La premozione fisica nel rapporto fra grazia e libero arbitrio. Un testo di Tomas Tyn.


La premozione fisica nel rapporto fra grazia e libero arbitrio
Un testo di Tomas Tyn

                                    Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, quelli sono figli di Dio
                                                                                                               Rm 8,15
                                               Dio suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni
                                                                                                                             Fil 2, 12-13

Un tema difficile, ma di grande attualità

Pensiamo di far opera utile al lettore pubblicare un ampio stralcio di un manoscritto inedito del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, che aveva preparato per la tesi di licenza in teologia presso lo Studio Domenicano di Bologna nei primi anni ’70. Questo lungo brano non è entrato nel testo definitivo della tesi, ma crediamo che esso sia utile per comprendere, col famoso concetto bañeziano della «premozione fisica», come funziona l’azione della grazia sulla volontà umana nel processo della giustificazione.

L’espressione nasconde in se stessa un alto valore teologico, di grande attualità, ma  occorrerebbe a mio avviso cambiarla per rendere più accessibile il concetto che intende significare, benché il Padre Bañez l’avesse elaborata con somma cura ed esistano da allora molti commenti che la spiegano. Quello di Padre Tomas è uno di questi.

Possiamo dire subito che il termine «premozione» ha la sua giustificazione nel fatto che abbiamo qui una duplice mozione: Dio muove la volontà umana a muovere se stessa. Quanto al termine «fisica», esso appare infelice più che mai oggi, allorchè, se parliamo di «fisica», tutti pensano alla moderna Fisica sperimentale o al mondo fisico, che invece qui non c’entrano per nulla.

Come mai il Padre Bañez ha introdotto questo termine? Per contrapporre, come usava allora, il «fisico» al «morale». Allora il termine «fisica» aveva un significato ontologico più accentuato di quanto non lo abbia la fisica moderna, perché si rifaceva alla Fisica aristotelica, che non conosceva ancora la scienza dei fenomeni di tipo galileiano-kantiano, ma era una  trattazione filosofica dell’ente sensibile e mobile, quella disciplina che oggi si chiama «cosmologia» o «filosofia della natura».

Con questo termine il Bañez intendeva sottolineare il fatto che Dio muove la volontà dell’uomo non in senso semplicemente «morale», come potrebbe fare un uomo, proponendo al libero arbitrio dell’altro un dato fine da raggiungere, fine che l’altro ha la possibilità e resta libero di attuare o non attuare, indipendentemente dalla proposta fatta, e che, se attua o raggiunge quel fine, lo fa non perché mosso dal proponente, ma perché muove stesso con un atto di libera scelta.

Invece Dio, causa prima efficiente, creatore, giusto e misericordioso, motore primo provvidente di tutte le cose, materiali e spirituali, naturali o volontarie, libere o necessarie, compresi quindi gli atti psicologici – non necessariamente morali - della volontà umana, quando muove il volere umano ad agire, per cui passa dal poter agire all’agire in atto o all’atto di agire, l’effetto di questa mozione non può non verificarsi, si tratti di un atto moralmente buono o malvagio.

Tuttavia, bisogna fare attenzione che l’effetto non può non verificarsi non perché Dio tolga all’atto il fatto di essere effetto dell’automozione propria del libero arbitrio, trattando quell’atto come se fosse al livello degli agenti fisici o animali, privi de libero arbitrio. Ma l’effetto non può non verificarsi, perché Dio è onnipotente, per cui tutto quello che vuole, si compie infallibilmente, quando, quanto, così e come lo vuole, secondo la modalità di azione propria dell’agente da Lui mosso. Per questo, se l’agente creato è libero, l’agente agisce liberamente; se è deterministico, come gli agenti della natura fisica, agisce deterministicamente.

L’agente libero, mosso da Dio, in modo necessario, non perde la sua libertà, ma, al contrario, agisce necessariamente in modo libero, perché Dio stesso è il creatore della libertà degli atti umani, che è una libertà creata, finita e relativa. Solo quella divina è libertà assoluta, increata ed infinita.

Che significa, dunque, che Dio «muove» la nostra volontà? Come intendere questo muovere? Non si tratterà certo di un muovere in senso fisico, giacchè Dio non è un agente materiale, benché muova materia e spirito. Sarà dunque un muovere in senso spirituale. Ora è importante tener presente che lo spirito muove in senso più alto e più perfetto della materia. Lo spirito agisce sullo spirito. Solo il libero muove il libero, se lo muove. Solo Dio cambia i cuori. La materia non è capace di ciò. Lo spirito è un’energia immensamente superiore alle energie della materia.

Il filosofo che si accorse del fatto che Dio muove senza essere mosso, come è noto, è Aristotele, col suo famoso concetto del «motore immobile» (kinùn akìneton). Aristotele, però, non giunse a comprendere che Dio non muove solo l’universo fisico, ma anche la volontà dell’uomo. Ebbe qualche barlume, come del resto Platone, quando parlò dell’ispirazione divina dei veggenti.

Aristotele, nell’Etica e nella Politica, aveva capito che l’uomo può muovere un altro uomo mediante il comando e la persuasione, con la promessa del premio o la minaccia del castigo; ma sapeva altrettanto bene che l’uomo, dotato di libero arbitrio, può vanificare o cassare la mozione proveniente dall’altro uomo. Quello che non giunse a comprendere, era la possibilità che Dio muovesse l’uomo al bene eterno infallibilmente, senza che l’uomo facesse opposizione. Era, questa, quella che i teologi cattolici, 19 secoli dopo, avrebbero chiamato «premozione fisica». 

Difatti, l’umanità è giunta a sapere che Dio muove lo spirito dell’uomo alla salvezza eterna soltanto dalla rivelazione biblica, e sotto due aspetti. Il primo è la una mozione o grazia efficace, alla quale segue immancabilmente la libera adesione alla grazia da parte dell’uomo, la liberazione dal peccato e l’accesso alla grazia, ossia la giustificazione. Il secondo è una mozione o grazia sufficiente, ma  inefficace[1], annullata dall’opposizione colpevole dell’uomo, cioè dal peccato. Così si spiega il fatto che non tutti si salvano: perché, benché Dio offra a tutti i mezzi sufficienti per salvarsi, alcuni per colpa loro li rifiutano.

La premozione fisica è l’azione divina, con la quale Dio sceglie gli eletti in modo misterioso, imperscrutabile ed insindacabile, ma giustissimo e senza rinunciare alla misericordia[2]. Questa scelta degli eletti, ossia dei giustificati e salvati (cf Rm 8,28-30), è l’attuazione di quello che il Concilio di Trento chiama «arcano mistero della predestinazione» (Denz.1540). Soltanto agli eletti Dio dà la grazia efficace e li premuove alla salvezza eterna.
C’è da notare, inoltre, che il termine «fisico», usato dal Bañez, si prestava all’equivoco e favoriva l’obiezione dei molinisti, che accusavano i tomisti di concepire la causalità o mozione divina dell’atto umano in modo materialmente meccanicistico ed estremamente umiliante per il libero arbitrio umano, come se si trattasse di muovere una sedia o un tavolo o come se il libero arbitrio fosse schiavo della predestinazione divina, senza alcun merito o responsabilità, come già avevano pensato Lutero e Calvino.

Credo che Bañez avrebbe fatto meglio a escogitare un’altra espressione, pur lasciando intatto il concetto, che è preziosissimo e verissimo, perfettamente tomista e cattolico, come vedremo dalla dotta esposizione del Padre Tyn. Io avrei suggerito un’espressione più biblica, desunta da S.Paolo: «MOZIONE SPIRITUALE», perché è proprio di questo che si tratta: dell’azione o mozione dello Spirito Santo nei confronti della volontà umana, come risulta chiaramente dal passo paolino del motto sotto il titolo dell’articolo. È vero che anche l’azione, con la quale un uomo induce un altro a pensare o a volere o a fare qualcosa, è una mozione spirituale. Ma bastava precisare aggiungendo l’aggettivo «infallibile» e tutto, secondo me, si chiariva.

Si tratta di quello stesso aggettivo, messo al sostantivo,  che il Concilio Vaticano I adopera nella famosa definizione dell’infallibilità del magistero pontificio. Il Concilio, infatti, parla dell’«assistenza divina» dello Spirito Santo, grazie alla quale il Papa, «quando parla ex cathedra, ossia, quando, esercitando la sua suprema autorità apostolica, definisce una dottrina che dev’essere tenuta da tutta la Chiesa, grazie all’assistenza divina a lui promessa nel Beato Pietro, si vale di quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle istruita la sua Chiesa, nel definire la dottrina concernente la fede e i costumi» (Denz.3074).

Ora, è evidente che qui, direbbe il Padre Bañez, siamo davanti ad una speciale premozione fisica, ossia la grazia petrina o magisteriale dello Spirito Santo muove infallibilmente la volontà e l’intelletto del Papa ad accogliere, capire, definire, e proclamare la verità della fede. E da ciò si capisce quanto stolte sono state le accuse che mi sono state fatte da alcuni, avversari del magistero di Papa Francesco, di concepire questa azione dello Spirito come se fosse un’opera di «magia». Questo vuol dire non sapere né che cosa è la magia, né che cosa è il carisma petrino.

Quanto all’accusa di magia, non val neppure la pena di fermarsi. Diciamo invece, a proposito del carisma petrino, per il quale il Papa, nelle dovute condizioni[3], svolge pubblicamente ed ufficialmente il suo ministero di maestro della fede, che è una grazia alla quale la volontà del Papa non può resistere; non però perché perda il suo libero arbitrio, cosa impossibile, ma proprio perché il suo libero arbitrio è reso perfetto nella scelta della verità. In tal modo la grazia produce sempre il suo effetto, muovendo il suo libero arbitrio nel senso voluto dallo Spiriti Santo. Qui la grazia svolge una vera propria specialissima premozione fisica, riservata solo al Vicario di Cristo.

Per esprimere l’elevatezza di questo atto della mente del Papa, il paragone può esser niente meno che quello o della perseveranza finale o della visione di Dio dei beati, con la differenza che mentre qui la premozione dura per tutta l’eternità ed ha per oggetto e fine Dio stesso visto «faccia a faccia», nel caso del Papa la premozione è limitata all’atto del magistero ed ha per oggetto Dio conosciuto nella fede.

Neppure la Madonna ha fruito di questo carisma di infallibilità dottrinale, che è esclusivamente proprio del Papa, come dottore della fede per tutta la Chiesa.  Anche Maria, infatti, fu soggetta al magistero di S. Pietro ed è il modello supremo dell’obbedienza al Papa.

