La stoltezza del dubbio cartesiano - Prima Parte (1/2)

 La stoltezza del dubbio cartesiano

 Prima Parte (1/2)

Non si può dubitare dell’indubitabile

Ogni uomo sano di mente sa ben distinguere con i sensi e l’intelletto le cose esistenti fuori di lui, indipendenti da lui, nello spazio e nel tempo, le altre persone, il proprio corpo, il mondo e quanto può essere relativo alla sua soggettività: sogno, allucinazione, illusione, sembianza, apparenza, invenzione, creazione, immaginazione, idea.

Anche gli animali sono istintivamente dotati di discernimento nel campo della sensibilità e sanno distinguere il reale dall’apparente, benché anche loro occasionalmente possano essere ingannati o conoscere il dubbio. Ma sanno benissimo di avere cose davanti a loro nello spazio e lo si vede dal fatto che, se il loro senso è sano, le cercano e ne fruiscono, come per esempio il cibo.

Mettere in dubbio questa capacità, come fa Cartesio, è stoltezza, giacchè la distinzione fra vero e falso possiamo farla proprio perché abbiamo la facoltà di distinguere l’oggettivo dal soggettivo, il che naturalmente non ci impedisce di essere accidentalmente ingannati o di avere seri e ragionevoli dubbi in casi particolari, e soprattutto negli stati psichici alterati.

Occorre inoltre osservare che la negazione cartesiana o il dubbio circa la veracità del senso non nasce da una constatazione leale ed oggettiva e dalla resa dell’intelletto ad una necessità razionale, non è frutto di un’intuizione evidente e incontrovertibile e non è neppure la conclusione di un ragionamento corretto. Ma si tratta di una posizione decisa arbitrariamente in anticipo dalla volontà sulla base di volgari sofismi, che traggono conclusioni da premesse insufficienti a garantirle e quindi false, che pongono l’arguente in contraddizione con se stesso, così da confutarsi da sé.

Riguardo alla conoscenza sensibile, Cartesio esprime due convinzioni: che noi siamo ingannati dai sensi e che abbiamo ragione di dubitare dei sensi. Che noi siamo ingannati lo deduce con una conclusione illecita considerando le illusioni dei sensi, come per esempio l’apparenza del bastone spezzato nell’acqua.

Occorre notare infatti al riguardo che noi ci accorgiamo degli errori dei sensi utilizzando gli stessi sensi. Si può quindi parlare di errori dei sensi solo dando per scontato che il senso di per sé è verace. Cartesio, quindi, fa una cattiva deduzione quando vuole estendere al senso in generale quella illusorietà che è propria di alcune ben precise esperienze sensibili, come quella del bastone apparentemente spezzato. È utilizzando il senso che io, tirando fuori il bastone dall’acqua, mi accorgo che non è spezzato.

Cartesio è convinto di essere ingannato dai sensi non per accidens ma per principio e quindi senza aver ragione per farlo perché rifiuta quella verità in base alla quale scoprire l’inganno. Per sfatare l’inganno non punta sull’esperienza sensibile, ma sul cogito, che, ammesso che sia un vero pensare cosciente, non è il punto di partenza del sapere, ma punto d’arrivo partendo dall’esperienza sensibile.

Inoltre Cartesio afferma irragionevolmente che «di tutte le opinioni che avevo altra volta accolte come vere, non ve n’è una della quale non possa ora dubitare, per ragioni fortissime» (Med. met., Ed. Laterza, 1968, pp.75-76). Si tratta di un’affermazione irragionevole, perché pretende affermare di avere ragioni fortissime per affermare che è impossibile avere ragioni fortissime.

Cartesio dubita della veracità dei sensi non per ipotesi, comprendendo successivamente che è impossibile, ma esercita realmente questo dubbio, senza accorgersi che ciò è contradditorio, come ho detto sopra. Non lo risolve constandone l’assurdità, ma lo prende per buono e lo mantiene volontariamente. Impugna la verità conosciuta. Rinuncia quindi a fondare il sapere sull’esperienza sensibile e sostituisce questo principio con quello del cogito. Ma questo cogito è un dubitare e quindi non è un vero cogito, perché il vero pensare è pensare qualcosa.

Ora invece il dubitare è un’oscillare tra due oggetti contrari. In Cartesio manca l’identità dell’oggetto e quindi viola il principio d’identità, per il quale ogni ente è ciò che è e non altro da sé. Il pensare è distrutto.

