La creazione divina secondo Gustavo Bontadini - Terza Parte (3/5)

 La creazione divina secondo Gustavo Bontadini

 Terza Parte (3/5)

Una concezione insufficiente del principio di identità

La proposta parmenidea ha il fascino di un filosofo che ci esorta ad una fedeltà assoluta alla verità, in totale sincerità, onestà, lealtà, limpidezza e trasparenza, nel totale rifiuto di ogni diminuzione, cedimento, incoerenza, contraddizione, compromesso, doppiezza, opportunismo, accomodamento, ambiguità. Siamo posti davanti ad una scelta: o per l’essere o contro l’essere. Un animo cristiano come Bontadini lesse in questa proposta: o per Dio o contro Dio. Tertium non datur.

Si notano inoltre nel suo animo le tracce di un’educazione cristiana ricevuta con forte accentuazione ascetica: il mondo è vano, infido, falso, ammaliatore, pericoloso, ingannevole, ribelle alla verità. È un non-essere che pretende di essere e vorrebbe addirittura presentarsi come l’Assoluto, come Dio. Per raggiungere Dio bisogna rifiutare le insidie, le vane apparenze e le illusioni del mondo, smascherarne la sua vuotezza e la sua nullità. Occorre negare il mondo se vogliamo affermare Dio.

Amore per la verità vuol dire amore per l’identità di ciò che amiamo; amore per l’identità delle cose, di noi stessi, del reale, dell’essere, di Dio. Amore per la verità vuol dire essere decisi per la verità, senza accondiscendere ai nostri egoismi, egocentrismi, ambizioni, chiusure, narcisismi, esibizionismi, protagonismi, autoreferenzialità, furbizie, fisime, vanità, sensualità, ma in tutta umiltà, sottomissione ed obbedienza all’essere così com’è; adaequatio intellectus et rei.

Ciò che inganna in Parmenide è la sua concezione univocista ed assolutista dell’essere, che ignora la sua analogicità e gradualità, per le quali si apre lo spazio di intellegibilità e di bontà del Creatore e della creatura e dell’accordo fra di loro, il Creatore Signore della creatura.

Così Parmenide nasconde una sottile insidia, che è data dal fatto che la sua è una finta umiltà che nasconde la superbia, è un falso proiettarsi in Dio che in realtà nasconde l’attaccamento al proprio io, è una falsa apertura all’essere, che nasconde l’attaccamento alle proprie idee, è il proprio pensiero che vuol inglobare in se stesso tutto l’essere, è in fin dei conti proprio quella doppiezza che dichiara di voler rifiutare. Ma come mai e dove sta questa giravolta?

È nascosta nella sua stessa concezione dell’identità dell’essere, i cui attributi sono divini senza dare alcuno spazio a quelli della finitezza, del divenire, del diverso, del molteplice, insomma della creaturalità. Il suo rifiuto del divenire sembra ascetismo, sembra rigore intellettuale, coerenza logica, ma in realtà è il rifiuto della propria creaturalità e la pretesa che il proprio pensiero pareggi l’essere: to autò to noèin kai to einai. Questa non è onestà, ma astuzia; questa non è vera sapienza, ma ipocrisia, questo vuol dire apparire filosofo, ma in realtà essere uno scettico e un sofista.

Ebbene, il povero Bontadini per tutta la sua vita di filosofo si è dibattuto fra due vie, cercando fra di esse un impossibile accordo; da una parte la totale schiettezza, sincerità e coerenza teoretica di San Tommaso; dall’altra la furbizia e il fariseismo di Parmenide.