Per questo, è impossibile che possa darsi un Papa formalmente, esplicitamente  ed intenzionalmente eretico.  Il Papa può errare come dottore privato o nelle altre scienze, a meno che, come in filosofia, non vi sia una connessione col dogma. Il Papa, invece, è dotato, come tutti i comuni fedeli, della grazia santificante, ma può perderla, peccando in tutte le altre virtù.

Altro ambito ecclesiale, dove ancor oggi la questione della premozione fisica si mostra di sommo interesse, è quello che concerne il dialogo ecumenico con i luterani sulla questione della giustificazione. C’è innanzitutto da rilevare con dispiacere che nella Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione del 1999 non si fa parola del libero arbitrio, quando avrebbe dovuto essere la prima cosa da mettere in chiaro.

Nell’unico passo dove si accenna alla «libertà» (n.19), trapela l’idea luterana che il libero arbitrio va bene solo per gli affari del mondo, ma non serve ai fini della salvezza e si fa passare per «cattolica» questa falsa idea.  Tutte le volte poi che si accenna al merito, sembra che lo si voglia escludere (cf. nn.15, 19, 25, 39).

Si ribadiscono poi le supertrite affermazioni, che sentiamo da 500 anni, «che l’uomo è incapace di collaborare alla propria salvezza» (n.21) e si «nega ogni possibilità di un contributo proprio dell’uomo alla sua giustificazione» (ibid.). «La giustificazione è svincolata dalla cooperazione umana» (n.23); «la grazia della giustificazione è indipendente dalla cooperazione umana» (n.24). La grazia giustifica «incondizionatamente» (n.28).

Si parla bensì di un «amore attivo mediante lo Spirito Santo» (nn.22, 24), un «amore operoso» (n.25); senza però ulteriori precisazioni. Si tratta della cooperazione alla grazia? Non è detto.

E poi di nuovo: «la grazia esclude ogni contributo alla giustificazione, di cui l’uomo potrebbe vantarsi davanti a Dio» (Rm 3,27). Ma qui Paolo esclude il vanto del fariseo, che pretende di meritare presso Dio senza credere in Cristo. In realtà Paolo  parla molte volte del vanto di poter operare e soffrire in Cristo (Rm 15, 17;I Cor 15,31; II Cor 1,12.14; 5,12; 8,24; Gal 6,14).

E quando Paolo dice che l’uomo viene giustificato dalla fede nel Vangelo «indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,28), non vuol dire che per essere giustificati non occorrono le opere o che il giustificato è dispensato dall’obbedire alla legge, ma si riferisce alla pretesa farisaica – diremmo oggi massonica - di essere giusti davanti a Dio senza Cristo, con la sola obbedienza alla legge.

Un testo così sfuggente, opportunistico, reticente e deludente, con punti di contatto già arcinoti e idee luterane fatte passare per cattoliche, ci chiede più che mai, se vuol fare un ecumenismo fruttuoso, di elucidare seriamente la questione della giustificazione, e che venga messo francamente in luce il nodo del problema: il rapporto fra la grazia e il libero arbitrio.

Non dobbiamo pertanto temere di riprendere in mano, oggi, in clima di dialogo ecumenico, dopo più di quattro secoli di cammino della Chiesa e della teologia, i termini della famosa controversia De auxiliis della fine del sec.XVI. Disponiamo di nuove esperienze, di nuove acquisizioni, di nuovi punti di vista. La teologia scolastica ha progredito. Il Papa volle avocare a sé la questione. Ebbene, perché non fornirgli nuovi spunti?

Nel presente clima ecumenico, chi ci dice che i fratelli luterani non abbiano da dir qualcosa a noi cattolici? E perché non potrebbe esser giunto il momento che i luterani ascoltino le ragioni dei cattolici? Oggi i luterani sono più disposti ad apprezzare il libero arbitrio. Hanno abbandonato la tesi parossistica luterana che ogni atto del libero arbitrio è peccato mortale. Sono tornati a parlare della razionalità, della volontà, della scienza, della carità, dei doveri e diritti umani, del rispetto della legge  e  delle virtù.

Se si sono allontanati da Lutero ancora cattolico, questo è il campo della grazia, dove hanno abbandonato la dottrina della predestinazione, e quindi la distinzione fra gli eletti e i reprobi, in ciò d’accordo con i cattolici modernisti. Inoltre, per i neoluterani, eredi di Bultmann, non solo il cristiano, ma neppure Cristo espia. Eresia, condivisa dai modernisti, davanti alla quale Lutero si sarebbe sdegnato, egli che era il fautore della theologia Crucis.

Inoltre, il misericordismo senza castighi e senza espiazioni, che Lutero aveva applicato a se stesso e a suoi seguaci, mandando all’inferno il Papa con tutti i cattolici, oggi è stato allargato, con una forma di neoorigenismo a tempi brevi, all’intera umanità, atei compresi, corrotti e malfattori di ogni genere, con la convinzione rousseauiana che tutti, in fondo, molto in fondo (atematicamente) sono buoni e quindi con una allegra virata di 180° rispetto alla cupa concezione luterana del peccato originale. Il peccato è solo insuccesso, debolezza, fragilità o imperfezione. Tutti, quindi, sono in grazia e tutti sono perdonati e tutti si salvano.

Viene così meno uno dei motivi che suscitavano il problema del rapporto grazia-libero arbitrio: il fatto che alcuni sono eletti o predestinati, ma altri no. Come mai? Vuol dire che grazia e libero arbitrio non sempre vanno insieme. Invece nel neoluteranesimo iniziato da Schleiermacher e nel modernismo non interessa distinguere grazia e libero arbitrio, perché vanno sempre assieme, ed anzi la grazia non è altro che il vertice dell’autotrascendenza dell’uomo, di ogni uomo, libero di plasmare la propria essenza e il proprio essere.  Ma queste sono eresie. Da qui la necessità di riprendere il problema del rapporto tra grazia e libero arbitrio, per correggere questi errori e fare apparire la verità.

La dottrina della premozione fisica, che sottolinea l’iniziativa e il potere della grazia nell’opera della giustificazione, così da causare infallibilmente e necessariamente  l’atto del libero arbitrio, può avere qualche somiglianza con la dottrina luterana della giustificazione, che concepiva le opere come effetto necessario della grazia. E difatti, nel corso della controversia De auxiliis vi furono Gesuiti, che accusarono di luteranesimo i Domenicani e di non  riconoscere la libertà umana.

Non riuscivano a capire come la premozione fisica potesse salvare la libertà dell’arbitrio. Troppo presi da questa preoccupazione di salvaguardare il potere dell’uomo, i molinisti finivano per degradare il potere della grazia ad una specie di affare contrattuale, come se il problema della giustificazione si riducesse a un contratto tra un datore di lavoro e gli operai. Così rischiavano il pelagianesimo, che ben presto sarebbe risorto con la massoneria.

Padre Tyn spiega, col concetto della premozione fisica, che esplicita l’insegnamento del Concilio di Trento, e precorre il moderno ecumenismo, come si salva la trascendenza della prima causa, senza per questo cadere nella negazione luterana del libero arbitrio.

Testo di Tomas Tyn
Sulla premozione fisica [4]

Che cosa è anzitutto la premozione fisica?

1.     La premozione fisica è un’entità viale ricevuta nella causa seconda che non la costituisce in atto primo come avviene in altre cause strumentali, ma la applica all’atto secondo[5].

Ogni essenza come principio di operazione è una natura dotata di capacità operative connaturali con un essere fermamente e propriamente radicato (“ratum”) nell’essenza stessa. Ciò che Dio opera nelle cose attuandole e facendole così operare è come un’“intenzione”, un’entità non fine a se stessa, ma tendente a qualcos’altro, un essere incompleto, transeunte, viale perché è “via” all’azione come suo termine. Questa entità viale è la forza strumentale, che non è radicata nell’essenza delle cose, ma ivi ricevuta in un modo transitorio per elevarla ad una azione superiore rispetto alle proporzioni naturali  dell’essenza stessa.
Come ad uno strumento non può essere dato di agire senza essere mosso dall’arte per mezzo dell’artefice, così alle cose finite non può essere data la capacità di produrre l’essere del loro effetto senza ricevere una mozione previa e simultanea dalla causa prima.
Le cause seconde sono perciò premosse fisicamente da Dio che le applica all’azione come la causa principale applica all’atto secondo lo strumento. Mentre però lo strumento, oltre all’applicazione, deve essere costituito in atto primo, le cause seconde sono già in atto primo e vengono solo applicate all’atto secondo dalla premozione divina,[6] la quale poi è continuata nella mozione simultanea[7]. Infatti le cause seconde hanno capacità operativa proporzionata rispetto all’essenza del proprio effetto, ma esercitano causalità strumentale rispetto al suo essere.
 
2.     La premozione fisica è determinante, ma non necessitante e raggiunge immediatamente l’effetto.

Bisogna distinguere tra determinazione e necessitazione. La prima riguarda l’attuazione dell’effetto; l’atto infatti è determinato e determinante; la seconda riguarda il modo di procedere dell’effetto dalla sua causa efficiente. Ora, la premozione determina l’effetto nel suo atto entitativo, che ne è la determinazione ultima e perfetta; non riguarda però il modo di procedere dell’effetto dalla causa seconda, applicandola all’azione produttrice dell’effetto, secondo il modo della causa stessa. 
Perciò si deve dire che[8] è determinante, anzi predeterminante, in quanto congloba nel suo atto tutta l’azione della causa seconda fino al suo termine, che è l’attuazione entitativa dell’effetto, ma non si può dire che sia necessitante perché l’effetto stesso procede dalla causa seconda secondo la sua determinazione ontologica (essenza propria) ed operativa (potenza attiva propria)[9].
L’effetto procede dalla causa prima e da quella seconda come da un unico principio attivo, in quanto la causa seconda è subordinata nella sua azione propria come propria all’azione della causa prima, che la coinvolge secondo tutta la sua entità e secondo tutta l’entità della sua operazione. L’essere infatti, principio di dipendenza, è la stessa attualità dell’essenza, principio di relativa autonomia.
La stessa indipendenza operativa della causa seconda è coinvolta nella dipendenza dalla causa prima. La premozione divina raggiunge quindi l’effetto con immediazione di virtù, in quanto non agisce in nessun’altra virtù, ma anche con immediazione di supposito[10], in quanto coinvolge la mozione intermedia[11] di tutti i suppositi delle cause seconde mediatrici.[12] Quanto più grande è la mozione divina, tanto più consistente è anche la stessa proprietà dell’azione creata.             
 
