Esiste un diritto umano al perdono?

 Esiste un diritto umano al perdono?

Esigere ciò che è puro dono?

Il Santo Padre ha suscitato recentemente in alcuni meraviglia per avere parlato di un «diritto umano al perdono». L’obiezione che è stata fatta è che il perdono è una grazia di Dio e noi non possiamo esigere da Dio come fosse un diritto ciò che Egli elargisce solo gratuitamente.

Osserviamo anzitutto che il Papa non ha parlato di diritto presso Dio, ma di diritto umano, ossia presso gli uomini, presso la società civile, presso le istituzioni dello Stato, presso l’autorità giudiziaria, in generale o presso il fratello che abbiamo offeso.

Al riguardo, notiamo anzitutto che la condizione per essere perdonati in generale sia presso Dio che presso gli uomini – il Papa lo ha ripetuto spesso – è quella di riconoscere il proprio fallo, di essere pentiti del male commesso e di essere disposti a subìre la giusta pena e a riparare.

Come si può configurare il perdono da parte dell’autorità civile? Certo il concetto del perdono è un concetto squisitamente evangelico, che comporta la virtù della misericordia e la remissione del debito. Il perdono cristiano è un per-dono, è un donare due volte. Il perdonatore, infatti, dona di nuovo quello che aveva già donato: una prima volta aveva donato al fratello il suo amore. Una seconda volta dona il suo amore, respinto e messo nelle condizioni di essergli ridonato dall’atto penitenziale dell’offensore.

Quando pecchiamo contro il fratello, non corrispondiamo al suo amore per noi o non gli diamo quell’amore che dobbiamo dargli. Contraiamo con lui come un debito che dobbiamo pagare. La Scrittura e anche il linguaggio comune paragonano il peccato commesso contro qualcuno, uomo o Dio, ad un debito che dobbiamo pagare per esigenza di giustizia, affinchè sia ricostruito il rapporto interrotto tra offensore ed offeso.  Questo debito va pagato per giustizia, ma è rimesso dal perdono. Nel rapporto dell’uomo con l’uomo o con Dio, avviene l’una e l’altra cosa, benché questo possa sembrare strano. Ma vediamo come avviene.

Che accade infatti quando pecca un uomo di coscienza? Egli, toccato dal rimorso per il peccato commesso, se ne pente e, come il figliol prodigo della parabola evangelica, torna dal padre pronto a riconoscere di aver peccato contro di lui e a pagare quel che deve.

Da notare che il proposito del figliol prodigo non è quello di chiedere perdono, ma di chiedere al padre di non considerarlo più figlio, ma servo. Tale atteggiamento, secondo i buonisti, denoterebbe poca fiducia nei confronti della misericordia del padre. E invece il figlio ci dà qui proprio l’esempio di come dobbiamo fare anche noi. Infatti, non siamo autorizzati a chiedere il perdono divino e non ne abbiamo alcun diritto senza prima assolvere al dovere o alla volontà di espiare il peccato.

Così giustamente il figliol prodigo, mostrando senso di giustizia, non pensa ancora alla misericordia. E per questo non pensa di chiedere perdono, perché è la misericordia divina che rimette la colpa e la pena, benché essa posa rimettere solo la colpa ma esigere la pena, come avviene nella condotta ordinaria di Dio nei nostri confronti.

Invece il padre della parabola evangelica non solo perdona senza essere richiesto, ma rimette anche la pena che il figlio si attendeva, e ciò avvenne probabilmente perchè il padre giudicò che il figlio avesse scontato abbastanza vivendo tra i porci.

Ora, considerando l’ordinamento giudiziario civile, il Papa ha chiesto che nella collezione dei diritti umani della costituzione dello Stato sia inserito anche il diritto al perdono, supposte naturalmente le condizioni già dette. Ovviamente si deve distinguere bene il perdonare umano dal perdonare divino, per il fatto che mentre tanto Dio che l’uomo può rimettere la pena, solo Dio può rimettere il peccato in quanto offesa a Dio, offesa che è un male umanamente irreparabile, se non interviene la misericordia divina.

Le richieste del Papa sono opportune e ragionevoli

Quello che ha chiesto il Papa non dovrebbe essere troppo per lo Stato moderno, anche se di indubbia impostazione laica, indipendente dalla considerazione dell’etica cristiana, ed esclusivamente basato sulla ragione, come abbiamo storicamente assistito a partire dalla nascita della concezione illuministica settecentesca dello Stato.

