche perché dovesse compiere un tale gesto che avrebbe vanificato siffatta promessa?
    Non può leggersi, anche questo, come ulteriore indizio che proprio Dio aveva chiaramente, inequivocabilmente manifestato la richiesta di sacrificare Isacco?

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  4. Quando l’angelo del Signore chiama Abramo per la seconda volta, conclude il suo discorso dicendo:
    “Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce" (Gen 22, 18).
    In cosa è consistita questa obbedienza di Abramo alla voce divina che viene premiata con la benedizione sulla sua discendenza?
    Non certo perché Abramo ha acconsentito al secondo comando, mediato dall’angelo, di fermarsi dall’uccidere il proprio figlio. Mai comando fu più ben accetto… e dunque non può esser questo ad avergli meritato siffatto elogio di obbedienza e premio.
    L’obbedienza cui si riferisce l’angelo del Signore dobbiamo allora riferirla al primo comando, quello di Genesi 22,2. Dio rinnova e amplifica le promesse ad Abramo “perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio…” (Gen 22,16)
    Lei mi dirà che anche questo secondo intervento dell’angelo è da riferirsi non a ciò che Dio aveva davvero comandato ad Abramo, ma a quello che la coscienza di questo aveva erroneamente ritenuto, e che comunque viene apprezzato da Dio come obbedienza estrema secondo la propria coscienza.
    E però resta il fatto che letteralmente il testo dice “perché tu hai obbedito alla mia voce”, alla “mia” cioè a quella di Dio e non a quello che tu, Abramo, “hai supposto” essere la mia voce.

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  5. Il cuore della sua esegesi sul sacrificio di Abramo, Padre Giovanni, il centro della sua preoccupazione mi sembra sia quello di preservare, con incrollabile determinazione, che Dio possa esser accusato di essersi contraddetto, finanche nelle modalità, nelle vie tramite cui agisce nell’economia della salvezza (Dio non potrebbe, all’interno della prova cui sottopone Abramo, comandargli qualcosa che poi non vorrebbe sia portato al compimento estremo).

    Se la sua intenzione è senz’altro encomiabile, le chiedo se esista il rischio e se, nella sua ricerca filosofico-teologica, le sia capitato di percepirlo, di eccedere nella pretesa di ricondurre l’operato divino all’interno di schemi logico-filosofici, validissimi per l’intelligenza dei comportamenti e delle problematiche umane, anche per come l’umano possa rapportarsi col Divino, ma forse non altrettanto per cercare di spiegare ciò che, per sua stessa natura, eccede le possibilità umane.

    Lei stesso che pure rivendica orgogliosamente di essere un tomista, ha francamente riconosciuto che la posizione del grande Acquinate sul sacrificio abramitico, è più vicina alla mia, a quella tradizionale che non alla sua. Posso allora supporre che lei abbia elevato la logica aristotelica ad una dignità e ad una capacità ermeneutica, finanche nell’economia della salvezza, ad un livello persino superiore a quello che le aveva riservato san Tommaso?
    E però non posso far a meno di considerare che “Dio ha fatto cielo e terra”… i principi di identità, non contraddizione, terzo escluso, la teoria del sillogismo e tutto ciò che concorre a costituire il meglio della logica, di aristotelica origine, che regolamenta il funzionamento di gran parte della nostra dimensione umana e terrena… sono state create anch’esse da Dio per il mondo, per noi uomini, e dunque, in fondo restano creazioni del Signore che, nella sua suprema libertà avrebbe anche potuto crearcele in aspetto e sostanza differenti, e comunque, in quanto creazioni di Dio, può Colui che le ha create esservi soggetto, al punto di non poterle mai violare?

    L’infinita perfezione del Creatore non può permettergli di superare i limiti di quella stessa logica che Egli ha creato per noi?

    Il più sublime mistero della nostra fede, la Santissima Trinità, non sta forse ad indicarci, in quel 3 = 1 (mi perdoni la banale sintetizzazione in formula matematica) che Dio, nella sua stessa intima natura, eccede, supera le leggi della nostra logica?

    Ed infine, il teologo che, pur in buonissima fede, pretenda di poter sempre stabilire ciò che Dio può fare e non può fare, non rischia di rinnovare, per l’ennesima volta, il peccato originale, illudendosi di possedere la conoscenza di ciò che è bene e di ciò che è male?

    Mi rendo conto che sono temi enormi che richiederebbero pagine e pagine di approfondimento…
    Forse, in certi casi, dovremmo solo inginocchiarci dinanzi al Mistero, sull’esempio di Maria Santissima a cui l’arcangelo Gabriele rivelò: “Nulla è impossibile a Dio”.
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    Mi perdoni se posso a mia volta aver ecceduto dicendo qualcosa di sconveniente o irrispettoso.

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