3.     Dio premuove fisicamente la libertà.

            Vi è un duplice modo di parlare della volontà e del volontario rispetto alla natura. Infatti, la volontà libera si distingue dalle cause naturali sul piano operativo, in quanto la sua forma come principio di azione non è determinata, ma indifferente rispetto ad una molteplicità di scelte alternative; invece sul piano entitativo la volontà coincide con la natura, fa parte della natura, perché la sua forma sotto l’aspetto ontologico è ben determinata tanto come atto formale quanto come atto entitativo. Sul piano dell’essere la volontà è una natura e come ogni entità finita ha bisogno di essere applicata all’azione per mezzo della premozione fisica della causa prima.
Se non fosse così, si dovrebbe dire con Sartre che la libertà è un “vuoto di essere”, opinione assurda in quanto riduce l’essere alle cose non umane ed in un antropocentrismo esagerato stacca l’uomo dall’ordine degli enti isolandolo completamente dal resto della realtà, dalla quale emergerebbe  nella sua ek-sistenza.[13] E’ perciò erroneo voler interpretare San Tommaso in chiave antropocentrica assoluta. Il suo antropocentrismo è conglobato sempre dal cosmo e dal teocentrismo.  
La volontà libera quindi appartiene alla natura, ma ne emerge in quanto ha una mozione particolare, in quanto cioè non è determinata ad unum, né ha il principio di determinazione al di fuori di se stessa, ma nella sua indifferenza determina se stessa dal di dentro muovendosi alla scelta concreta di un tale fine raggiungibile con tali mezzi.
            Ora l’autocinesi della volontà non costituisce un ostacolo alla sua premozione da parte di Dio, in quanto la premozione premuove la causa seconda secondo il suo modo operativo proprio e quindi premuove la causa libera alla mozione di se stessa e da se stessa[14]. L’indifferenza della causa libera non costituisce l’ostacolo per la premozione fisica, che riguarda l’applicazione all’azione e non la modalità della processione dell’effetto dalla causa, anche se pure quest’ultima vi è coinvolta.[15]
        Anzi, la stessa indeterminazione[16] della volontà libera pone un’ulteriore esigenza di premozione, la quale però, attuando l’indeterminazione passiva[17], determina la potenza all’atto; ma l’atto stesso consiste nell’indifferenza attuale; la volontà fisicamente attuata e determinata rimane in questo atto stesso intenzionalmente indeterminata e autocinetica.
Se le altre cause naturali hanno bisogno della premozione non perché imperfette, ma proprio perché in grado di produrre un effetto proprio, tanto più (a fortiori) la volontà umana libera, che è causa perfettissima in quanto capace di muovere se stessa, in quanto contenente in sè il principio della sua azione, avrà bisogno della premozione.
Ne avrà poi bisogno tanto sul piano naturale, quanto sul piano soprannaturale della grazia attuale, che aggiunge alla premozione fisica naturale una mozione soprannaturale in vista della produzione di un effetto soprannaturale[18] e quindi superiore alla natura e alla capacità operativa della causa libera finita, tanto sotto l’aspetto dell’essere quanto sotto l’aspetto dell’essenza dell’effetto.[19] 
 
4.     Sintesi della dottrina di San Tommaso sulla premozione fisica

a) S.Tommaso afferma la necessità che la volontà sia mossa al suo atto in quanto non è in atto continuo, ma inizia un atto concreto e questo inizio suppone un passaggio dalla potenza all’atto, quindi un’attuazione;[20]

b) si dà la mozione intrinseca della volontà libera da parte di Dio e di Dio solo, in quanto, come appetito intellettivo, è ordinata al bene universale e quindi sul piano della causalità efficiente prima corrispondente all’ordine della causalità finale può essere mossa solo dal principio, universale che è Dio;[21]

c) la mozione da parte di Dio attua la volontà fisicamente nella sua stessa indifferenza.[22]

d) Tutte le cause seconde, compresa quella volontaria e libera, sono premosse da Dio, che ne applica l’atto primo all’atto secondo rispettando e premovendo in questa stessa azione di premozione il modo proprio del procedere dell’effetto dalla sua causa prossima.

e) San Tommaso afferma la differenza tra Dio e la causa creata nell’unità di un’unica azione. L’azione divina è analogica; agisce sulla causa seconda e allo stesso tempo la fa agire secondo la sua propria natura. La differenza è avvolta nell’unità analogica. Tra causa prima e seconda vi è differenza, ma non opposizione[23].

5.     L’analogicità a livello operativo. La subordinazione delle cause seconde rispetto alla causa prima, la loro dipendenza da essa e la loro relativa autonomia.