Se dubito, in quanto e nella misura che dubito, non posso dire che penso, salvo che si tratti di un dubbio particolare e ragionevole, dubbio che può esser risolto facendo capo a ciò che è certo. Ma l’ipotesi di Cartesio è di dubitare di tutto; è che non vi è nulla di certo. Ora questo, come abbiamo visto, è impossibile. Il dubbio, per essere ragionevole, deve essere limitato e vertere su ciò che può essere dubitabile.

Ora il dubitabile non può essere la totalità delle cose, perché per poter dir questo dovrei far capo a un principio certo, alla possibilità di sapere la verità, cosa invece della quale appunto dubito. Quindi è perché so per un verso la verità che posso dubitare di una data cosa per un altro verso. È perché posso sapere che il bastone è diritto che mi accorgo di sbagliare nel vederlo spezzato nell’acqua.

Tesi assurde

Una tesi assurda di Cartesio è quella secondo la quale «il principale e più ordinario errore che si possa trovare nei giudizi del senso è che le idee, le quali sono in me, siano simili o conformi a cose che sono fuori di me» (Med. met., Ed. Laterza 1968, p.97).

Come fa a dire che è un errore? Suppone evidentemente di sapere la verità. E come può saperla? Perché sa come stanno le cose fuori di lui. Infatti, in base a questa conoscenza, si accorge, facendo il confronto, che le sue idee non corrispondono alle cose. Ma allora, in base alla conoscenza delle cose esterne anche il nostro intelletto s’inganna sempre circa i giudizi sulle cose esterne. Dunque usa il principio dell’adeguazione alla cosa per negare che nel conoscere ci adeguiamo alla cosa.

Nelle Meditazioni metafisiche Cartesio riporta  una serie di decisioni che mettono in dubbio o invalidano forzatamente tutto il suo sapere precedente, perché fin dall’inizio Cartesio ha deciso di sostituire il fondamento del sapere col suo cogito, il quale sembra la soluzione e la certezza finale, consolante e decisiva, dopo una travagliata radicale ricerca e una possente verifica, che solleva dal dubbio, ma in realtà il forzato dubbio resta ed è sostituito da una forzata certezza, che è quella del cogito.

Non c’è dubbio che riflettendo sul mio atto di pensare, raggiungo l’assoluta certezza di esistere. Ma che cosa è questo pensare? È per Cartesio un pensare le cose esterne? Per nulla! Infatti, egli, all’inizio della sua ricerca afferma di non sapere se esistono. Gli pare di sì, ma sente l’esigenza di dimostrarlo. E come? Partendo dal cogito, impresa, per la verità, assurda, perché io so di avere la coscienza di pensare solo se ho già conosciuto le cose esterne, le cui idee o rappresentazioni sono nella mia coscienza e nella mia memoria. A questo punto posso riflettere sul fatto che sto pensando e far del mio pensare oggetto del mio pensiero.

Senonchè, però, qui per «pensare» Cartesio intende «dubitare». Ma dubitare di tutto! Ora questo non è un dubbio metodico, ma un dubbio stolto. È un dubbio irresolubile, che non porta a niente. Il dubbio metodico, via alla verità e alla certezza, è ben altra cosa. Esso, inteso in generale (universalis dubitatio de veritate, dice San Tommaso), può servire a fondare il sapere, ma allora dev’essere proposto e immediatamente ritirato, perché può essere solo ipotizzato, ma non esercitato, perché l’esercitarlo implica contraddizione ed autoconfutazione.

Normale, invece, saggio e salutare è il dubitare su questioni particolari e limitate, dove il dubbio viene risolto facendo appello a ciò che si sa già. Ma se si propone gratuitamente di dubitare di tutto, viene meno ogni principio certo dal quale partire per risolvere i dubbi.

Cartesio crede di raggiungere un radicalismo fondatore mai raggiunto prima di lui; ma in realtà non fa altro che avanzare la pretesa che si dimostrino i princìpi del senso e della ragione, cosa assurda, perché questi sono i princìpi della dimostrazione. Essi, in quanto princìpi, sono evidenti, altrimenti la dimostrazione diventa impossibile. Non c’è bisogno di dimostrare ciò che è evidente e non ha senso voler porre qualcosa che sia prima di ciò che è già primo.

Il nostro sapere inizia dal contatto sensibile con le cose: non esiste un principio precedente – il cogito –. che possa dar fondamento alla certezza di questo contatto iniziale con le cose. Semmai è da qui che si parte e si arriva a trovare con la ragione la certezza dei primi princìpi della ragione, come quelli di identità e non-contraddizione, del terzo escluso, di causalità e di finalità, nonché le certezze della coscienza e dell’autocoscienza.