E del resto già San Tommaso d’Aquino nel De regimine principum afferma chiaramente che il fondamento etico delle direttive del principe non è la fede cristiana, ma la semplice ragione, avendo lo Stato per fine non la salvezza delle anime, ma il bene comune temporale, ragione che, se è retta e rispetta i diritti dell’uomo, non può mai essere contro la fede, venendo da Dio tanto la luce della ragione quanto quella della fede.

Il moderno Stato democratico, non totalitario o fondamentalista, benché abbia abbandonato il principio del cattolicesimo come religione di Stato, per riconoscere il diritto alla libertà religiosa, non ha difficoltà ad accogliere la proposta di Papa Francesco, considerando che sin dall’epoca costantiniana esso è stato influenzati dall’etica evangelica.

E del resto lo stesso costume e diritto romani conosce già il concetto della clementia e della misericordia, e in particolare quello della gratia, intesa non solo come favore o dono gratuito, ma come vero e proprio perdono, ossia come remissio criminum in Svetonio, Tito Livio e Sallustio. È notevole che questo concetto laico di grazia, sia pur rapportabile col concetto cristiano, è rimasto nel linguaggio giuridico moderno, come quando per esempio si parla di «grazia» concessa dal Presidente della Repubblica o di Ministero di Grazia e Giustizia.

Virgilio ha il concetto del parcere subiectis, dove i subiecti non sono necessariamente sottomessi per forza, ma possono benissimo essere coloro che, desiderosi di protezione e ammiratori della civitas romana, volontariamente si assoggettavano a Roma per fruire della romanitas. Con questo spirito universalistico Roma era arrivata ad assoggettare anche Israele. Ma non intendeva per nulla abolire la sua religione né entrare a giudicare delle credenze e delle pratiche relative ad essa.

Sappiamo infatti come una delle virtù dell’antica Roma, presagio in ciò di quella Chiesa avente il suo centro in lei,  «onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 99), per dirla col divino Poeta, il perché delle sue conquiste imperiali, a differenza dei grandi imperi orientali dell’antichità, rapinatori e dispotici, era l’ideale dell’humanitas, il senso dell’universalità della natura e quindi della ragione umana, il senso dell’universale uguaglianza e fraternità umana, direbbe oggi Papa Francesco, giusta le parole del poeta Terenzio nell’Heautontimorumenos (I, 1, 25): homo sum, humani nihil a me alienum puto o secondo quello jus gentium o quella lex non scripta, dei quali parla Cicerone, dei quali abbiamo un’eco nello stesso San Paolo (Rm 2,14-15), quella che la successiva dottrina della Chiesa con San Tommaso chiamerà «legge naturale», corrispondente al decalogo mosaico.

Il dovere di perdonare e il diritto di essere perdonati

Come sappiamo, l’etica evangelica nei rapporti col prossimo non si accontenta della pratica della giustizia, la quale compensa l’altro per l’azione compiuta ed agisce in vista del compenso, la giustizia che premia e castiga a seconda dei meriti di ciascuno, il dare a patto che l’altro abbia dato e meritato o l’acquistare pagando un prezzo.

La misericordia, e cioè il cuore per il misero, è la pietà e la compassione per il sofferente e il bisognoso, per chi non ce la fa da solo, per colui che non può pagare, non può comperare, non può compensare, non può riparare, non ha meriti, non è neanche capace di meritare. L’opera della misericordia è l’andare incontro gratuitamente al bisogno di chi si trova nelle suddette condizioni. E tra le opere della misericordia c’è il perdono.

Certo, l’opera della misericordia non corrisponde a un preciso obbligo di compensare o pagare chi ha compiuto un dato lavoro o una data opera, per cui ha diritto a che io lo paghi o compensi ed io ho lo stretto dovere od obbligo di giustizia di farlo. L’opera della misericordia non corrisponde necessariamente al dovere di soddisfare ad un’esigenza nell’altro. Non chiede compenso. È gratuita. Va al di là dei meriti, dei bisogni, delle esigenze e delle stesse aspettative. Sembra che essa non corrisponda a un diritto nell’altro a ricevere e quindi a un preciso dovere in me a dare.

L’opera di misericordia può dar quindi l’impressione di corrispondere a qualcosa di facoltativo. Sembra essere un puro favore, a pura generosità, un atto di amore gratuito, certo bello, ma non obbligatorio, non passibile di essere comandato, perché, si dice, all’amore non si comanda. Sembra dunque essere un nobile gesto, dal quale se mi astengo. non faccio alcun peccato.

E invece non è vero che all’amore non si comanda, perché il vero amore non è cieca passione, ma l’amore è atto della buona volontà. E il precetto dell’amore riassume tutta l’etica evangelica. Da qui il comando divino: «siate misericordiosi!». Se essere misericordiosi è un dovere, allora è un diritto essere misericordiati, sempre restando salvi, però, il previo dovere del pentimento e della riparazione.