Successe così che Bontadini, sviato da Parmenide, interpretò il principio di identità non nella formula giusta che si ricava da Aristotele – non è possibile che l’ente sia e non sia simultaneamente e sotto il medesimo rapporto –, ma nel modo parmenideo: esiste un solo l’essere, l’essere che non può non essere; il non essere non esiste. Da qui la sua convinzione che, dato che il nulla non esiste, bisogna togliere dalla formula «creazione dal nulla» il riferimento al nulla, che sarebbe un concetto contradditorio e quindi insensato. Ci sarebbe però da chiedersi come ha fatto, al seguito di Severino, a giudicare poi «nichilistico» il dogma della creazione dal nulla, se il nulla non esiste. Dunque il nulla si rifà vivo per negare il dogma della creazione.

Ad ogni modo Bontadini ha tentato una formula della creazione, a suo dire più «rigorosa», nella quale il nulla non fosse citato. Per far questo ha ritenuto di doversi ispirare non ad Aristotele, ma a Parmenide, il quale affermerebbe. secondo Bontadini, l’essere in modo puro e schietto, senza compromissioni col nulla. Che cosa è allora la creazione pe Bontadini? Non è un causare, ma è semplicemente una relazione: la dipendenza formale del finito dall’Infinito, non però nel senso che l’Infinito abbia prodotto il finito dal nulla, sennò saremmo daccapo, ma nel senso formale e logico secondo il quale la conclusione di un sillogismo dipende dalle premesse.

Così però vien meno l’essere e siamo nel campo delle semplici idee, siamo nell’essere astratto, tutto è statico e scompare il dinamismo, la potenza, l’agire, il divenire, la concretezza e l’efficienza causale dell’essere. Siamo nel campo della «struttura». Ma l’essere non è una struttura, non è un «implesso originario»[1], non è un «intero»[2], per usare termini cari a Bontadini. L’essere è atto, causalità, è efficienza, è potenza, è perfezione, è energia, è vita.

Non abbiamo più un Dio attivo, onnipotente, ma un Dio che assomiglia a una figura geometrica, dalla quale si deducono le sue proprietà. L’astrazione sostituisce la concretezza. Il pensato sostituisce l’essere. Ma a che vale un Dio semplicemente pensato? È un Dio creatore o è un Dio che abbiamo prodotto noi col nostro pensiero? E noi siamo veramente sue creature o siamo l’io penso che pone l’essere, secondo il paradigma idealista?

Aristotele ha corretto la formulazione del principio parmenideo in modo da legittimare anche la realtà del temporale e del divenire in questo modo: non è possibile che l’essere sia e non sia simultaneamente e sotto il medesimo aspetto.

Quel simultaneamente (riferimento al tempo) ci vuole, perché è possibile che l’essere sia adesso in atto tale dopo esser stato tale in potenza, prima; e così il passaggio dal non essere all’essere tale toglie la contraddizione, che invece si presenterebbe se mancassero i riferimenti temporali. Contraddizione ci sarebbe stata, se l’ente fosse stato e non stato simultaneamente tale.

Dunque, senza questi due concetti fondamentali e intuitivi di atto (energheia) e potenza (dynamis) è impossibile capire che cosa è il divenire e come possa essere reale e appartenere all’orizzonte dell’essere senza implicare alcuna contraddizione.

Nella storia della filosofia occidentale a Parmenide va il merito grandissimo di essere stato il fondatore della metafisica con la sua famosa affermazione che l’essere è (estin gar einai), mentre il non essere non è (ouk estin me on). Egli è pertanto il primo filosofo che ci ha dato la formula del principio di identità, nel momento cui ha scoperto l’essere assoluto, ossia l’essere sussistente, che però egli chiama semplicemente essere, così da confondere l’essere necessario, essere che non può non essere, con l’essere contingente, ossia l’essere che può non essere.  Così se da una parte Parmenide è importante per il principio di identità e per aver avuto l’intuizione dell’essere sussistente, la sua nozione dell’essere implica il panteismo con l’identificare l’essere con l’essere necessario.

Parmenide ha detto benissimo dicendo che l’essere non è il non-essere e che l’uno esclude l’altro. Chi pensa di poter affermare e negare simultaneamente è come se avesse, egli dice, «due teste», accenno efficace al vizio morale della doppiezza, vizio che anche Cristo condanna senza mezzi termini quando ci ordina che il nostro parlare sia «sì, sì, no, no; il resto appartiene al diavolo» (Mt 5,37).