Esaminiamo ora quali sono le conseguenze dell’ontologia tomista per la filosofia dell’azione causale. San Tommaso parte come da presupposto accertato da una stretta corrispondenza tra l’essere e l’agire. Ogni ente è principio di azione ed agisce secondo il suo modo di essere: “agere sequitur esse”. Questo ovviamente non significa che l’azione segua con necessità all’essere, cioè che ogni ente sia necessariamente anche attualmente operante, ma si esprime con questo assioma comunemente accettato la possibilità che ogni essere ha di agire e la modalità dell’azione che segue quella dell’essere.
In qualche modo essere principio di azione è una perfezione coestensiva con l’ente e quindi trascendentale. San Tommaso lo afferma esplicitamente parlando del “bonum”: “Bonum autem omne est alicuius aliquo modo causa”.[24] Il bene agisce soprattutto come un fine, ma le cause si completano a vicenda nella loro causalità (ad invicem sunt causae) e quindi si può senz’altro dire che ogni bene e quindi ogni ente in qualche modo è principio di azione. Infatti tutto ciò che si trova nella realtà o è causa oppure anche un effetto causato. Questo è necessario a causa dell’ordine che vi è tra le cose, il quale si fonda appunto sulla causalità.
Ogni ente quindi è in qualche modo causa e può anche essere causato (quest’ultima proprietà di essere termine passivo dell’azione causale non è trascendentale, in quanto l’Ente di per sè sussistente non è causato, ma solo causante) ed essere causa o principio di azione procedente dall’agente; e in quanto è agente, si può considerare come coestensivo con l’ente.
San Tommaso infatti, parlando delle sostanze separate, dice che ogni realtà o è causa o è causata e poi continua applicando questo principio alle “intelligentiae” dicendo che anche loro o sono cause (e questo in ogni caso) o sono anche (“aut etiam”) causate.[25] Ad ogni realtà come tale spetta quindi questa proprietà di poter essere causa attivamente. Ora, abbiamo potuto constatare che la struttura dell’ente era analogica. Se perciò l’azione segue l’ente, anche a livello operativo dovremmo ritrovare una struttura simile.
San Tommaso afferma con energia una relativa autonomia operativa degli enti limitati, finiti, creati, cioè delle cause seconde, come ne ha sottolineato anche l’autonomia entitativa. E’ l’essenza infatti che è all’origine dell’azione causale per quanto riguarda la sua modalità, il suo essere tale, e come principio di azione l’essenza si chiama “natura”. Ora, l’essenza è la forma propria di ogni cosa e perciò ogni cosa agisce secondo l’esigenza della sua forma, che è il principio dell’agire e la regola dell’operare”.[26]
Bisogna sottolineare le parole “secundum exigentiam suae formae”, cioè in virtù della sua forma, che è propria ad ogni ente e ne costituisce quindi una certa proprietà e consistenza ontologica, lo fa essere appunto ciò che è. Ma come l’essenza è il fondamento dell’essere proprio ad ogni realtà, così ne è, come natura, il garante dell’autonomia operativa riguardo al proprio effetto.
Il modo di agire segue il modo di essere. Vi è quindi sempre una stretta corrispondenza tra l’aspetto ontologico e l’aspetto operativo. E’ così che si distingue la causa per se da una causa per accidens. Le sostanze sono cause per se e causate per se, gli accidenti non lo sono per se, ma come inerenti a tale soggetto sostanziale e perciò anche la loro azione è accidentale. La causa per se produce l’effetto secondo la sua forma propria in un modo tale che l’effetto sia il fine inteso dalla causa (questa “intentio finis” sarà ovviamente diversa nelle cause naturali, animate ed inanimate, e nelle cause volontarie).
Se invece un effetto secondario accompagna l’effetto primario, la sua produzione è per accidens: “Per se quidem est causa alterius quod secundum virtutem suae naturae vel formae producit effectum; unde sequitur quod effectus sit per se intentus a causa ... Per accidens autem aliquid est causa alterius, si sit causa removendo prohibens: sicut dicitur in VIII Physicorum quod divellens columnam, per accidens movet lapidem columnae superpositum”.[27] In un altro modo si dice per accidens una coincidenza di cause non ordinate tra di loro. Un tale effetto infatti non si presenta come unico e quindi neanche come un ente nel senso pieno della parola. Perciò non si può dire che abbia una causa vera e propria, ma, rispetto alle cause prossime dei due effetti che casualmente coincidono, non si può parlare di causalità e l’effetto considerato sotto l’aspetto della coincidenza è casuale e contingente.
Come tale non ha una causa propria prossima, ma siccome l’intelletto considera la stessa coincidenza nell’effetto per modum unius, l’effetto contingente può e deve essere riferito alla causa prima, che ordina tutte le cose con somma sapienza. Così anche i contingenti, pur non avendo una causa prossima, procedono secondo un ordine preciso dalla causa remota, cioè dalla causa prima, riguardo alla quale non sono più contingenti, ma in qualche modo necessari e quindi sottoposti alla provvidenza divina.[28]
Da tutto ciò risulta chiaramente una corrispondenza tra l’essere e l’azione; ogni cosa ha una causa in quanto è; in quanto invece si presenta come realtà disparata e quindi non unica né pienamente ente, allora non avrà una causa propria come non è neanche una realtà nel senso proprio del termine.
Le cause sono ordinate tra di loro. Soprattutto si può costatare in ogni azione il concorso simultaneo delle quattro cause per produrre un unico effetto. L’agente efficiente intende come fine l’impressione di una forma in un soggetto recettivo. Ma anche le singole cause efficienti sono in un ordine preciso tra di loro e siccome la loro azione è determinata specificamente dai fini, l’ordine delle cause finali corrisponderà esattamente all’ordine degli agenti efficienti.[29]   
L’effetto procede dall’agente secondo la forma dell’agente e perciò la forma dell’effetto presenta una somiglianza con la forma della causa efficiente. La causa formale stabilisce quindi un legame tra l’agente e l’effetto ed è secondo l’ordine delle forme che si deve intendere l’ordine degli agenti efficienti, i quali producono l’effetto inteso come fine proprio secondo la loro forma o essenza. Ora, le essenze hanno un ordine secondo la loro universalità ed è così che vi sono degli agenti più o meno universali e comuni secondo l’universalità della loro forma, secondo il loro grado di essere e di perfezione.
Se dunque ogni agente produce un effetto di forma simile (“omne agens agit sibi simile”), l’agente di forma più universale e più “alta” produrrà un effetto più universale e più alto. La causa ontologicamente più consistente sarà più efficace e la causa più universale avrà un’estensione maggiore nel suo effetto. L’efficacia è fondata sulla partecipazione dell’atto dell’essere da parte dell’essenza; l’estensione è data dall’essenza stessa in quanto partecipa l’essere[30]. Il primo aspetto sottolinea l’esistenzialità, il secondo l’essenzialità dell’ente e della sua azione, ma l’essere appartiene sempre ad una data essenza e tale essenza è sempre partecipazione all’atto di essere in lei ricevuto. I due aspetti sono quindi complementari: più universale è la forma essenziale, più partecipa all’essere; più esteso è l’effetto, più efficace è la sua produzione.[31]
L’universalità dell’effetto secondo l’essenza suppone una causa più universale, la quale poi a livello di efficacia, proprio a causa della sua universalità, domina sul piano dell’essere delle realtà più singolari e più potenziali. L’estensione e l’efficacia sono legate tra di loro; l’universalità è strettamente collegata con la penetrazione efficace nei singoli. Anche qui l’azione causale dipende dall’essere; essendo l’essere ordinato secondo gradi di partecipazione, anche l’agire causale presenta un ordine preciso secondo l’universalità della causa e la sua efficacia nell’azione.
Abbiamo potuto constatare che vi è una corrispondenza tra l’essere e l’agire; ora, se l’essere comune si realizza analogicamente nei singoli enti e se tra Dio, come Ente infinito di per sè sussistente, e le creature vi è un ordine di proporzionalità, anche tra l’azione di Dio come causa prima e l’azione delle creature quali cause seconde vi dovrebbe essere un’analogia. Come infatti gli enti partecipano dell’essere pienamente realizzato in Dio, così anche gli agenti finiti partecipano analogicamente dell’azione dell’agente primo ed infinito.
Dio nel suo agire non è causa né univoca né equivoca, ma analogica, così come il suo essere è partecipato analogicamente dalle creature distinto secondo le forme essenziali proprie, unite secondo la partecipazione dell’essere in gradi ovviamente diversi. San Tommaso, parlando della causalità divina, elenca tre modi di azione causale: l’azione equivoca, quando l’effetto e la causa non hanno niente in comune, né il nome, né il contenuto ontologico (ratio); l’azione univoca, quando l’effetto corrisponde alla causa e secondo il nome e secondo l’essere; ed infine l’azione causale analogica, fondata su di una corrispondenza del nome con l’essere secondo un ordine di prima e poi (per prius et posterius), cioè secondo una proporzione.[32] Come vi è un rapporto analogico tra l’ente di per sè sussistente e l’ente per partecipazione sul piano ontologico, così vi è un rapporto analogico tra l’azione della Causa prima e quella delle cause seconde.
L’analogia dell’ente è fondata sulla differenza ontologica, cioè sulla diversa partecipazione delle diverse essenze all’unico atto di essere. Ora, nella sua azione la causa prima produce come proprio effetto l’essere, tanto immediatamente nella creazione, quanto mediante l’azione delle cause seconde nella generazione, nel movimento e qualsiasi altro cambiamento. Le cause seconde agiscono in virtù della causa prima, come l’essenza è in virtù della sua partecipazione all’essere.
L’essere dell’effetto prodotto da una causa seconda non è il suo effetto proprio e deve essere attribuito a Dio non solo come causa principale, ma anche come alla causa propria, mentre l’azione della causa seconda rispetto all’atto dell’essere dell’effetto è soltanto strumentale. Infatti, come l’essenza restringe l’essere all’esser tale, così l’azione strumentale della causa seconda restringe e limita l’azione della causa prima facendo sì che l’essere dell’effetto, prodotto di per sè dalla causa prima, sia un esser tale e non l’essere simpliciter.
L’occasionalismo, che insegna che le cause seconde non hanno un’azione propria, è sbagliato, perché rispetto all’essenza dell’effetto la causa seconda è causa propria e non puramente strumentale. San Tommaso dice che la posizione occasionalistica, che attribuisce tutte le azioni immediatamente a Dio, svuotando le cause seconde di attività propria, è stolta, in quanto toglie l’ordine del cosmo e l’azione propria delle creature, e contraddice manifestamente il giudizio dei sensi. Altrettanto erronea è però la posizione opposta, che pensa di poter attribuire alle cause seconde un’indipendenza operativa assoluta, in modo tale che Dio avrebbe creato le prime essenze con le loro facoltà operative e queste continuerebbero poi ad agire per conto loro indipendentemente da Dio.
La sentenza giusta è quella che afferma la creazione immediata di certe realtà, che non possono essere prodotte mediante cause seconde (le sostanze separate, i corpi celesti, dotati nella cosmologia medievale di forme dominanti perfettamente la materia e quindi incorruttibili, le prime sostanze), ma ribadisce anche l’azione propria delle cause seconde, sostenute però nel loro agire dall’influsso della causalità divina. Dio infatti dà alle cose il loro essere, che le cause seconde restringono e determinano. La sua azione nelle cose è perciò intima rispetto all’essenza stessa dell’effetto, in quanto l’essere è intimamente legato all’essenza.[33]
L’azione divina opera nelle cose non solo intimamente, ma anche efficacissimamente. Infatti la causalità prima imprime con maggior veemenza la propria forma nell’effetto dandogli il suo essere. E’ così che ogni entità come tale si deve attribuire principalmente alla causa prima; invece i difetti di entità e di perfezione derivano da una mancanza nella causalità della causa seconda.
E’ per questo che l’influsso della causa prima può rimanere, anche quando la causa seconda ha sospeso la sua azione (infatti anche dopo che il processo del divenire è arrivato al compimento, la causa prima continua a mantenere l’effetto nel suo essere). E’ in questo modo che si spiega come nell’uomo il processo della generazione si limita alla produzione del corpo, mentre l’anima è creata soltanto da Dio.[34] Il principio fondamentale è questo: siccome l’essere è intimo alle cose, l’azione di Dio, che porta all’essere, agisce intimamente nell’azione delle cause seconde applicandole all’atto secondo e quindi alla produzione del loro effetto.
Come poi l’essenza dipende dall’essere, così anche l’azione delle cause seconde dipende dall’azione della causa prima e come l’essere avvolge in qualche modo l’essenza, così l’influsso della causa prima coinvolge in sé tutta l’azione della causa seconda. Come però l’essere non toglie l’essere tale dell’essenza, così anche la mozione della causa prima non toglie, ma promuove l’agire proprio delle cause seconde. E’ in questo senso che le cause seconde dipendono dall’azione della causa prima: “in omnibus causis ordinatis effectus plus dependet a causa prima quam a causa secunda, quia causa secunda non agit nisi in virtute primae causae”.[35]
La relativa indipendenza operativa è data dalla relativa autonomia ontologica dell’essenza, ma l’essenza e l’essere intimamente legati tra loro formano un unico ente e perciò ogni entità dell’effetto si deve attribuire totalmente e principalmente alla causa prima, notando però che l’essere dell’effetto è prodotto dalla causa seconda solo strumentalmente.
Mentre la sua essenza procede dalla causa seconda come dalla sua causa propria, l’azione considerata globalmente come un tutto viene però sempre dalla causa prima e nessuna entità si può sottrarre al suo influsso. Solo un difetto di entità esula dall’ordine della causa prima.[36] Tutta l’entità dell’effetto si deve perciò ricondurre all’azione divina, anche se diversamente per l’essere e per l’essenza.
Ora, San Tommaso non si stanca mai di ripetere che l’azione propria delle cause seconde non deroga in nessun modo all’efficacia dell’azione divina, la quale non solo le conserva passivamente nel loro modo proprio di agire, ma le promuove efficacemente alla stessa azione propria ed è in questa  azione causale propria delle cause seconde che si rivela massimamente la bontà, la sapienza e anche l’onnipotenza di Dio.[37] Infatti è più grande poter comunicare ad una cosa oltre all’essere in atto primo, anche l’essere in atto secondo, cioè l’operazione propria secondo la proprietà della forma.
Tra la causa prima e la causa seconda non vi è un rapporto di opposizione, ma quanto più le cause seconde dipendono da Dio, tanto più agiscono in virtù della forma propria e più “indipendente” è la loro forma propria come essenza, più dipende da Dio come esistenza.

Riassumiamo quindi la nostra tesi nel modo seguente.

L’ontologia tomista nella sua concezione analogica dell’ente è portata ad affermare un simile rapporto analogico tra l’azione della causa prima e quella delle cause seconde. In virtù di questa analogia “operativa” l’effetto è prodotto dalla causa prima mediante le cause seconde come da un’unica causa, nella cui causalità l’azione delle cause seconde dipende totalmente da Dio, ma proprio questa dipendenza permette a livello della forma essenziale propria un’azione propria della stessa causa seconda.
 
6.     La causalità delle cause seconde, la ragione e la volontà. La libertà degli atti umani[38] . Il libero arbitrio e l’influsso divino.