E così il Vangelo, come è noto – e qui si trova la sua caratteristica peculiarità etica - ci chiede ed anzi comanda di praticare la misericordia come imprescindibile dovere di giustizia. E tra queste opere c’è il perdonare le offese.

A questo punto nasce il problema: il perdono è un libero dono gratuito dell’amore. Come può nello stesso tempo l’essere perdonato un diritto dell’offensore, un qualcosa che l’offensore può esigere dall’offeso?  Si può esigere come diritto ciò che è effetto gratuito dell’amore e della misericordia? C’è un diritto alla misericordia? Alla grazia?

Ebbene, sì, questo è il paradosso l’etica evangelica. Acquistiamo per merito ciò stesso che riceviamo gratis. Viaggiamo gratuitamente pur pagando il biglietto. Si può andare da Dio e dirgli: sono venuto a ricevere la paga che mi avevi promessa, ma nello stesso tempo sono venuto a ricevere la grazia che immeritatamente mi vuoi dare. Come questo è possibile?

Ciò non avviene sotto lo stesso rapporto, se no ci sarebbe un’insanabile contraddizione. Si tratta di distinguere l’opera nostra meritoria in Cristo e grazie ai meriti di Cristo, dall’opera della grazia che supera i nostri meriti e ci dà gratuitamente per misericordia la possibilità di meritare in Cristo.

Il Vangelo distingue il diritto al perdono presso gli uomini – come diritto umano naturale, ed è di ciò che il Papa parla - dal diritto cristiano soprannaturale al perdono presso Dio. Nell’uno e nell’altro caso l’offensore può avere il diritto di essere perdonato a patto che sia pentito del suo atto, lo riconosca e sia pronto a farne ammenda e a riparare. Nel caso della riconciliazione con gli uomini, per poter esigere il perdono, è sufficiente che l’offensore compia un atto riparatore di merito naturale.

Nel caso invece dell’offesa a Dio, occorre invece che l’atto riparatore sia compiuto in grazia appoggiandosi ai meriti di Cristo, così che l’offensore pentito ed emendato o con l’intento di emendarsi avanza verso Dio un diritto al perdono che è fondato sui meriti di Cristo, dei quali egli, in stato di grazia e libero dalla colpa del peccato, si rende meritevole del perdono divino e quindi lo può esigere a norma di giustizia, come compenso per il pentimento e la fiducia nei meriti di Cristo redentore.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 11 febbraio 2022.

 

Sappiamo infatti come una delle virtù dell’antica Roma, presagio in ciò di quella Chiesa avente il suo centro in lei,  «onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 99), per dirla col divino Poeta, era l’ideale dell’humanitas, il senso dell’universalità della natura e quindi della ragione umana, il senso dell’universale uguaglianza e fraternità umana, direbbe oggi Papa Francesco, giusta le parole del poeta Terenzio nell’Heautontimorumenos (I, 1, 25): homo sum, humani nihil a me alienum puto o secondo quello jus gentium o quella lex non scripta, dei quali parla Cicerone, dei quali abbiamo un’eco nello stesso San Paolo (Rm 2,14-15), quella che la successiva dottrina della Chiesa con San Tommaso chiamerà «legge naturale», corrispondente al decalogo mosaico.

Il Vangelo distingue il diritto al perdono presso gli uomini – come diritto umano naturale, ed è di ciò che il Papa parla - dal diritto cristiano soprannaturale al perdono presso Dio. 

Nell’uno e nell’altro caso l’offensore può avere il diritto di essere perdonato a patto che sia pentito del suo atto, lo riconosca e sia pronto a farne ammenda e a riparare. 

Nel caso della riconciliazione con gli uomini, per poter esigere il perdono, è sufficiente che l’offensore compia un atto riparatore di merito naturale.

Nel caso invece dell’offesa a Dio, occorre invece che l’atto riparatore sia compiuto in grazia appoggiandosi ai meriti di Cristo.