Ma Parmenide, per evitare la doppiezza, l’astuzia e la protervia degli scettici, che Aristotele non mancherà di denunciare e per affermare la sincerità e schiettezza del pensiero, ha mancato di umiltà, come del resto gli stessi scettici, con la differenza che questi respingono per superbia l’evidenza, mentre Parmenide si rifiutò di accettare l’oscurità e misteriosità del reale, in particolare del reale materiale e temporale. 

Tuttavia Parmenide ha finito per disprezzare la testimonianza dei sensi, che garantiscono la realtà del divenire, né più né meno degli scettici, che appunto non accettano la testimonianza dei sensi. E ha voluto sostituire e ignorare il razionale al sensibile. Non ha capito che anche il sensibile è oggetto della ragione, rientra nell’ambito dell’essere, rispetta il principio d’identità.

D’altra parte, non potendo evitare di pensare, e non volendo riconoscere la verità del sensibile, Parmenide  si accontentò delle apparenze o dei fenomeni, pensando che su di essi si potesse avere solo opinione e non scienza, sicchè vien da pensare se alla fine non si sia ritrovato con gli scettici e con Eraclito, accontentandosi del sensibile e dell’apparenza, con la differenza che Parmenide innalzò l’apparente al rango dell’essere, mentre gli scettici abbassavano l’essere al rango del sensibile e dell’apparente.

Parmenide, come è noto, intende l’essere come uno, sicchè tutto è uno. Le distinzioni, il divenire e il tempo sono mere apparenze. Parmenide ha quindi lasciato il divenire fuori dell’identità e quindi fuori dell’essere, nella mera apparenza. Non è riuscito, come invece riuscirà Aristotele, a farsi una nozione analogica dell’essere; non ha saputo riconoscere l’identità del divenire.

Aristotele accoglierà senz’altro il principio di identità dell’essere, al quale aggiungerà in logica il principio di non-contraddizione. Tuttavia, la formulazione rigorosa del principio d’identità è quella di Aristotele e non quella di Parmenide. Infatti Aristotele farà saggiamente entrare nell’orizzonte dell’identità anche il divenire precisando che anche il diveniente, nel momento in cui è, non può non essere, mentre prima non era ancora e dopo non lo è più. Il che equivale a dire che Aristotele salva anche l’identità del tempo.

Quello che invece Aristotele non ha afferrato è l’einai come soggetto sussistente, concetto che invece non sfuggirà a Tommaso, il quale vi vede il Nome divino di Es 3,14. Viceversa, ad Aristotele interessa l’on, ossia l’ente e l’essenza, l’ousìa, ma non l’einai, che per lui è la semplice copula del giudizio e non significa da sé solo, ma solo «consignifica», ossia ha senso solo assieme al soggetto e al predicato. Dice egli infatti:

 

«se consideri il puro essere» (della copula del giudizio), «esso è un nulla: consignifica invece una composizione, la quale non è data intendere senza i componenti»[3]

Ma se per Aristotele l’einai non interessa dal punto di vista metafisico, giacchè per lui l’einai non ha nessun significato da solo e di per sè, ma solo come copula del giudizio, in quanto sta tra il soggetto e il predicato. Tommaso invece ne fa il cardine e l’oggetto della sua metafisica. Dice infatti Tommaso:

 

«Aristotele dice che questa parola “è” consignifica la composizione, perché non significa in modo principale: significa infatti ciò che primariamente cade nell’intelletto a modo di attualità assolutamente; infatti “è”, detto semplicemente, significa essere in atto, e quindi significa a modo di verbo. Ma poiché l’attualità significata principalmente da questa parola “è” è comunemente l’attualità di ogni forma o l’atto sostanziale o accidentale, da qui viene che quando vogliamo significare che qualunque forma o qualunque atto si trova attualmente in qualunque soggetto, lo significhiamo con quella parola è»[4] .