Non si può dubitare seriamente dell’esistenza della verità, sia essa sensibile, sia intellegibile. Infatti in ogni nostro giudizio supponiamo di dire il vero, ciò che è conforme alla realtà. Un giudizio, quindi, che dichiarasse dubbia o non esistente l’esistenza della verità, annullerebbe il suo stesso contenuto e il suo porsi come giudizio e confuterebbe se stesso. È quello che capita a Cartesio col suo dubbio o la sua negazione della verità della conoscenza sensibile.

Il senso e l’intelletto hanno un oggetto naturale, che definisce la loro essenza: il sensibile e l’intellegibile, oggetto che è certo in forza dell’essenza del senso e dell’intelletto. Ed è in base a questa certezza primaria, immediata e spontanea, che senso ed intelletto vagliano i dubbi e li risolvono. Ma se si pone, come fa Cartesio, che essi dubitino per loro essenza, è chiaro che il dubbio diventa irresolubile e il proposito di fondare il sapere diventa irrealizzabile.

Bontadini, pur essendo un cartesiano, ha ragione quando fa a Cartesio il rimprovero di dualismo gnoseologico: Cartesio, per la sua innaturale opposizione fra res cogitans e res extensa, non riesce a mettere in comunicazione il sentito col sensibile, l’intelletto con l’intellegibile, il pensiero con l’essere. L’essere è irraggiungibile, al di là del pensiero.

Ma ecco che per rimediare, Cartesio cade nell’errore tipicamente idealista di confondere l’idea con la realtà e purtroppo qui Bontadini lo segue: nella giusta preoccupazione di far appartenere l’essere al pensiero, il pensiero diventa intrascendibile; ma è proprio questo il modo di perdere l’essere. Per noi l’essere non è solo pensato, ma anche pensabile. Qui Cartesio ha ragione.

Decisioni stolte

Nelle Meditazioni metafisiche Cartesio fa una serie di false o arbitrarie affermazioni o espone dubbi finti e artificiosi, tutti tesi a invalidare la veracità del senso, allo scopo di sostituire il principio e la base del sapere col suo famoso cogito, che è un principio che in realtà, a conti fatti, invece di dar fondamento, certezza e inizio al pensiero, li distrugge, perchè ne sopprime l’oggetto, dando nel contempo al soggetto l’illusione che le cose esterne, con tutta la realtà, compreso il proprio io e Dio, sono posti dal proprio atto del pensare.

Una prima decisione stolta è la seguente. Cartesio narra di essersi ritrovato con molte opinioni dubbie o incerte; e questo è comprensibile. Ma ecco che improvvisante fa un enorme scriteriato salto logico o meglio diremmo, illogico, per concludere alla decisione di «disfarsi di tutte le opinioni ricevute fino ad allora, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta» (p.70). Possibile che con i raffinati studi che aveva fatto a La Flèche non avesse acquistato nulla di certo? E le verità razionali naturali e quelle di fede dove erano andare a finire?

Altra decisione insensata: 

 «Mi applicherò seriamente a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni. … Debbo trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili come da quelle le quali ci appaiono manifestamente false: il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare» (p.71).

 

E perché mai rifiutare il certamente falso insieme col non totalmente certo? È, questo, buon senso? È, questo, dar fondamento al sapere? Forse che ciò che oggi appare incerto un domani non può diventar certo?

Altra conclusione insensata.

«Qualche volta ho provato che i sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamene di quelli che ci hanno una volta ingannati». Ciò porta Cartesio a concludere, «che non vi sono segni concludenti, né segni abbastanza certi, per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno» (p.73).

Se parlo in generale della differenza fra il sogno e la veglia, vuol dire che in linea di principio posso sapere se sono desto o sto sognando. È vero che quando sogniamo, crediamo di essere nella realtà. Ma quando ci svegliamo ci accorgiamo d’aver sognato. Forse che Cartesio non se ne accorgeva?

Altra ipotesi assurda riguarda l’onnipotenza divina, che Cartesio concepisce irragionevolmente in contrasto con la divina veracità. Dice Cartesio:

 

«Chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia più nessuna terra, nessun cielo, nessun corpo esteso, nessuna figura, nessuna grandezza e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo?» (p.74).