Immagini da internet

17 commenti:

  1. Gentile Padre Cavalcoli,
    Attendevo appunto un suo contributo a commento di quelle parole di Sua Santità. Io cerco sempre di interpretare le parole del Santo Padre in meliorem partem, ma debbo dire che in questo caso la coordinazione fra la domanda di Fazio e la risposta appare molto confusa. Fazio domanda esplicitamente: "C'è qualcuno che non merita il perdono e la misericordia di Dio o il perdono degli uomini?". Il Santo Padre risponde come sappiamo, aggiungendo un riferimento alla "storia... [al] mito diciamo così, della creazione", per poi continuare: "È un diritto che nasce proprio dalla natura di Dio ed è stato dato in eredità agli uomini. Noi abbiamo dimenticato che qualcuno che chiede perdono ha il diritto di essere perdonato. Tu hai fatto qualcosa, lo paghi. No! Hai il diritto di essere perdonato, e se poi tu hai qualche debito con la società arrangiati per pagarlo, ma con il perdono. Il papà del figliol prodigo aspettava il figlio per perdonarlo, e il figlio aveva il diritto di essere perdonato, ma lui non lo sapeva, per questo dubitava tanto."
    Ora l'analisi che lei ha condotto nel post odierno del suo blog sembra considerare che la risposta del Sommo Pontefice riguardasse solo la seconda parte della domanda (quella sul perdono "degli uomini". Lei dice infatti: "[...] come diritto umano naturale, ed è di ciò che il Papa parla"). Io ho però l'impressione, e credo sia quella che ha avuto quasi chiunque ascoltando o leggendo l'intervista, che la menzione della parabola evangelica trasferisca proprio in ambito teologico il concetto di "diritto al perdono". Perché, sennò, parlare dell'arcinota parabola evangelica, il cui centro non è certo il concetto di perdono umano (naturale), bensì quello divino? Devo dire che nonostante tutta la buona volontà, che spero non mi manchi mai con la grazia di Dio, non riesco a non pensare che il Sommo Pontefice nella sua risposta intendesse proprio una sorta di "diritto soprannaturale" al perdono da parte di Dio. Ammetto, caro padre, che sono molto confuso e sconfortato. Mi pare che ci avvolgiamo nelle spire della semiotica per non ammettere che queste espressioni, al di là delle intenzioni, prestano effettivamente il fianco a intepretazioni tendenziose (forse lei direbbe "buoniste"). Mi aiuti a capire, la prego.

    In Cristo

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    1. In Cristo
      Caro Fos,
      nel mio articolo ho parlato di un diritto presso gli uomini e di un diritto presso Dio. Il primo si basa su di un diritto naturale e sui meriti naturali. Il secondo è un diritto che ci viene concesso per misericordia da parte di Dio, in quanto noi paghiamo il nostro debito di pena e ci viene rimessa la colpa grazie ai meriti di Cristo e al fatto che noi uniamo le nostre opere buone in grazia all’opera soddisfattoria compiuta da Gesù Cristo.
      In questo caso i meriti che acquistiamo, basandoci sui meriti di Cristo, sono meriti soprannaturali e quindi possiamo effettivamente parlare di un diritto soprannaturale presso il Padre, il Quale, per giustizia e per misericordia, si è impegnato con noi a premiare i nostri meriti.

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  2. Comprendo benissimo le perplessità del sig. del commento precedente in quanto in un primo tempo sono state anche le mie. Sappiamo che i discorsi fatti a braccio dal pontefice purtroppo non sempre sono chiari e possono dare a intendere cose che non coniugano con la dottrina della Chiesa. Hanno bisogno di essere spiegati. Come tanti, mi sono chiesto quale diritto ha la creatura a essere perdonata dal Creatore. Se il vaso non può dire al vasaio perché mi hai fatto così, come può pretendere addirittura di essere assolto per difetti non anputabili al vasaio? Questa è la logica... Tuttavia, Credo invece che bisogna partire dal dato rivelato che Dio è Amore e la Misericordia e il perdono sono insiti nella sua essenza di essere Amore. Per questo, Dio non può non perdonare...solo in questo senso si può parlare, anche se è forte dirlo, di un diritto al perdono. Ossequi

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    1. Caro Don Pietro Paolo,
      capisco che questa espressione “diritto al perdono” faccia difficoltà.
      Tuttavia bisogna che ci ricordiamo che la salvezza è legata a un patto, a una specie di contratto di lavoro. In fondo è il concetto dell’Alleanza, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento.
      Nel Nuovo Testamento abbiamo un piano di misericordia per il quale il peccatore pentito, che accetta la giusta pena, può riparare al suo peccato unendosi alla Croce espiatrice di Cristo ovvero alla sua opera soddisfattoria vicaria, con la possibilità di meritare quello che il Padre celeste ci ha promesso come compenso del lavoro eseguito.
      Ora, il lavoratore, che ha compiuto il suo dovere, può esigere come diritto la paga promessa. Questa paga è appunto il perdono, il quale certamente è gratuito e dato per misericordia, ma nel contempo, grazie ai meriti di Cristo, diventa un diritto come compenso del lavoro fatto.
      Questo diritto, ben lungi dall’escludere il dono della misericordia, suppone precisamente questo dono, perché è in grazia di questo dono che, per i meriti di Cristo, possiamo esigere la paga.