            L’anima con la sua parte vegetativa, sensitiva e intellettiva e le loro rispettive potenze operative è un’unica forma sostanziale dell’uomo. Le singole potenze sono distinte dall’essenza dell’anima e tra di loro. Se infatti le facoltà dell’anima fossero la stessa  sua essenza, l’anima potrebbe operare per essenza sua e così chiunque avesse l’anima avrebbe anche le sue singole operazioni in atto.
            Ora l’esperienza comune ci insegna che le operazioni dell’anima sono un passaggio dalla potenza all’atto. L’essenza dell’anima è quindi atto in quanto è la forma sostanziale dell’uomo, ma è in potenza rispetto alle singole operazioni attuali; è l’atto primo ordinato all’atto secondo, in quanto è soggetto delle singole facoltà e delle loro operazioni. Un altro motivo della distinzione delle potenze dell’anima dall’essenza del loro soggetto è la loro relazione all’oggetto, che è sempre o un accidente o una sostanza, che però viene prodotta in modo accidentale.
            L’essenza dell’anima perciò non è attiva in un modo essenziale, ma in un modo accidentale, servendosi cioè di principi operativi accidentali.[39] La relazione all’oggetto specifica inoltre le potenze e quindi secondo la formale diversità degli oggetti vi è anche una reale diversità delle potenze dell’anima.
            Le potenze però sono anche ordinate tra di loro secondo un ordine di perfezione e quelle più alte sono come fine e principio attivo di quelle inferiori.[40] Si tratta di una partecipazione, nella quale la parte suprema dell’ordine inferiore e la parte infima dell’ordine superiore si accostano l’una all’altra.
            L’anima umana, il cui oggetto di conoscenza è l’ente, è aperta all’ente come ente astraendo dalle sue differenze. Come la mano è lo strumento degli strumenti potendo appunto muoverli tutti, così l’anima umana è quasi come forma di tutte le forme, perché le può ricevere tutte. L’intelletto è “pieno di forme” proprio perché nessuna è in lui come forma individuale, ma solo come universale e perciò lo attua in un modo tale, da lasciarlo in potenza a tutte le altre forme. L’anima è aperta ad ogni ente ed è per questo che l’adeguazione dell’ente all’anima, che è la verità, è un concetto trascendentale e coestensivo con l’ente secundum totam rationem entis. In questo senso si dice che l’anima è “quodammodo omnia” o che l’intelletto è “quo est omnia fieri”.[41] 
            La volontà è una tendenza che segue l’intelletto ed è perciò giustamente chiamata “appetitus intellectivus”. La sua libertà consiste nel dominio che la volontà ha sul suo atto potendo scegliere e quindi determinare l’ultimo giudizio pratico della ragione, che a sua volta è determinante per l’esecuzione di un’azione concreta.
            Il fatto della libertà si può constatare a posteriori dalla responsabilità morale, che si manifesta nell’esortazione spontanea a fare il bene ed evitare il male: un segno che vi sono delle azioni libere, cioè tali che il loro principio è perfettamente in noi.[42] Ma il motivo vero e proprio, per cui la volontà è libera sta nell’apertura dell’intelletto. Infatti l’appetito  sensitivo che segue una conoscenza determinata ad una sola cosa non può essere libero; l’appetito intellettivo invece, seguendo l’intelletto aperto a una pluralità di forme intenzionalmente presenti  (“ratio est collectiva plurium”) è mossa da oggetti diversi e non da uno solo e con necessità[43] ).
            Il potere che la volontà ha sul proprio atto è quello di scegliere tra alternative contradditorie (affirmatio-negatio), il che non significa però che consista essenzialmente nella capacità di scegliere tra il bene e il male, tanto da parte dell’oggetto specificante, quanto da parte dell’esercizio dell’atto (operari-non operari) e perciò è una vera e propria libertà di indifferenza. “Indifferenter se habens ad multa”.[44]
            La libertà di indifferenza riguarda però tutti i fini particolari ed inadeguati e anche il fine ultimo proposto dalla ragione nel modo corrispondente alla sua perfezione. Tale fine è proprio e naturale della volontà, che allora si muove verso di lui con un moto naturale; ma essendo la sua natura appunto quella di “essere volontà”, il moto, anche se naturale e in qualche modo necessario, sarà volontario ed esente da ogni coazione.[45] Si tratterà perciò di un moto spontaneo, ma non più dotato di indifferenza attuale, che caratterizza la libertà degli atti umani perfetti e di cui la volontà gode rispetto a qualsiasi bene limitato, sia in se stesso, sia nel modo in cui viene proposto dall’intelletto.
            Tutte le cause seconde, compresa quella libera, hanno bisogno della premozione fisica, da parte di Dio per passare dall’atto primo all’atto secondo. In quanto ogni atto è determinante, si può parlare anche di una vera e propria predeterminazione. San Tommaso, pur non usando esplicitamente la terminologia della “premozione fisica”, ne conosce il significato e ne insegna la necessità senza possibilità di equivoci. Infatti, ogni produzione di un essere esige l’intervento della causa prima, unica causa proporzionata riguardo a un tale effetto. Ora, l’azione delle cause seconde produce in qualche modo l’essere. E’ quindi necessario che Dio intervenga nelle operazioni delle cause create.[46]
            Riguardo all’essere, la causalità seconda è sempre ed esclusivamente strumentale. Ogni cosa naturale ha una sua forma propria, ma per produrre un’azione ha bisogno, per quanto riguarda l’essere dell’effetto, di una partecipazione transitoria della virtù divina[47], che la applica all’operazione propria della sua forma. Altrimenti infatti la causa creata dovrebbe avere in sè il principio universale dell’essere.[48]
            Ora, questo è impossibile, perché così la sua essenza sarebbe identica all’esistenza e non si tratterebbe più di un ente per partecipazione, ma di un ente per sè sussistente, il che è una proprietà dell’essere divino. Ovviamente Dio non è una causa estrinseca, ma la sua azione è intima rispetto alle cause seconde nelle quali agisce. Infatti l’effetto della sua azione, che è la produzione dell’essere, è intimo ad ogni cosa, perché è la forma delle forme. Ma ogni cosa è quel che è proprio per la sua forma, che le è perciò intima.[49] 
            Ma l’essere è anche l’effetto universalissimo e perciò l’azione divina si estende a “tutto l’ente con tutte le sue differenze”.[50] Anche la libertà è sottomessa al principio della causalità e quindi alla premozione fisica da parte di Dio. Infatti la libertà è il dominio attuale del proprio atto e sotto questo aspetto è un muoversi da se stesso. Ma come quando una cosa muove un’altra non è necessario che ne sia la causa prima, così anche non è necessario che la volontà sia la causa prima del proprio moto.
            La mozione della causa prima, che agisce sulle cause seconde rispetta però la loro natura e le fa quindi operare secondo la loro indole propria: le cause naturali in un modo naturale, quelle volontarie in un modo proprio della volontà.[51] Anche la volontà libera è soggetto di premozione fisica e quindi uno strumento rispetto alla produzione dell’essere nel suo effetto. Ogni agente mosso è, in virtù dello stesso principio di causalità, mosso da un altro, indipendentemente dalla natura dell’agente, se si tratta di un agente che ha il principio del proprio moto in sé o al di fuori di sé. La libertà non contraddice quindi alla strumentalità della volontà nella mozione divina.[52] 
            Dio, essendo la causa dell’essere in ogni ente, non può essere la causa di una mancanza di essere, cioè di un difetto. Il difetto proviene perciò esclusivamente da un’operazione deficiente della causa seconda. Soprattutto il male morale, cioè il peccato, è il risultato di un difetto (e il male è essenzialmente un difetto, essendo una privazione del bene e dell’essere dovuto) della volontà libera, che, in questo caso, è causa prima, non efficiente ma deficiente. Infatti tutto ciò che vi è in un’azione di ente e di buono, viene da Dio; il difetto ed il male vengono invece dalla causa seconda.[53]   
            Per fare il bene con prontezza, facilità e agilità, le potenze operative umane, che in qualche modo partecipano della libertà della volontà, debbono essere perfezionate da abiti operativi buoni, dalle virtù. Le virtù si distinguono non solo secondo la diversità del loro soggetto, ma soprattutto secondo la diversità degli oggetti formali.
            Sono però unite tra di loro per mezzo della prudenza, che si incontra in ogni virtù come “recta ratio agibilium”, che dirige ogni singola virtù al suo fine proprio e viceversa non vi è prudenza, se non sono presenti anche le altre virtù, in quanto la perfezione della ragion pratica presuppone quella delle altre potenze.[54] A livello soprannaturale le virtù sono connesse tra di loro per mezzo della carità, che le ordina al fine ultimo soprannaturale e ne è quasi come la forma.
            I principi estrinseci del cammino dell’uomo verso Dio sono la legge, che ci istruisce e la grazia[55], che ci conforta, ci aiuta e ci eleva a livello soprannaturale. La legge si definisce come una “ordinatio rationis” oppure “dictamen rationis” in vista del bene comune, promulgata da colui che è a capo di una società. Tutte le leggi sono buone in quanto partecipano della legge eterna, che è la “ordinatio rationis” in Dio come sovrano dell’Universo, la quale è perciò la stessa essenza di Dio. Nella creazione Dio lascia una traccia della sua bontà e per mezzo della finalità, che Egli conferisce ad ogni essere rivela la sua volontà, promulga in qualche modo la sua “ordinatio rationis” e si ha così la legge naturale.  
            La legge divina positiva è invece dovuta ad una rivelazione in senso stretto: nell’Antico Testamento c’era solo la legge come precetto; nel Nuovo Testamento la stessa legge contiene in sé la grazia come il principio della sua realizzazione spontanea ed agevole da parte dell’umanità redenta in Cristo. Anche le leggi umane sono buone, se sono fondate sulla legge naturale e se ordinano verso un bene comune, che è sempre un bonum honestum e non verso un bene particolare utile o piacevole di un uomo o un gruppo di uomini al governo di una società.[56] Se la legge corrisponde a tutti questi requisiti, allora si può dire che è buona e che aiuta gli uomini a vivere una vita virtuosa.
            Anche la grazia è un principio “estrinseco”[57]. Si trova ovviamente nella stessa anima umana come una qualità, un principio di operazione soprannaturale, ma è “estrinseca” in quanto viene da Dio per libera e gratuita donazione, in quanto è superiore a qualsiasi esigenza naturale dell’uomo e perciò in nessun modo dovuta alla medesima.
            Ora, anche nell’azione causale soprannaturale da parte di Dio, che è l’azione della grazia attuale, vale il principio che si verifica in ogni mozione della causa prima nelle cause seconde e cioè il rispetto, che Dio ha per la natura propria di ogni creatura - l’opera della redenzione e della santificazione non contraddice in nessun modo l’opera della creazione - “gratia naturam non tollit, sed supponit et  perficit”.
            Infatti la grazia, sia abituale[58] che attuale[59], sia come qualità che come azione soprannaturale che l’uomo riceve, è sempre accidentale rispetto alla natura e quindi la suppone e la perfeziona nel suo ordine elevandola poi ad un ordine superiore. E’ per questo che nella giustificazione l’infusione della grazia giustificante ha come effetto immediato una mozione del libero arbitrio, che si stacca dal peccato per progredire verso Dio ed ottenere così la remissione dei peccati con il dono della grazia santificante.
            Anche quando la giustificazione si realizza nell’ambito del sacramento della penitenza, le opere del penitente, che sono veri atti umani, sono richieste come “materia sacramenti”.[60] La mozione divina sia naturale che elevata per la grazia all’ordine soprannaturale rispetta sempre l’autonomia propria della causa seconda e la muove all’atto corrispondente alla sua stessa natura.  
            L’epistemologia trasparente, realistica, di San Tommaso gli consente di cogliere l’analogia dell’ente e l’indipendenza relativa dell’essenza nella dipendenza assoluta dell’essere per quanto riguarda l’ente creato. Così anche la causalità a livello strettamente operativo ribadisce la dipendenza dalla causa prima, la quale però rispetta e promuove l’azione propria delle cause seconde. Questo principio rimane valido anche per quanto riguarda la causa libera, tanto nella sua premozione fisica nell’ordine naturale, quanto nella sua azione sotto l’influsso della grazia attuale nell’ordine soprannaturale.         