 

Il nulla è il non-essere, eppure esiste

Chi è attaccato al parmenidismo trova nella formula creatio ex nihilo un sasso d’inciampo, se interpreta il detto parmenideo il non-essere non è nel senso che il nulla non esiste. Per questo Bontadini si sforza di elaborare un concetto di creazione che non metta in campo il concetto del nulla, ma, come vedremo, l’impresa non riesce, anche perché finisce con l’accusare di nichilismo il concetto dogmatico della creatio ex nihilo col pretesto che il concetto del nulla sarebbe contradditorio perché Parmenide avrebbe detto che il nulla non esiste.

Certamente il nulla è il non-essere, ma non si può dire che non esista, altrimenti come potremmo parlarne e comprenderci fra noi quando ne parliamo? In realtà il concetto del nulla è un concetto originario come quello dell’essere. Basta negare l’essere per avere il nulla, sicchè nessuno confonde l’essere col nulla. Anche un bambino sa usare il concetto del nulla e lo esprime con la parola nulla: «mamma, in quella stanza non c’è nulla!»; «questa è una bottiglia vuota».

L’identificazione hegeliana dell’essere col nulla è una costruzione artificiosa che mette a confronto col nulla un concetto di essere così astratto da essere completante vuoto. Per forza un simile essere s’identifica col nulla! Hegel si è creato ad usum delphini un concetto di essere che non esiste, perché non esistono concetti privi di contenuto, in quanto il concetto per sua essenza è un qualche oggetto posto nella forma del pensiero. Anche il nulla può essere oggetto del pensiero e può essere concettualizzato come se fosse ente, ad instar entis, come dicono gli Scolastici. Il nulla entra dunque nell’orizzonte degli enti di ragione.

È vero che il concetto dell’ente, l’ente comune, è il più astratto di tutti, perché deve prescindere da qualunque categoria inferiore per poterle comprende tutte. Ma nel contempo il contenuto o significato del concetto è semplicissimo e notissimo a tutti, giacchè supponiamo che qualunque cosa pensiamo sia un ente. Per questo la mancanza del concetto almeno implicito dell’ente comporta la mancanza del pensare. In tal senso Bontadini ha ragione nell’insistere a dire che il pensiero è sempre pensiero dell’essere e in tal senso respinse l’idealismo gentiliano che poneva come oggetto del pensiero non l’essere, ma lo stesso atto del pensare.

A sostegno della tesi parmenidea dell’immobilità dell’essere e della negazione del divenire sorsero due princìpi che divennero comuni nell’antichità: uno che dice che dal nulla non proviene nulla, ex nihilo nihil fit; e l’altro che dice che dall’ente non diviene l’ente, perché è già ente, ex ente non fit ens, quia iam est ens.

Quanto al primo, pare possa creare difficoltà al teorema della creazione dal nulla, senonché quel principio si può intendere nel senso che il nulla non produce nulla, e in tal senso è giusto. Sarebbe inaccettabile, invece, se inteso nel senso che nulla può avere origine dal nulla, giacchè Dio nel creare trae proprio le cose dal nulla.

Bontadini cita questo principio in quanto nega che il nulla possa produrre alcunché, ma evita di riferirlo alla creazione, dato il suo tentativo parmenideo di espungere dal dogma il riferimento al nulla, che gli crea imbarazzo, dato che il principio d’identità di Parmenide sembra escludere l’esistenza del nulla.

Se infatti il nulla non esistesse, la creazione sarebbe impossibile e si potrebbe essere indotti a concepire la creatura sul modello dell’emanazione divina o addirittura della processione divina sul modello delle Persone divine e saremmo nel panteismo. Dio ovviamente non crea il nulla, dal quale estrae le creature come da un serbatoio; tuttavia si deve dire che il nulla esiste nel momento in cui Dio crea la creatura, nulla inteso come non-essere della creatura che Egli va a creare, nulla precedente l’esistere della creatura.