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    2. Buonissima risposta integrativa. Grazie

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  3. Grazie padre Cavalcoli per la risposta, molto profonda.

    In Cristo

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  4. Caro Padre Giovanni,
    lei ha scritto:
    “Osserviamo anzitutto che il Papa non ha parlato di diritto presso Dio, ma di diritto umano, ossia presso gli uomini […]”.
    La domanda di Fazio è: “Lei crede che gli uomini siano buoni? Lei ha fiducia nell’uomo, e al tempo stesso le chiedo: c’è qualcuno che non merita il perdono e la misericordia di Dio o il perdono degli uomini?”
    Il Santo Padre inizia la sua risposta parlando del rapporto tra Dio e gli uomini, la loro libertà di fare il bene o il male:
    “Dio ci ha fatto buoni ma liberi […] E come [Dio] ci ha fatto liberi, noi siamo padroni delle nostre decisioni e anche di fare decisioni sbagliate. Questa è la libertà che ci ha dato Dio”.
    Poi il Papa chiede a Fazio di ripetergli la fine della sua domanda, e Fazio di nuovo:
    “c’è qualcuno che non merita il perdono e la misericordia di Dio o il perdono degli uomini?”
    E subito dopo il Papa presenta il poter essere perdonati come “diritto umano”. La domanda di Fazio era chiara, ripetuta e riguardava la possibilità di essere perdonati tanto davanti a Dio, che davanti agli uomini.
    E il Papa nella risposta non opera alcun distinguo tra “diritto umano” ad essere perdonati dagli uomini, piuttosto che da Dio.
    Pertanto, non mi trovo d’accordo con lei nell’escludere che il Papa abbia parlato di diritto presso Dio.
    Peraltro, poco dopo il Papa, dopo aver detto:
    “Tutti noi abbiamo il diritto di essere perdonati se chiediamo perdono”,
    aggiunge subito dopo:
    “È un diritto che nasce proprio dalla natura di Dio ed è stato dato in eredità agli uomini”, stabilendo così una diretta consequenzialità: come, se ci pentiamo e chiediamo perdono a Dio ne abbiamo diritto, così, quando qualcuno ci chiede perdono dobbiamo riconoscergli analogo diritto.
    Lei Padre Giovanni ha sostenuto che, avendo il Papa utilizzato l’aggettivo “umano” per la parola diritto, ciò dimostrerebbe che non intendeva riferirsi ad un diritto dinanzi a Dio, ma solo tra uomini.
    Se pur è apprezzabile il suo intento di venir in soccorso del Santo Padre, mi sembra francamente una tesi piuttosto debole.
    Tra l’altro lo stesso Francesco è ben consapevole che sta per dire qualcosa di non proprio… pacifico, dal momento che fa precedere quella frase da “dirò qualcosa di cui qualcuno si scandalizza”.
    Inoltre, basta scorrere articoli giornalistici e commenti sui vari social, per notare che sono molti ad aver recepito quel riferimento al diritto umano all’essere perdonati tanto da Dio che dagli uomini. Per esempio, le segnalo questa catechesi di Padre Serafino Lanzetta:
    https://www.youtube.com/watch?v=EPk5F0ffFI4
    Il rischio di accogliere alla lettera le parole del Papa, cioè di categorizzare il “diritto umano” al perdono, similmente ai comuni diritti umani universali come la libertà di pensiero, potrebbe portare a dire: “così come sono libero di pensare quello che voglio, e quindi tutti gli altri, persone o Stato, sono obbligati a rispettare questo mio diritto, allo stesso modo, io posso peccare tutte le volte che voglio, basta che poi mi penta, e Dio è obbligato a perdonarmi in quanto è mio diritto. Lo ha detto il Papa”.

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    1. Caro Bruno,
      riconosco che io sono stato colpito in modo particolare dal concetto di diritto umano al perdono espresso dal Santo Padre.
      D’altra parte prendo atto del fatto che il Santo Padre si è riferito anche al diritto del perdono presso Dio. Non nego assolutamente che il Papa abbia affermato questo diritto presso Dio. Però il mio intento è stato comunque quello di illustrare il valore di questo diritto, per cui di fatto io ho sviluppato quello stesso che il Papa aveva detto.