 7.     L’automozione della volontà e il libero arbitrio

1) La volontà si muove 
     o perché mossa dall’oggetto esterno o da se stessa.[61]

La volontà può essere mossa o dall’oggetto che si trova al di fuori e il cui influsso pertanto non è fisico, ma morale (a modo di persuasione) oppure da se stessa, dalla sua stessa “virtus volendi” e questa mozione è interna, fisica, in linea di causalità efficiente. Solo il bene universale la muove sufficientemente da parte dell’oggetto, perché solo un tale bene è l’oggetto adeguato dell’appetito razionale aperto all’universalità del fine come fine. Anche il moto interno di questa potenza dell’anima deve provenire dal primo agente, dato l’ordine della volontà all’ultimo fine e la necessità che l’agente corrisponda al fine come appunto al fine ultimo corrisponde l’agente primo che è Dio[62].
Il mutamento (“immutatio”) sufficiente da parte dell’oggetto può essere causato solo da Dio ed anche da parte della potenza volitiva stessa. Solo Dio è in grado di muoverla efficacemente in quanto è Egli stesso che l’ha creata e la ordina al suo oggetto proprio dotandone l’anima come soggetto dell’appetito razionale. Così solo Dio opera intimamente nelle forme naturali, in quanto le ha create, le ha date alle rispettive creature, le ha dotate di un’inclinazione naturale propria ed analogicamente è solo Dio che può dal di dentro muovere la volontà, in quanto la pone nell’esistenza, la fa inerire nell’anima come nel suo soggetto, le dà la sua inclinazione tanto naturale quanto volontaria.

            Pertanto il moto della volontà si può dividere così rispetto alle sue cause:
Ø dall’agente interno[63] (= causa efficiente)
Ø dall’agente esterno:
-   dall’oggetto[64] (= fine)
-   dalla parte inferiore dell’anima umana, cioè dalle passioni che in qualche modo influiscono sulla volontà, anche se in genere le facoltà superiori hanno un dominio su di loro, il quale, pur essendo indiretto, rimane efficace.

L’agente agisce per la sua forma e per conseguenza ogni cosa si muove in forza di quell’agente, che la riduce dalla potenza all’atto. Ora, la volontà si attua in forza dell’appetibile che quieta il suo desiderio. Il suo oggetto proprio è perciò il fine ultimo che è Dio, il quale quieta perfettamente e sotto tutti gli aspetti il desiderio della volontà. E’ così che Dio è l’unico oggetto adeguato dell’appetito razionale ed è anche l’unico agente capace di muoverlo in linea di causalità efficiente[65], in quanto ciò che è ordinato per natura sua all’ultimo fine può essere per natura sua mosso solo dal primo agente.

            Dall’interno[66] si possono considerare tre moti della volontà in quanto è mossa da una causa differente da essa stessa:
a)    Moto per violenza o coazione: distruggerebbe la stessa natura della volontà e perciò si deve escludere come contradditorio. Nemmeno Dio può agire così sulla volontà non perché limitato nella sua potenza attiva, ma perché l’effetto, implicando una contraddizione, è oggettivamente non-fattibile.
b)    Moto per inclinazione interna necessaria (spontaneità): solo Dio può inclinare in questo modo la volontà muovendola dal di dentro[67], rispettando la sua natura, ma facendola aderire ad un fine determinato in una maniera efficacissima ed irresistibile. La sua azione sarebbe allora allo stesso tempo “soave e forte”.
c)     Moto per inclinazione probabile: anche una creatura (ad es., la passione della parte inferiore dell’anima) può muovere così la volontà influendo su di essa, ma senza portarla necessariamente ad un determinato effetto.

2)   La volontà si muove in quanto è in atto rispetto al fine ed in potenza             rispetto ai mezzi ordinati al fine.[68]

Vi è un’analogia tra l’intelletto e la volontà: come l’intelletto riduce se stesso dalla potenza all’atto in quanto conoscendo i principi si muove alla conoscenza delle conclusioni, così la volontà, volendo il fine come suo oggetto principale, muove se stessa a volere i mezzi ordinati al fine.
Per quanto riguarda la specificazione dell’atto della volontà, questa avviene secondo la mozione che proviene dall’oggetto; per quanto invece riguarda l’esercizio dell’atto volitivo, è la stessa volontà che si muove da se stessa, ma questo “muoversi da se stessa” a sua volta deve essere mosso da un principio esterno[69].
In quanto la volontà comincia a volere o cessa di volere, passa dalla potenza all’atto e così ha bisogno di una causa esterna. Questo è il moto “fisico” della volontà.
In quanto la volontà, volendo il fine, riduce se stessa a volere anche i mezzi, allora essa muove se stessa. E questo è il moto “intenzionale” della volontà, che avviene mediante la conoscenza del fine e dei mezzi nel “consiglio” della ragione pratica.
Ora, la ragione pratica a sua volta è mossa dalla volontà. Infatti, l’atto umano è il risultato di reciproche mozioni della ragione e della volontà. In queste mozioni reciproche però non si può procedere all’infinito e quindi il primo atto della volontà con cui inizia il suo moto volitivo proviene da un agente esterno primo, che è Dio. All’interno di quest’atto, una volta iniziato, la volontà muove se stessa secondo un’interazione fra la deliberazione razionale e la scelta volontaria.
Come agente prossimo, la volontà muove se stessa nel suo ordine, non dando a sé il suo proprio atto, ma essendo già in atto rispetto al fine. Per quanto però riguarda l’atto stesso della volontà, considerata come attualità movente se stessa, questo atto, secondo la sua entità fisica, dev’essere causato dal primo agente come ogni altra causa seconda reale.
La volontà muove le altre potenze e così muove anche se stessa. S. Tommaso distingue bene tra la volontà come movente[70] e come mossa; è movente in quanto è in atto rispetto al fine, è mossa in quanto riduce se stessa dalla potenza all’atto rispetto alla scelta dei mezzi. Come la volontà comanda l’atto delle altre potenze, così elicita[71] il proprio atto e in qualche modo anche comanda il proprio atto secondo aspetti diversi.
Pensiamo perciò che vi sia un atto imperato della volontà stessa, così che la grazia operante[72] e cooperante[73] vi può essere nella stessa volizione: la prima rispetto all’atto elicito nel senso stretto, la seconda rispetto all’atto imperato tanto della volontà stessa quanto delle altre potenze, anche se generalmente S. Tommaso limita il termine di atto elicito a quello della volontà e quello di atto imperato alle altre potenze mosse da essa.
La volontà stessa, volendo il fine, si muove a volersi consigliare circa i mezzi. Il consiglio procede quindi dalla volontà, ma la stessa volontà, in quanto deliberata, è preceduta dal consiglio, il quale è una conoscenza non dimostrativa, ma aperta ad alternative diverse. Invece la volontà non viene privata della sua indifferenza rispetto all’oggetto propostole come bene particolare lasciando aperta la via ad altre considerazioni di altri aspetti particolari.
Che la volontà cominci il suo atto di volere il fine, dal quale poi procede immediatamente il volere consigliarsi circa i mezzi, questo non lo ha da se stessa, ma dall’agente esterno primo. Una volta iniziato l’atto di volizione, l’attuazione della volontà a volere i mezzi avviene immediatamente e dalla volontà stessa. Rimane pertanto ben distinta la parte movente (attualità intenzionale circa il fine) da quella mossa (la potenzialità riguardo alla scelta dei mezzi).
La stessa “automozione” della volontà come entità finita obbedisce al principio di causalità ed ha quindi bisogno di una premozione fisica da parte della causa prima. Infatti, il suo stesso atto si presenta come effetto di una causa esterna, ma questa dev’essere proporzionata all’effetto e quindi dev’essere superiore alla stessa natura razionale. E questa causa può essere solo Dio, creatore immediato delle sostanze spirituali e della stessa anima razionale dell’uomo.
                                  
3)   La volontà ha una mozione naturale in quanto è fondata sulla natura.[74]
                                  
Ciò che è dalla natura non è oggetto di volontà. L’abito è oggetto di volontà libera, perciò non è dalla natura. San Tommaso risponde a questa obiezione, che esclude abiti naturali distinguendo un duplice modo di parlare della natura.
La natura si distingue dalla volontà e dalla ragione in quanto una forma naturale causa un effetto determinato; la volontà invece è “ad utrumlibet”. Sotto questo aspetto la volontà “emerge” dalla natura, se per natura si intende una causa determinante.
La natura invece comprende anche la stessa volontà, in quanto significa un ente, una sostanza. Infatti, anche la volontà è un’entità, ha un’essenza precisa e quindi è una natura. È inoltre una proprietà dell’uomo,  in quanto fa parte della stessa natura umana. La volontà, sotto questo aspetto, è perciò natura e potenza naturale. La stessa volontà è una natura in quanto tutto ciò che si trova nelle cose (“omne quod in rebus invenitur”) è una natura. Nella volontà vi è pertanto e ciò che riguarda comunemente ogni natura e ciò che riguarda specificamente la volontà. Ogni natura è ordinata ad un bene e così anche la volontà ha un desiderio naturale del bene, che le conviene naturalmente.
Inoltre, però, vi è in essa anche un desiderio che è suo in quanto è volontà e in virtù del quale essa desidera il fine secondo la sua propria determinazione e non necessariamente (spontaneamente), ma liberamente (indifferentemente). Come poi la natura fonda la volontà, così il desiderio naturale è alla base del desiderio specificamente volontario e libero.
                       