Ecco ancora una volta questa idea morbosa che i sensi ingannano, con l’aggiunta blasfema che ciò dipenda della volontà di Dio. Sarebbe, questo, il dubbio metodico o siamo nelle pure farneticazioni?

Altra supposizione assurda e blasfema è quella del «genio maligno», che si sostituirebbe al Dio buono e verace. Si tratterebbe di un «certo cattivo genio non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi». Per questo, Cartesio immagina che «tutte le cose esterne che vediamo non siano che illusioni e inganni».

Cartesio vuol considerare se stesso come privo di corpo e di sensi, pur credendo fermamente di averli (cf p.77). Ecco ancora una volta tornare questa morbosa convinzione di essere ingannato dai sensi, questa volta ad opera di una falsa divinità, parto mostruoso dell’immaginazione di Cartesio, il quale non si perita, pur di accontentare quella convinzione morbosa, di allontanare l’idea di Dio per sostituirla con quel mostro.

Il colpo di scena finale

Nel prosieguo di questi dubbi farneticanti, Cartesio, fingendo di essere alla ricerca della certezza dopo averla distrutta, recita la parte dell’indomito ricercatore della verità e della certezza nel mare di dubbi che in precedenza ha artificiosamente creato: «continuerò sempre per questo cammino fino a che non abbia incontrato qualcosa di certo» (p.79).

Così egli prepara il colpo di scena finale, la solenne proclamazione del cogito, con la quale Cartesio toglie le tenebre del Medioevo ed accende la fiaccola della «filosofia moderna», atto solenne che ci fa tirare un sospirone di sollievo dopo l’angoscia provocata per la scomparsa di ogni certezza e ci fa gridare di gioia: evviva! Cartesio ha trovato la verità!

Ma prima di fare il gran passo che ci rivelerà l’unica cosa certa – io esisto -Cartesio, con ostinato puntiglio, ribadisce ancora una volta la sua convinzione che i sensi ingannano: «Io supporrò che tutte le cose che vedo siano false; … credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito» (p.80). Ed ecco il barlume di ciò che sarà raccolto ed esplicitato dagli idealisti: Cartesio si domanda se «questi pensieri» non gli siano messi nello spirito «da Dio o da qualche altra potenza» (ibid.) e risponde: «ciò non è necessario, poiché forse io sono capace di produrli da me» (ibid.). Sembra già qui preannunciarsi l’Io degli idealisti, produttore del pensiero e del reale.

Dopodiché riappare il genio maligno:

 

«vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre» - si noti bene: m’inganna circa la veracità del senso -. «Non vi è dubbio che io esisto, se egli m’inganna; e m’inganni finchè vorrà; egli non saprà mai fare che io sia nulla, fino a che penserò di essere qualcosa» (ibid.).

Da qui la famosa conclusione:

 

«di modo che, dopo avervi ben pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere e tener fermo che questa proposizione: Io sono, io esisto è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio o che la concepisco nel mio spirito» (pp.80-81).

Da notare che qui non appare l’«io penso» (cogito) del Discorso sul metodo. Cartesio comunque premette: «io penso di essere qualcosa». È interessante, perché qui il pensiero ha un oggetto: «essere qualcosa». Il pensare del Discorso sul metodo è, come abbiamo visto, il dubitare su tutto; invece qui si tratta di un vero pensare, perché ha un oggetto, quindi sembrerebbe restare una porta aperta al pensiero delle cose esterne. E difatti Cartesio le recupera, ma solo attraverso la via artificiosa ed innaturale del cogito oltre a ciò illuminato dalla veracità divina.

Dopo essersi accertato di esistere Cartesio tiene a ripetere il suo principio che il nostro conoscere non prende il suo inizio dal contatto con le cose, ma dall’autocoscienza:

 

«io ho riconosciuto di esistere e ricerco chi sono io, io che ho riconosciuto di esistere. Ora è certissimo che questa nozione e conoscenza di me stesso, così precisamente presa, non dipende dalle cose, l’esistenza delle quali non mi è ancora nota, … Io so con certezza di esistere e ad un tempo tutte quelle immagini e in generale tutte le cose che si riferiscono alla natura del corpo, possono non essere altro che sogni o chimere» (pp.84-85).

Questo metodo decisionista nello stabilire le conclusioni, dimostra in Cartesio una forma di volontarismo per la quale la volontà interferisce nel campo dell’intelletto, gli ruba il mestiere e non consente all’intelletto di adeguarsi docilmente alla realtà, ma fa dire alla realtà quello che Cartesio vuole che la realtà sia, a costo di spaventose contraddizioni, come abbiamo visto.