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  5. Peraltro, anche se restringessimo le parole del Papa ai soli rapporti tra esseri umani, se ci si accettasse alla lettera le parole di Francesco, si arriverebbe al paradosso che
    l’assassino che voglia chiedere il perdono ai familiari della sua vittima, anziché implorarli con parole come:
    “Sono pentito, immenso è il dolore che vi ho causato… ma vi prego, vi supplico in ginocchio… che possiate concedermi il vostro perdono”,
    questi potrebbe invece ritenersi autorizzato a dire ai familiari della sua vittima:
    “Sono pentito, e quindi voi siete obbligati a perdonarmi. E’ un mio diritto, lo ha detto il Papa”.

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    1. Caro Bruno,
      le sue osservazioni fanno veramente riflettere. Tuttavia io credo che si possa conciliare quel diritto, di cui ha parlato il Papa, con un opportuno atteggiamento di supplica, che mette in rilievo la gratuità del perdono.
      Infatti io credo che il dovere di perdonare, al quale corrisponde il diritto di essere perdonato, possa conciliarsi con il fatto che il perdonare è un donare, nel qual caso il dono dev’essere oggetto di richiesta o di supplica da parte di colui che, pentito, ha bisogno di essere perdonato.
      Come conciliare questo aspetto del diritto con quello della supplica? Io credo che dobbiamo metterci da due punti di vista diversi, nel senso che nel perdonare c’è un duplice aspetto: da una parte il dono, che è un atto d’amore, e in tal senso un atto gratuito; dall’altra parte la gratuità non viene tolta, in quanto noi nella richiesta o supplica di essere perdonati possiamo rintracciare l’atteggiamento di chi sa che il Signore ha comandato di perdonare: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Il che vuol dire che, una volta che abbiamo perdonato a chi ci ha offeso, possiamo presentarci a Dio quasi per esigere che Egli faccia ciò che ci ha promesso. Si tratta di una specie di patto tra noi e Dio e, come in ogni patto, al diritto corrisponde un dovere, da ambo le parti.
      Ma tutto ciò, da che cosa nasce? Dalla misericordia divina, nel senso che questa possibilità di esigere presso Dio è esattamente il frutto di quella misericordia divina, che in Cristo ci consente di meritare presso Dio, e quindi di essere perdonati. Infatti noi nel Credo diciamo che Cristo discese dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza.
      L’accenno che il Papa ha fatto al demonio si riferiva evidentemente a coloro che non si pentono, in quanto si legano al demonio. E’ evidente che in questo caso il peccatore non ha alcun diritto ad esigere il perdono.
      La conclusione è che l’assassino pentito, per potere esigere il perdono, deve essere pronto a scontare la pena e può valersi delle stesse parole di Cristo quando ci dice che dobbiamo perdonare a coloro che ci hanno offesi e sono pentiti, se noi a nostra volta vogliamo essere perdonati dei nostri peccati.

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  6. Caro Padre Giovanni,
    lei ha scritto:

    “Da notare che il proposito del figliol prodigo non è quello di chiedere perdono, ma di chiedere al padre di non considerarlo più figlio, ma servo. Tale atteggiamento, secondo i buonisti, denoterebbe poca fiducia nei confronti della misericordia del padre. E invece il figlio ci dà qui proprio l’esempio di come dobbiamo fare anche noi. Infatti, non siamo autorizzati a chiedere il perdono divino e non ne abbiamo alcun diritto senza prima assolvere al dovere o alla volontà di espiare il peccato.
    Così giustamente il figliol prodigo, mostrando senso di giustizia, non pensa ancora alla misericordia. E per questo non pensa di chiedere perdono, perché è la misericordia divina che rimette la colpa e la pena, benché essa possa rimettere solo la colpa ma esigere la pena, come avviene nella condotta ordinaria di Dio nei nostri confronti”.

    Dunque, lei dà un giudizio, che condivido pienamente, del tutto positivo e denotante senso di giustizia, dell’atteggiamento del figliuol prodigo, il quale non si sente autorizzato a chiedere il perdono, perché non ha ancora espiato e forse proprio il chiedere al padre di essere servo, manifesta la sua volontà di espiazione.

    E però non si può non rilevare che il Papa, nell’intervista, dice una frase che va in una direzione diversa:

    “Il papà del figliuol prodigo aspettava il figlio per perdonarlo, e il figlio aveva il diritto di essere perdonato, ma lui non lo sapeva, per questo dubitava tanto”.

    In queste parole il Papa non esprime apprezzamento per l’atteggiamento del figlio, lo riduce ad un “dubitare tanto” a causa della sua ignoranza sul diritto a essere perdonati.