Ma Bontadini cerca di evitare l’ostacolo concependo, come abbiamo visto, la creazione non come atto causativo ontologico, ma come atto dialettico: Dio crea non ponendo l’essere, ma negando la contraddizione del divenire, annullando, dice Bontadini, ciò che è nulla, cioè il divenire, almeno in quanto appare contradditorio.

In questo quadro concettuale per Bontadini l’atto creatore verrebbe ad essere un atto di annullamento, espressione piuttosto fastidiosa, poiché quando si parla di creazione il pensiero non va spontaneamente al negare o all’annullare, ma all’affermare, al porre o al produrre. E noi per converso, per Bontadini, sappiamo che Dio esiste negando l’assolutizzazione del divenire come contradditorio, con la conseguenza che in tal modo esso non appare più tale ma appunto creato da Dio.

Creazione dal nulla vuol dire altresì che prima di essere creato l’ente non esiste se non nella mente di Dio identico a Dio. La precedenza del non-essere all’essere non va intesa in senso temporale, se non per gli enti creati, la cui esistenza è preceduta nel tempo da altri enti.

Per quanto riguarda la creazione del mondo, anche qui si può parlare di un prima ovviamente non temporale, perché è chiaro che, essendo stato creato il tempo insieme col mondo, non avrebbe senso parlare di un tempo precedente alla creazione del mondo. Ora il dogma della creazione insegna che il tempo ha avuto un inizio: «Deus creator omnium visibilium et invisibilium sua omnipotenti virtute simul ab initio temporis utramque de nihilo condidit creaturam, spiritualem et corporalem»[5].

Se il tempo ha avuto un inizio e il mondo non esiste da sempre, allora è chiaro che Dio è esistito dall’eternità da solo prima che il mondo fosse, come si esprime Cristo stesso (Gv 17,5). Attualmente invece Dio non è solo ma vive in compagnia del mondo che ha creato probabilmente 14 miliardi di anni fa, stando almeno ai calcoli dell’astronomia contemporanea.

Sant’Ippolito esprime con efficaci immagini questo mistero imperscrutabile della fede cristiana:

 

«Dio esisteva in sé perfettamente solo. Nulla c’era che fosse in qualche modo partecipe della sua eternità. Allora Egli stabilì di creare il mondo.  Come lo pensò, come lo volle e come lo descrisse con la sua parola, così anche lo creò. Il mondo cominciò ad esistere, perciò, come lo aveva desiderato. E quale lo aveva progettato, tale lo realizzò. Dunque Dio esisteva nella sua unicità e nulla c’era che fosse coeterno a Lui. Niente esisteva se non Dio. Egli era solo, ma completo in tutto. In Lui si trovava intelligenza, sapienza, potenza e consiglio. Tutto era in Lui ed Egli era il tutto. Quando volle e nella misura in cui volle, Egli, nel tempo da Lui prefissato, ci rivelò il suo Verbo, per mezzo del quale aveva creato tutte le cose»[6]

Bontadini considera il teorema della creazione da un punto di vista strettamente metafisico, per cui non prende in considerazione la dottrina secondo la quale il tempo ha avuto un inizio, il che è dottrina di fede, per cui San Tommaso dimostra che di per sé Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto creare un mondo esistente ab aeterno, per il fatto che nella retrocessione delle cause non si può procedere all’infinito se si tratta di cause per sé, ossia di una catena causale con nessi necessari, ma nel caso di nessi accidentali, la retrocessione all’infinito sarebbe possibile[7].

La causa per sé è la causa necessaria attualmente esistente dell’effetto, causa senza la quale l’effetto non potrebbe esistere, La causa accidentale, invece, si limita a causare o il divenire o la generazione, per cui l’effetto può sussistere senza che la causa continui ad esistere.