Con la riflessione sul proprio pensare, Cartesio prende atto del proprio esistere; ma è certo solo di questo suo esistere; il resto ritiene di doverlo dimostrare, perché a questo punto egli mantiene il dubbio circa l’esistenza delle cose esterne.

Osserviamo che la certezza spirituale della propria esistenza certamente è superiore a quella dell’esistenza delle cose esterne. In ciò Cartesio ha ragione. Ma trascura il fatto che la certezza spirituale è più difficile da raggiungere e da percepire, perché noi tutti, salvo le menti distorte come quella di Cartesio, non abbiamo alcuna difficoltà ad arrenderci all’evidenza dei sensi.

C’è inoltre da considerare che sarebbe impossibile raggiungere la certezza spirituale del proprio esistere, senza il presupposto della certezza iniziale del senso. Se non fossimo certi dell’esistenza e della conoscibilità delle cose materiali che ci circondano (la quidditas rei materialis della quale parla San Tommaso) e che noi stessi siamo, benché animati da un’anima spirituale, non potremmo esser certi di nulla e non potremmo uscire da questa incertezza, come già si accorsero gli scettici greci.

Il nostro intelletto entra in funzione sulla base della certezza sensibile. È perché è certo della verità di ciò che sperimenta col senso, che l’intelletto s’accorge che nel sensibile si nasconde una verità e una certezza più profonda e più salda, che è il nutrimento della sua fame di verità. E la maggior saldezza di questa certezza non è data dal fatto che quella sensibile non abbia già una sufficienza propria, quasi da dover essere convalidata da quella intellettuale. È qui che Cartesio sbaglia. Certo a volte è solo riflettendo con l’intelletto che correggiamo certi errori dei sensi. Ma se li usiamo come vanno usati e se sono sani e sobri, già da soli sanno correggere se stessi e ci danno quella verità materiale che a loro spetta.

Quindi la maggior certezza propria dello spirito è relativa solo alla differenza dei rispettivi oggetti e cioè che gli oggetti dei sensi sono mutevoli e corruttibili, mentre quelli dello spirito sono immutabili ed eterni. Platone, però, si è lasciato troppo impressionare dalla labilità dell’oggetto del senso, senza accorgersi che anch’esso ha una sua verità, che fonda la verità della scienza sperimentale, come fece notare Aristotele.

Anche Cartesio arriva ad ammettere la verità della conoscenza fisica e matematica, e ne dà larga prova, ma attraverso un inutile e contradditorio giro vizioso, quando avrebbe avuto già a disposizione da secoli la dimostrazione aristotelico-tomista di come l’intelletto raggiunge la certezza spirituale partendo da quella sensibile.

L’illusione di Cartesio è stata quella di credere di poter saltare la questione per lui irresolubile della certezza sensibile e cogliere direttamente ed intuitivamente quella intellettuale. In realtà, noi non scopriamo lo spirito direttamente come gli angeli, ma ne deduciamo l’esistenza con fatica e rischiando l’errore, per analogia e per metafore, come causa e modello di quelle realtà sensibili, che sono l’oggetto naturale iniziale del nostro sapere. Qui non siamo differenti dagli animali. Già il neonato di tre mesi non ha alcun dubbio dell’esistenza della poppa della madre dalla quale prende il latte.

L’inclinazione alla conoscenza è originariamente in noi un’inclinazione animale. Solo col primo o secondo anno di vita nel bambino comincia l’albore dell’attività della conoscenza razionale, che si manifesta mediante l’uso della parola, ma essa si manifesta compiutamente, con la formulazione del giudizio e l’uso della copula «è», solo al sesto anno di vita, detto appunto età di ragione.

La volontà ha la possibilità di accontentare o di frustrare o invertire o di bloccare questa inclinazione naturale, simile all’inclinazione sessuale dell’un sesso verso l’altro, anche questa, tipico fenomeno della vita animale, che costituisce la base materiale della vita umana. Ora, se la volontà si mette in contrasto con queste inclinazioni naturali[1], commette un peccato o colpa morale detta «contro natura», s’intende contro la natura animale dell’uomo.