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    1. Caro Bruno,
      è possibile che il Papa con quel dubitare del figlio abbia inteso dire che il figlio dubitava di essere perdonato e che non immaginava di avere un diritto ad essere perdonato, diritto fondato sul fatto che il padre aveva già deciso di perdonarlo qualora fosse tornato pentito.

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  7. A proposito di frasi di Papa Francesco che talvolta lasciano stupiti, se non addirittura sconcertati…

    Il Venerabile Papa Pio XII, nell’enciclica “MYSTICI CORPORIS CHRISTI”
    (https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/encyclicals/documents/hf_p-xii_enc_29061943_mystici-corporis-christi.html), afferma:

    “In realtà, tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che ricevettero il lavacro della rigenerazione, e professando la vera fede, non si separarono da se stessi, disgraziatamente, dalla compagine di questo corpo, e non ne furono separati dalla legittima autorità per gravissime colpe commesse. "Poiché, dice l’Apostolo, in un solo spirito siamo stati battezzati tutti noi, per essere un solo corpo, o giudei o gentili, o servi, o liberi" (I Cor. 12, 13). Come dunque nel vero ceto dei fedeli si ha un sol corpo, un solo Spirito, un solo Signore e un solo Battesimo, così non si può avere che una sola fede (cfr. Eph. 4, 5): sicché chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come pagano e pubblicano (cfr. Matth. 18, 17). Pertanto quelli che son tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere nell’unità di tale corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito. […]
    Infatti si deve attribuire all’infinita misericordia del nostro Salvatore il non negare ora un posto nel suo mistico corpo a coloro ai quali già non negò un posto nel convito (cfr. Matth. 9, 11; Marc. 11, 16; Luc. 15, 2).
    Poiché non ogni delitto commesso, per quanto grave, è tale che di sua natura (come lo scisma, l’eresia, l’apostasia) separi l’uomo dal corpo della Chiesa”.

    Dunque, eretici, apostati e scismatici, secondo questo documento magisteriale, non possono essere in comunione con la Chiesa, non possono essere nella comunione dei santi.

    Ebbene, Papa Francesco, durante l’udienza del mercoledì 2 febbraio scorso (https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2022/documents/20220202-udienza-generale.html), dedicata a San Giuseppe e alla comunione dei santi, ha pronunciato la seguente frase:

    “Padre, pensiamo a coloro che hanno rinnegato la fede, che sono degli apostati, che sono i persecutori della Chiesa, che hanno rinnegato il loro battesimo: anche questi sono a casa?”. Sì, anche questi, anche i bestemmiatori, tutti. Siamo fratelli: questa è la comunione dei santi”.

    Come si concilia questa affermazione di Papa Francesco, con quanto sopra riportato dalla “Mistici Corporis Christi” di Pio XII?
    Come possono gli apostati far parte della comunione dei santi?

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    1. Caro Bruno,
      indubbiamente tra le parole di Pio XII e quelle di Papa Francesco si nota una differenza, che secondo me è bene non accentuare troppo, perché è evidente che Papa Francesco, anche se non l’ha detto esplicitamente, riconoscerà che coloro che sono apostati o eretici o scismatici non possono fruire della comunione ecclesiale, come pure dovremo ammettere che Pio XII, da grande Papa quale fu, era pronto a fare tutto il possibile per accogliere nella Chiesa coloro che si trovavano in uno stato di ribellione.
      Per quanto poi riguarda Papa Francesco, penso che sia significativo il riferimento alla “casa”, quasi per significare che quei peccatori ai quali fa riferimento si trovano tra di noi, il che non vuol dire necessariamente che fruiscano della comunione dei santi, ma che però tuttavia, se hanno buona volontà, possono ricevere l’influsso benefico che emana dalla comunione dei santi.
      Al riguardo dobbiamo ricordare che tra Pio XII e Papa Francesco c’è stato il Concilio Vaticano II, il quale, pur mantenendo i concetti di scisma, eresia ed apostasia, ha compiuto, come è noto, un grande sforzo di avvicinamento nei confronti dei nemici della Chiesa ed ha ad essi offerto il perdono e la pace. Per esempio i Protestanti vengono considerati dal Concilio in una comunione imperfetta o non piena nei confronti della Chiesa Cattolica, mentre prima si diceva semplicemente che sono al di fuori della Chiesa.

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    2. Questo punto richiama una questione cruciale nella Chiesa di tutti i tempi, e forse particolarmente oggi: tenuto per assolutissimamente certo e incontrovertibile che lo Spirito Santo non può contraddirsi nel tempo, sino a che punto un Papa o un Concilio possono reinterpretare un dogma proclamato o riconfermato da un precedente Papa o Concilio?