4)   La libertà è il dominio e la potestà sul proprio atto riguardo a termini      opposti di un’alternativa.[75]
                       
L’atto proprio della libertà è la scelta, in quanto per mezzo della libertà possiamo accettare un bene rifiutando un altro. La scelta libera è aperta all’accettazione e al rifiuto e domina quindi l’alternativa proposta[76].
            La ragione è la radice del libero arbitrio in quanto l’atto dell’intelletto è aperto a molti concetti e quindi molte realtà da essi rappresentate secondo l’intenzione. La libertà che ne segue consiste quindi in un potere esteso a diverse cose considerate come beni o almeno considerabili come tali.
            L’azione segue la forma che ne è il principio e quindi, se la forma è insita nell’agente e non viene da lui stesso, l’agente non domina la sua azione. Ma se l’agente dà a sé la sua propria forma come principio operativo, allora avrà un dominio sull’operazione che ne procede. Così le forme naturali  sono totalmente dall’agente esterno e l’agente naturale non domina perciò in nessun modo il suo atto.  Le forme sensibili (sentite e immaginate, che fondano il giudizio immediato di estimazione sensibile)  sono ricevute nei sensi dagli oggetti sensibili e perciò il moto degli agenti animati di anima sensibile è un moto interno, in quanto il fine conosciuto porta ad un desiderio spontaneo che muove le membra del corpo ad agire, ma la mozione è ancora esterna, in quanto la forma attiva viene immediatamente dall’oggetto sensibile e dalla natura: il loro moto è per conseguenza spontaneo, ma necessario e quindi non perfettamente dominato dall’agente. Le forme intelligibili invece provengono dall’intelletto stesso, che concepisce la forma e la ricava da se stesso, come l’artefice escogita il progetto di una costruzione. Gli agenti dotati di intelletto muovono perciò se stessi all’operazione e la dominano.
Con questo San Tommaso non abbandona in nessun modo il suo realismo epistemologico: la forma intesa corrisponde alle realtà esterne e viene da esse, ma in modo tale che la ragione pratica domina i concetti dell’intelletto, che considera come buoni e operabili, essendo in grado di paragonarli, consigliarsi e deliberare al loro riguardo e fare quindi un progetto operativo pratico come si può fare un progetto operativo “poietico” o tecnico.
            Le cause causate dalla causa prima hanno un duplice rapporto alla loro causa: o hanno loro stesse la capacità di aderire o di allontanarsi rispetto ad essa o non hanno un potere simile. Le prime sono libere, le altre no. La libertà infatti è essenzialmente il potere di agire o di non agire.
In Dio non vi è consiglio che suppone una ragione discorsiva e quindi imperfetta, ma Dio è nondimeno perfettamente libero, in quanto è perfettamente padrone del suo atto, che determina egli stesso con sovrana potestà.
            La scelta del male non è essenziale alla libertà. Dio è libero in quanto può fare un tale bene o non farlo; non può però fare un male. La libertà è perciò nel poter fare o non fare un tale atto determinato prescindendo dalla sua bontà o malizia morale.
            Dio opera in tutte le cause seconde, anche nel libero arbitrio, ma nelle cause naturali dà la virtù operativa e l’applica all’azione determinandola; nella causa volontaria dà la virtù di agire in modo tale che per mezzo della sua operazione il libero arbitrio opera a sua volta, ma la determinazione dell’atto e del fine è nella potestà del libero arbitrio, in un modo però diverso da quello che è il dominio dell’atto della causa libera da parte di Dio. Infatti, Dio determina l’azione della causa libera muovendola assolutamente alla sua stessa autodeterminazione, mentre la causa libera muove se stessa solo in quanto è mossa da Dio.                       

5)   La radice della libertà è la ragione come causa, la volontà come                  soggetto.[77]
                                              
L’uomo è padrone dei suoi atti in quanto può deliberarli. La volontà è aperta “ad utrumque” proprio perché la ragione deliberante lascia aperta l’alternativa “ad opposita”. La ragione causa la libertà in quanto propone alla volontà diverse concezioni del bene, ma la volontà ne è il fondamento in quanto è suo soggetto. L’atto propriamente libero  è la scelta dei mezzi considerati come buoni e quindi la libertà è nell’appetito che tende al bene come al suo oggetto. Da qui la definizione della libertà come “liberum de voluntate iudicium”, citata talvolta da S. Tommaso anche come “liberum de ratione iudicium”.
            La ragione ha potestà sul proprio giudizio in quanto può giudicarlo, cioè in quanto riflette sul proprio atto. E sotto questo aspetto la ragione è la radice unica della libertà, perché fonda il dominio della volontà sul proprio atto.
            La volontà è radice della libertà come suo soggetto; la stessa volontà è essenzialmente libertà riguardo all’atto di scelta. Il giudizio libero sulla volontà non dice però che la volontà sia oggetto del giudizio, ma che la volontà è per natura sua libera riguardo alla scelta del giudizio pratico.
                                                  
6)   Il libero arbitrio è potenza identica alla volontà in quanto quest’ultima contiene in sé la virtù della ragione e perciò si dice facoltà della volontà e della ragione.[78]

Il libero arbitrio è la stessa facoltà della volontà per analogia con le potenze conoscitive. L’intelletto corrisponde alla volontà, la ragione alla libertà, ma l’intelletto e la ragione sono la stessa potenza e quindi anche la volontà e il libero arbitrio sono un’unica potenza.
            La libertà è connaturale alla volontà, che non ha bisogno di un abito per essere libera, ma lo è per sua stessa natura. L’abito inoltre inclina al bene, mentre la libertà è indifferente riguardo al bene e al male. Perciò non è un abito, ma una potenza.
            La libertà è dominio del proprio atto, ma questo è causato dalla ragione e dalla volontà e quindi la libertà è “quodammodo” facoltà della ragione e della volontà.
            La libertà però è diversamente potenza della ragione e della volontà. La ragione infatti non è principio dell’atto libero “simpliciter”, ma è principio del giudizio (arbitrium), mentre la volontà è principio “simpliciter” della libertà nel giudizio. Come la grammatica non è principio della linguaggio, ma della sua correttezza, così la ragione non è principio attivo del libero arbitrio, ma del suo giudicare. La libertà è perciò una facoltà della volontà, identica con essa, riguardo all’atto della scelta.
            La libertà si dice della volontà, ma in ordine alla ragione e non assolutamente; e per conseguenza, dicendo che è una facoltà della volontà e della ragione, la volontà e la ragione sono dette nella definizione[79] “in obliquo”[80] per significare il loro ordine reciproco; cioè la libertà è la volontà in quanto quest’ultima è ordinata alla ragione ed ha in sè la virtù giudicativa della ragione.
           