La concezione bontadiniana della creazione comporta inoltre l’idea tipicamente parmenidea che, dato che esiste solo l’essere assoluto e questi è Dio, esiste solo Dio. Per questo Bontadini, che accoglie questa concezione dell’essere, chiamandolo l’Intero, è costretto a concepire la creazione come azione interna alla stessa essenza divina, per la quale l’intero riflette sulle sue parti integranti, che sono le creature negando la loro contradditorietà. Infatti, come nulla esiste all’infuori dell’essere, così diventa impossibile l’esistenza di un mondo fuori di Dio. Non si vede però a questo punto come sia possibile evitare il panteismo.

Un assioma bontadiniano derivato da Parmenide è che l’essere non può essere originariamente limitato dal non-essere. Indubbiamente, se l’essere originario è Dio, è chiaro che l’essere divino è illimitato. Tuttavia, occorre ricordare che l’essere come tale non è infinito. E qui sta l’errore di Parmenide. In questa visuale il semplice non essere, il semplice limite diventa un  male,  perché l’essere come tale ha diritto all’infinità proprio per affermarsi come essere. Vien meno la possibilità di un essere limitato che non sia perciò stesso affetto dal male. Quindi nella visuale parmenidea fatta propria da Bontadini o il bene è infinito o è affetto dal male.

La privazione di essere, caratteristica del male, quella che Aristotele chiama stèresis, e che gli Scolastici chiameranno privatio boni debiti, è confusa con la semplice limitazione o negazione di essere anche solo limitata. Il divenire, la materia è male, perché è essere-che-non-è. Da qui si vede la parentela del parmenidismo col manicheismo e col catarismo.

Fine Terza Parte (3/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 gennaio 2023

Bontadini, sviato da Parmenide, interpretò il principio di identità non nella formula giusta che si ricava da Aristotele – non è possibile che l’ente sia e non sia simultaneamente e sotto il medesimo rapporto –, ma nel modo parmenideo: esiste un solo l’essere, l’essere che non può non essere; il non essere non esiste.

Parmenide, come è noto, intende l’essere come uno, sicchè tutto è uno. Le distinzioni, il divenire e il tempo sono mere apparenze. Parmenide ha quindi lasciato il divenire fuori dell’identità e quindi fuori dell’essere, nella mera apparenza. Non è riuscito, come invece riuscirà Aristotele, a farsi una nozione analogica dell’essere; non ha saputo riconoscere l’identità del divenire.

Certamente il nulla è il non-essere, ma non si può dire che non esista, altrimenti come potremmo parlarne e comprenderci fra noi quando ne parliamo? In realtà il concetto del nulla è un concetto originario come quello dell’essere. Basta negare l’essere per avere il nulla, sicchè nessuno confonde l’essere col nulla.

Il nulla entra dunque nell’orizzonte degli enti di ragione.

Se infatti il nulla non esistesse, la creazione sarebbe impossibile e si potrebbe essere indotti a concepire la creatura sul modello dell’emanazione divina o addirittura della processione divina sul modello delle Persone divine e saremmo nel panteismo. Dio ovviamente non crea il nulla, dal quale estrae le creature come da un serbatoio; tuttavia si deve dire che il nulla esiste nel momento in cui Dio crea la creatura, nulla inteso come non-essere della creatura che Egli va a creare, nulla precedente l’esistere della creatura.

Immagini da Internet: Raffigurazioni del nulla e del Big Bang
 


[1] Berlanda, op.cit.,p.417.

[2] Cf Conversazioni di metafisica, I,Vita e Pensiero, Milano 1995, pp.41,44,86,88,136, 137; Conversazioni di metafisica II, pp.168, 170-174; Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp.63, 135.

[3] Perì hermeneias, libro I, c.III, n.23.

[4] Commento al Perì Hermeneias, libro I, c.III, lect.V, n.73, Edizioni Marietti, Torino 1964, p.29.

[5] Denz.800.

[6] Contro Noeto, cc.9-12, PG 10, 815-819.

[7] Sum.Theol., I, q.46.

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