      In che termini e fino a che punto si può parlare di “evoluzione del dogma”?

      La dottrina tradizionale afferma che vi può essere evoluzione solo nel senso che la verità venga ancor meglio approfondita. Ma quest’approfondimento deve avvenire senza alterare il senso del dogma, ovvero secondo lo stesso significato e secondo la stessa sentenza o dichiarazione (eodem sensu eademque sententia), perché ciò che è stato sancito come vero, con la garanzia che viene da Cristo, rimane sempre vero (Quod semel verum, semper verum).

      Ma poi, per citare un caso storico, un conto è l’approfondimento che il beato John Henry Newman ritenne di dover fare sullo “sviluppo della dottrina”, ben altro l’uso che modernisti come George Tyrrell e Alfred Loisy fecero di quella stessa espressione, pretendendo di rifarsi allo stesso Newman.

      Insomma, il confine tra evoluzione giusta e cambiamento modernista, del dogma, mi sembra oggi, sempre più labile…
      E’ un tema enorme, e forse più che un commento di risposta meriterebbe una serie di corposi articoli…

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    3. Caro Bruno,
      il tema che lei tocca è effettivamente di enorme importanza e costituisce la questione gnoseologica fondamentale, che fu posta dal modernismo all’epoca di San Pio X. È il problema se la verità può mutare. Il Papa Pio X lo esclude con la massima energia nella famosa Enciclica Pascendi.
      Certamente il tema è così importante che si potrebbe elaborare un ponderoso trattato. Un’opera classica in questo campo è il trattato del Padre Domenicano spagnolo Marin-Sola del 1963:
      - http://www.arpato.org/studi.htm
      - http://www.arpato.org/testi/studi/Marin-Sola-1-132.pdf
      Anche il Padre Congar ne ha parlato.
      Il criterio di San Vincenzo di Lerino va sempre bene.
      L’espressione “evoluzione del dogma” dev’essere rettamente intesa. Non è che evolva il contenuto del dogma. Infatti il contenuto è sempre quello, come ha detto Nostro Signore: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Ciò che invece evolve, ovvero progredisce, è la conoscenza di quella data Parola di Dio o di quel dato dogma o di un certo dato della Rivelazione.
      L’opera da fare, la quale viene svolta in maniera determinante dal Magistero pontificio e conciliare, con l’assistenza dello Spirito Santo, è quella di capire sempre meglio e sempre più a fondo ciò che Cristo ci ha insegnato. Si tratta di esplicitare l’implicito; di dedurre conclusioni da premesse di fede; interpretare i passi difficili della Bibbia e della Tradizione; di collegare in modo ordinato le diverse verità di fede, in modo da creare un sistema unitario e armonioso attorno alle verità fondamentali.
      Inoltre si tratta di vedere sempre meglio il rapporto del dato di fede con la ragione, con la scienza e con la filosofia. Tutte queste operazioni sono di competenza della teologia, la quale, con le sue ricerche e con le sue conclusioni, offre al Magistero la possibilità di esprimere un giudizio definitivo, che viene codificato nel dogma oppure anche in un nuovo articolo di fede. Da ciò consegue che la negazione del dogma comporta quel peccato contro la fede, che si chiama eresia.
      Per quanto riguarda la questione della reinterpretazione, il termine è piuttosto equivoco. Esso è stato diffuso soprattutto da Schillebeeckx e da Rahner, i quali la intendono come mutamento di concetti, credendo in tal modo di salvare il significato fondamentale del dogma, che per loro è atematico.
      Stando così le cose si capisce perché è un termine equivoco. Infatti il concetto dogmatico non può mutare, altrimenti muta il contenuto del dogma. Tuttavia può essere migliorato, nel senso di farci capire meglio il medesimo contenuto. Questo è ciò che Papa Benedetto XVI ha chiamato “progresso nella continuità”. Se per reinterpretazione intendiamo questo, ben venga la reinterpretazione.
      La teoria di Newman è piuttosto interessante, perché fa il paragone con la crescita di una pianta. Per esempio, una quercia è già presente nel seme, però il seme non è la pianta cresciuta: c’è una grossa differenza. Ebbene, questa differenza può in qualche modo rappresentare la differenza, per esempio esistente, tra la cristologia del V secolo e quella di oggi. Cristo è sempre quello: ieri, oggi e domani. Eppure la Chiesa, nel corso dei secoli, lo conosce sempre meglio.
      Quindi, ciò che evolve e migliora non è Cristo e la verità che egli ci ha insegnato, ma la nostra conoscenza di Cristo. Veritas Domini manet in aeternum.

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