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 25 maggio 2019                     





[1] È quella che Maritain chiama motion brisable. Vedi il suo libro Dieu et la permission du mal, Desclée de Brouwer, Bruges 1963.  
[2] Anche nell’inferno è presente la misericordia di Dio. Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
[3] Vedi la Nota illustrativa della CDF aggiunta alla Lettera Apostolica di S.Giovanni Paolo II del 1998.
[4] Testo tratto dalla Bozza originale della Tesi di Dottorato "L'azione divina e la libertà umana nel processo della giustificazione secondo la dottrina di San Tommaso d'Aquino", testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli O.P.
[5] Atto primo è l’ente come tale; atto secondo è l’agire dell’ente. Nota mia.
[6] Cfr. GREDT, Elementa, II, p.246, n.839, 1.
[7] Simultanea, s’intende, all’azione della causa seconda simultanea all’azione della causa prima. Nota mia.
[8] L’azione della causa prima. Nota mia.
[9] Si tratta dell’atto proprio del libero arbitrio. Nota mia.
[10] Il supposito è il soggetto sussistente. Nota mia.
[11] La mozione intermedia è quella delle cause intermedie. Nota mia.
[12] Cfr. l’ottima esposizione in LAKEBRINK B., Klassische Metaphysik, Rombach, Freiburg Br., 1967, p.191: “die ‘causa secunda’ (verdankt) der ‘causa prima’ nicht nur Sein, d. h. ihre substantielle Wirklichkeit, nich nur ihr Wirkvermögen, sondern auch ihr Wigenwirken selbst”. Si deve invece scartare la prospettiva dialettica tra la dipendenza ontica e l’indipendenza  formale della causa seconda (soprattutto quella umana) rispetto a Dio, causa prima, sostenuta da  J. AUER, Das Evangelium der Gnade (Die neue Heilsordnung durch die Gnade Christi in seiner Kirche), Pustet, Regensburg, 1970, p.247. Per l’immediazione della premozione cfr. GREDT II, 250.
[13]  Cfr. LAKEBRINK, pp.199-201.
[14] Come spiega il Dummermuth, il termine “premozione” è giustificato dal fatto che abbiamo due mozioni: originariamente c’è la mozione divina che muove la volontà e la volontà che muove se stessa. Quindi Dio muove la volontà a muoversi. In tal senso la mozione divina è una premozione. Nota mia
[15]  Cfr. GREDT II, p.255, n. 844, 1; Card.P. PARENTE, De Creatione Universali, Marietti, Torino, 1962, II, p.117 e 119; VAN DER MEERSCH in DThC VI/2 col. 1671.
[16] E’ la possibilità della volontà di operare diverse scelte a seconda della decisione della stessa volontà, per cui in base alla sua decisione la volontà passa da uno stato di indeterminatezza ad uno stato di determinatezza che corrisponde alla scelta fatta. Nota mia.
[17] È la volontà in quanto passiva verso se stessa,perché essa agisce su stessa. Nota mia.
[18] Il merito soprannaturale. Nota mia.
[19]  Cfr. Reginaldus GARRIGOU-LAGRANGE, OP , De Gratia, Berruti, Torino, 1950, pp. 198-199.
[20]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 9, a.4 c.a.
[21]  Cfr. ibid. a.6. c.a.
12 Cfr. Summa Theologiae I-II, q.10 , a. 4 c.a.
[23]  Cfr. GARRIGOU-LAGRANGE, De Gratia, 206 con rif. nel n.1 a M.-J. SCHEEBEN, Handbuch der katholische Dogmatik, Herder, 1933, t. II, p.25 , n.61.                
[24]  Cfr. Contra Gentes III, 14, n.1971.
[25] Cfr. ibid. 107, n. 2823.
[26]  III Sent. d.27, q.1, a.1 c.a.: “Unumquodque autem agit secundum exigentiam suae formae, quae est principium agendi et regula operis”.
[27]  Summa Theologiae I -II, q.85, a. 5 c. a.
[28]  Summa Teologiae I, q.115, a.6 c.a.: “omne quod est per se, habet causam: quod autem est per accidens, non habet causam, quia non est vere ens, neque vere unum”. Cfr. ibid. q.116, a.1 c.a. Contra Gentes III, 86, n.2627: “non omne quod est quocumque modo, habet causam per se, sed solum ea, quae sunt per se; quae autem sunt per accidens, non habent aliquam causam; sicut quod sit musicum, habet aliquam causam in homine, quod autem homo sit simul albus et musicus, non habet aliquam causam”. Per il riferimento del contingente all’intelletto divino, cfr. In Perì Hermeneias I, l.14, nn. 188, 190, 191.
[29]  Contra Gentes III, 109, n.2844. 
[30] Quanto più una causa è universale, tanto più è  potente. Ma la sua potenza dipende dal fatto che partecipa ad un più alto atto d‘essere. Nota mia.
[31]  De Potentia q.3, a7 c.a.: “Quanto enim aliqua causa est altior, tanto est communior et efficacior, et quanto est efficacior, tanto profundius ingreditur in effectum, et de remotiori potentia ipsum reducit in actum”. Cfr. De veritate q.24, a.1 ad 4; Summa Theologiae I, q.104, a.2. c.a.; I-II, q.19, a. 4 c.a.; Contra Gentes II,16, n.935. In Metaphysicam VI, l.3, n.1205: “quanto aliqua causa est altior, tanto eius causalitas ad plura se estendit”. Cfr. Summa Theologiae I, q.65, a. 3 c.a.; Quodlibetales III, 6, q.3, a.1 c.a.       
[32] I Sent. 8, q.1, a. 2 c.a.: “Invenimus enim tres modos causae agentis, scil. causam aequivoce agentem, et hoc est quando effectus non convenit cum causa nec nomine nec ratione: sicut sol facit calorem qui non est calidus. Item causam univoce agentem, quando effectus convenit in nomine et ratione cum causa, sicut homo generat hominem, et calor facit calorem. Neutro istorum modorum Deus agit. (Non univoce), quia nihil univoce convenit cum ipso. Non aequivoce, cum effectus et causa aliquo modo conveniant in nomine et ratione secundum prius et posterius; sicut Deus sua sapientia facit nos sapientes, ita tamen quod sapientia nostra semper deficit a ratione sapientiae suae, sicut accidens a ratione entis secundum quod est substantia. Unde est tertius modus causae agentis analogice. Unde patet quod divinum esse producit esse creaturae in similitudine sui imperfecta: et ideo esse divinum dicitur esse omnium rerum, a quo omne esse creatum effective et exemplariter manat”. Cfr. IV Sent. d.1, q.1, a.4,q.la 4 sol.         
[33]  II Sent. d.1, q.1, a.4 c.a.: “creatura causa esse potest, vel ita quod habeat causalitatem supra totam speciem, sicut sol est causa in generatione hominis vel leonis; vel ita quod habeat causalitatem ad unum individuum speciei tantum, sicut homo generat hominem et ignis ignem. Horum tamen causa etiam Deus est, magis intime in eis operans, quam aliae causae moventes: quia ipse est dans esse rebus. Causae autem aliae sunt quasi determinantes illud esse”. Cfr. De Veritate q .5, a.9 ad 10; De Potentia, q.3, a.7 c.a; De substantiis separatis, c.14, n.122, ecc.
[34]  Cfr. IV Sent. d.12, q. 1, a. 1, q.la 1 sol.; Contra Gentes II 89, n.1749; De Potentia q 3, a.7, ad 15, ecc.
[35]  Summa Theologiae I-II, q.19, a.4 c.a.
[36]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q.79, a.1 ad 3: “effectus causae mediae procedens ab ea secundum quod subditur ordini causae primae, reducitur etiam in causam primam. Sed si procedat a causa media secundum quod exit ordinem causae primae, non reducitur in causam primam”. Cfr. ibid., a.2 c.a.
[37] Cfr. Summa Theologiae I, q.22, a.3 c.a.; q.103, a.6 c.a.; q.106, a.4 c.a.; I Sent. d.44, q.un., a.3 ad 4; IV Sent. d.24, q.1, a.1, q.la 1 sol.; De Veritate q.9, a.2 c.a.
[38] Sul tema della libertà ho raccolto e commentato alcuni brani dalle opere del Padre Tyn nel mio libro La liberazione della libertà. Il messaggio di P.Tomas Tyn ai giovani, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2008.
[39] Cfr. Summa Theologiae, I, q.77, a.1 c.a.; q.79, a.1 c.a; Quaest. Disp. De Anima, a.12 c.a. etc.
[40] Cfr. Summa Theologiae, I, q.77, a.7 c.a.
[41] Cfr. In De Anima III, 1ect.13, 787,790; Summa Theologiae, I, q.79, a.7 c.a.; Contra Gentes, II, 98, 1839; De Ver. q.1,a.1 c.a.
[42] In Eth. Nic., III, lect. 11, 504.
[43] Summa Theologiae, I, q.82, a.2 ad 3:“vis sensitiva non est vis collativa diversorum, sicut ratio, sed simpliciter aliquid unum apprehendit et ideo secundum illud unum determinate movet appetitum sensitivum. Sed ratio est collativa plurium: et ideo ex pluribus moveri potest appetitus intellectivus, scilicet voluntas, et non ex uno ex necessitate .
[44] Summa Theologiae, I-II, q.10, a.4 c.a.; In Eth. Nic. III, 1ect. 11, 497-498.
[45] Cfr. De Ver., q.22, a.5. c.a.   
[46] Contra Gentes III, 67, 2415: “Deus causa est omnibus operantibus ut operentur. Omne enim operans est aliquo modo causa essendi, vel secundum esse substantiale, vel accidentale. Nihil autem est causa essendi nisi inquantum agit in virtute Dei”.
[47] È appunto questa la premozione fisica. Nota mia.
[48] Cfr. De Pot. q.3, a. 7 ad 7m.
[49] Cfr. Summa Theologiae, I, q.105, a.5 c.a.
[50] In Peri Hermeneias I, l.14, § 22, 197.
[51] Cfr. De Malo q.3, a.2 ad 4; Summa Theologiae I, q.83, a.1 ad 3; De Pot. q.3, a.7 ad 13: “voluntas dicitur habere dominium sui actus non per exclusionem causae primae, sed quia causa prima non ita agit in voluntate ut eam de necessitate ad unum determinet sicut determinat naturam; et ideo determinatio actus relinquitur in potestate rationis et voluntatis”.
[52] Cfr. De Verit. q.24, a.1 ad 5. 
[53] Cfr. Summa Theologiae q.49, a. 2 ad 2; I-II, q.79, a. 2 c.a.
[54] Cfr. Summa Theologiae I- II, q.65, a. 2 c.a.
[55] Quindi, per essere giustificati e salvi, occorre obbedire alla legge e corrispondere alla grazia. La premozione fisica ci fa obbedire alla legge liberamente e ci dona la grazia. Nota mia.
[56] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.92, a.1 c. a.
[57] È la grazia di Cristo, quindi, se vogliamo, una «gratia aliena» (Lutero), che però Cristo dona noi, per cui diventa nostra. Per questo, se la grazia è sostanziale in Cristo, diventa una qualità o accidente della nostra anima.
[58] La grazia come habitus dell’anima: la grazia santificante.
[59] È la grazia in quanto atto divino che conduce alla grazia santificante.
[60] Cfr. Summa Theologiae I-I I, q. 113, a.3 c.a. Per il sacramento cfr. III, q.86, a.6 c.a.
[61]  Cfr. Summa Theologiae I, q.105, a.4 c.a.; q.106, a.2 c. a.; q.111, a.2 c.a.; Contra Gentes III 88, n.2639; De Verit. q.22, a.9 c.a.
[62] Ciò non vuol dire che l’uomo non abbia la possibilità, in forza del suo libero arbitrio, di scegliere come fine ultimo concreto se stesso o la creatura al posto di Dio. Nota mia.
[63] Dio è agente interno in quanto dall’interno della volontà la muove a muovere se stessa; ma è anche agente esterno e trascendente, in quanto come causa prima crea la stessa volontà e quindi crea e muove l’atto stesso col quale la volontà muove se stessa. Nota mia.
[64] L’oggetto può essere o il fine ultimo, cioè Dio, o un fine intermedio, e cioè una creatura. Nota mia.
[65] Unico agente che causa efficientemente, perché invece la creatura può causare solo in senso morale mediante la persuasione o il comando. Nota mia.
[66] Della volontà.  Nota mia.
[67] Ecco la premozione fisica. Nota mia.
[68]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q.9, aa.3 e 4; De Malo q.6 c.a.; ad 20; Contra Gentes III 89, 2651.
[69] Perché questa automozione è atto di un’energia finita e causata, appunto la volontà; e pertanto dev’essere causata dall’esterno,cioè da Dio. Nota mia
[70] Motrice. Nota mia.
[71] Compie, emette. Dal latino elicere. Nota mia.
[72] È la grazia che opera prima che entri in funzione il libero arbitrio. È detta anche preveniente. È il principio della premozione fisica. Nota mia.. 
[73] È la grazia, che opera in concomitanza con l’operare del libero arbitrio già in grazia e lo sostiene nell’operazione. Nota mia.
[74]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q.10, a.1 ad 1; q.51, a.1 arg.1 e ad 1; De Verit. q.22, a.5 c.a.       
[75]  Cfr. Summa Theologiae I, q.83, a.3 c.a.; De Malo q.16, a.5 c.a.; Contra Gentes II 47, n.1239; II Sent. d.23, q.1, a.1 c.a.; d.24, q.1, a.1 ad 1; d.25, q.1 , a.1 ad 1; ad 2; ad 3.
[76] Questa definizione del libero arbitrio lo considera in se stesso, nella normalità naturale ed essenziale del suo essere ed agire, a prescindere dallo stato attuale di corruzione della natura umana conseguente al peccato originale. È chiaro che l’Autore non tiene conto di proposito qui della sua debolezza e fragilità propria dell’attuale stato di corruzione. Esso, infatti,come insegna il Concilio di Trento, «non è estinto, ma attenuato nelle sue forze ed inclinato», s’intende al peccato (Denz.1521). D’altra parte, lo stesso Lutero, come poteva predicare la sua fede fiduciale, se questo atto non fosse stato effetto del libero arbitrio, sorretto dalla grazia? Quindi, anche per Lutero, in fin dei conti, il libero arbitrio, per quanto schiavo del peccato, non poteva esserlo tanto da non poter agire sotto l’impulso della grazia nella scelta di credere in Cristo. Siamo allora così lontani dalla premozione fisica? Dispiace, pertanto, che alla Dichiarazione congiunta sia completamente sfuggita questa importante chance del dialogo cattolico-luterano. Ci auguriamo che questo impegnativo e dotto studio di Padre Tyn possa favorire un dialogo ecumenico su questo punto. Nota mia.
[77]  Cfr. Summa Theologiae I -II, q.6, a .2 ad 2; q.17, a.1 ad 2; De verit. q.24, a.2 c.a.; II Sent. d.24, q.1, a.3 ad 5.
[78]  Cfr. Summa Theologiae I, q.83, a.4 c.a.; II Sent. d.24 , q.1, a.1 c.a.; Summa Theologiae I-II, q.1, a.1 c.a.; De Verit.  q.24, a.6 c.a. e ad 1.
[79] Della libertà. Nota mia.
[80] In quanto non entrano essenzialmente ll definizione della libertà, ma ne sono presupposti. Nota mia.

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