Accanto a questi peccati, detti anche «carnali», esistono i peccati cosiddetti «spirituali», che sono contro la natura razionale o spirituale dell’uomo. Per questo, alcuni hanno giustamente paragonato l’idealismo, contrario alla natura razionale dell’uomo, ad una forma di masturbazione intellettuale. Come infatti è contro natura che il senso respinga il suo oggetto o gli ripugni il suo oggetto, così è contro natura che un sesso, anziché lasciarsi attrarre o sentirsi attratto dal sesso opposto, inverta la sua naturale inclinazione o verso un individuo del medesimo sesso o verso se stesso

È solo all’età di ragione e soprattutto nell’adolescenza che nasce il problema critico, perché il soggetto comincia a rendersi conto di sbagliare in molte cose e allora nasce in lui il problema della certezza e dell’esistenza e dell’essenza della verità e della veracità del senso. Si pone il problema di come fare per non sbagliare nelle conoscenze, per correggere gli errori e per procedere con sicurezza nell’acquisto della verità.

È qui che Cartesio aspetta al varco tanti giovani liceali e purtroppo, anziché avviarli sul sentiero della verità, li rende individui egocentrici, doppi, narcisisti, opportunisti ed astuti, quando non ne fa dei disperati, dei nichilisti o degli atei, quando ad assicurar loro il giusto metodo basterebbe formarli all’eminente sapienza di San Tommaso d’Aquino, come per grazia di Dio è capitato a me.

È l’esistenza dello spirito che dev’essere dimostrata, non quella delle cose esterne. È perché conosciamo con certezza queste, che possiamo arrivare a conoscere con certezza quelle. È vero che l’autocoscienza non ha bisogno di verifica, tanto essa è evidente, mentre le conoscenze sensibili hanno spesso bisogno di essere verificate o corrette, anche per le illusioni della fantasia o gli inganni della memoria.

Certamente la certezza spirituale è più forte di quella sensibile non nel senso che la garantisca, quasi che senza quella questa non possa esistere o sarebbe solo dubbio, come credeva Cartesio, perché la certezza sensibile ha già il proprio valore autonomo anche senza la conferma intellettuale, come è dimostrato chiaramente dalla vita degli animali, i quali se la cavano benissimo nelle loro conoscenze e sanno acquistare la certezza sensibile pur essendo privi di intelletto.  

È vero che esiste una lunga tradizione, soprattutto orientale, per esempio induista e buddista, ma presente anche in Platone, Pitagora e nel manicheismo, che considera vanità ed illusione le attrattive della materia e i pericolosi i desideri materiali, come se la materia fosse addirittura il principio del male, dell’errore, delle tenebre e del peccato, creata da un principio cattivo, nemico dello spirito. Essa certo si oppone al materialismo e all’edonismo, che vede tutti i piaceri assommarsi in quelli materiali e sensibili.

Ma il rigido spiritualismo cartesiano non è certo il rimedio all’edonismo, ma anzi lo rende più ribelle; ma il peggio è che poi un fin dei conti tutto questo ultraspiritualismo che identifica il corpo col corpo pensato, e il sentire col sentire pensato, finisce per rovesciarsi nell’identificare il pensato col corpo e il pensare col sentire.

Fine Prima Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 27 giugno 2022

Noi ci accorgiamo degli errori dei sensi utilizzando gli stessi sensi. Si può quindi parlare di errori dei sensi solo dando per scontato che il senso di per sé è verace. 

Cartesio, quindi, fa una cattiva deduzione quando vuole estendere al senso in generale quella illusorietà che è propria di alcune ben precise esperienze sensibili, come quella del bastone apparentemente spezzato. È utilizzando il senso che io, tirando fuori il bastone dall’acqua, mi accorgo che non è spezzato.

Sarebbe impossibile raggiungere la certezza spirituale del proprio esistere, senza il presupposto della certezza iniziale del senso. Se non fossimo certi dell’esistenza e della conoscibilità delle cose materiali che ci circondano (la quidditas rei materialis della quale parla San Tommaso) e che noi stessi siamo, benché animati da un’anima spirituale, non potremmo esser certi di nulla e non potremmo uscire da questa incertezza, come già si accorsero gli scettici greci.

In realtà, noi non scopriamo lo spirito direttamente come gli angeli, ma ne deduciamo l’esistenza con fatica e rischiando l’errore, per analogia e per metafore, come causa e modello di quelle realtà sensibili, che sono l’oggetto naturale iniziale del nostro sapere. Qui non siamo differenti dagli animali. Già il neonato di tre mesi non ha alcun dubbio dell’esistenza della poppa della madre dalla quale prende il latte.

Immagini da internet



[1] L’astinenza sessuale motivata dalla virtù di castità non suppone disprezzo per l’inclinazione sessuale, ma comporta una motivata astensione dal suo esercizio.

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