Il rapporto tra natura e grazia: distinzione senza separazione. Un testo di Tomas Tyn.


Il rapporto tra natura e grazia: distinzione senza separazione[1]
Un testo di Tomas Tyn

Mia introduzione

a) I termini del problema

Il rapporto tra natura e grazia corrisponde a quello che con la teologia scolastica medievale si cominciò a chiamare rapporto fra «ordine naturale» ed «ordine soprannaturale», sebbene l’espressione «soprannaturale» non si trovi nella Scrittura. Ma chiarissimo e importantissimo è il concetto espresso da quel termine: il mondo della grazia e dei «magnalia Dei», le opere del Signore, superiore al livello ontologico della creatura naturale, mondo misterioso, sconfinato e meraviglioso appartenente all’ambito del divino, che trascende la natura umana e le sue più alte aspirazioni naturali.

Il rapporto fra natura e grazia è simile altresì al rapporto fra la grazia e il libero arbitrio, in quanto potere della volontà, che è facoltà della natura umana. Al rapporto grazia-libero arbitrio potrebbe fare da pendant il rapporto rivelazione divina-ragione umana, sicchè, come l’azione della grazia sul libero arbitrio premuove la volontà dallo stato di peccato alla carità nell’opera della giustificazione, così similmente l’azione illuminante della grazia fa passare l’intelletto dall’incredulità alla fede, dalle tenebre alla luce, per usare un linguaggio giovanneo, sempre nell’opera della giustificazione.

La dinamica del rapporto della grazia con la natura è illustrata con chiarezza e  potenza espressiva nelle sue varie forme e modalità dalla teologia di S.Paolo, il quale mostra da una parte l’iniziativa e la gratuità della grazia, che precede, accompagna e porta a termine il cammino spirituale dell’uomo dal peccato alla giustizia e poi il progresso nella stessa giustizia, che porta avanti il processo della liberazione dal peccato e della crescita nella santità, fino al compimento finale alla resurrezione futura.

Nel contempo, Paolo raccomanda in vari modi il rispetto dei comandamenti, un serio impegno morale e la pratica della giustizia, senza di che è impossibile entrare nel regno dei cieli, ed elenca una serie di vizi che devono essere esclusi,  come condizione per salvarsi (I Cor 6, 9-10; Gal 5,19). Si vede chiaramente che Paolo è preoccupato di scongiurare la falsa libertà e il lassismo, che nascerebbero da una malintesa  gratuità  della  grazia,  come  se  ciò  dispensasse dalle  buone  opere.

Egli non esclude in senso assoluto il merito presso Dio, ma solo quello illusorio, che i farisei credevano di procurarsi con le buone opere senza credere a Cristo. È ovvio che per Paolo è giustificato e salvo solo chi mette in pratica la legge. Solo che questa legge non è più la vecchia legislazione farisaica, che i farisei ritenevano sufficiente per salvarsi, e che invece è stata superata dalla venuta di Cristo, ma è la legge dettata dalla fede in Cristo, dono della grazia di Cristo, inattuabile senza il soccorso della grazia, operante nella carità e basata sulla legge naturale, che prescrive i doveri dell’etica naturale (Rm 13,9) conformi alla natura umana (Rm 2,15).

È dunque Paolo che ci fornisce lo schema fondamentale del rapporto natura-grazia, tenendo conto peraltro della corruzione della natura conseguente al peccato originale ed indicandoci nel contempo nella vita di grazia la via della graduale liberazione e della giustificazione.

 L’uomo, per Paolo, deve collaborare con Dio mediante le buone opere sotto l’azione della grazia (cf II Cor 6,1). Se è vero che la natura è corrotta a seguito del peccato originale e l’uomo si sente «schiavo del peccato» (Rm 7, 14), per Paolo non è così corrotta che l’uomo, almeno con la mente, non possa servire la legge di Dio (7, 25), per cui dobbiamo con l’«aiuto dello Spirito far morire le opere del corpo» (Rm 8, 13). In tal modo «il lavoro del cristiano non è vano presso il Signore (cf I Cor 15,58), perchè «Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere» (Rm 2,6).

b) L’evoluzione storica del problema

In tal modo, la storia della teologia è costellata di un incessante periodico riproporsi del problema del rapporto tra natura (libero arbitrio) e grazia, col rischio continuo di un’accentuazione esagerata ora dell’azione della grazia, ora dei poteri della natura. Ora la natura sembra impotente; ora sembra onnipotente. Ora la grazia sembra svanire; ora sembra occupare tutto lo spazio. Così S.Agostino sembra calcare troppo sul mistero delle scelte della grazia (predestinazione) contro Pelagio, che sottovaluta la grazia ed è troppo confidente nelle forze umane.

La questione trova un’equilibrata soluzione con S.Tommaso, del quale Padre Tyn segue le orme. È la soluzione adottata dal Concilio di Trento, che quindi diventa definitiva nel Magistero della Chiesa, anche se naturalmente il mistero esige di venire continuamente approfondito. Ed è quanto hanno fatto i teologi successivi fino ad oggi, come appunto Padre Tyn.

Ma ecco che intanto, dopo Tommaso e nonostante Tommaso, la questione rispunta drammaticamente con Lutero, nel sec.XVI, il quale ha la sconsideratezza di non riprendere Agostino e Tommaso, ma, sotto colore di una pura adesione alla Bibbia, di seguire Ockham, Wycliff ed Hus. Egli, inoltre, si trova davanti al papato rinascimentale e mondano, di Leone X, assetato di ricchezze, di lusso e di potere. Un nuovo pelagianesimo sembra regnare nella Chiesa e specie a Roma. Quindi in Lutero ad un sincero bisogno di riforma della Chiesa, si mescola un’empia ribellione allo stesso Magistero della Chiesa.

È interessante notare come le pur sagge dottrine in merito del Concilio di Trento non solo non riuscirono a far ravvedere i luterani, ma non riuscirono  neanche a placare gli animi dei teologi cattolici, prima con la famosa lunga, accesissima e complicatissima controversia De auxiliis della fine del ‘500, poi nel ‘600, quella attorno a Baio, Quesnel, Molinos e Giansenio, fino ad arrivare alla crisi modernista dell’epoca di S.Pio X, la quale, che cosa fu in fondo, col tema del «sentimento preconscio originario» e della mutabilità dei concetti dogmatici, se non una velata riproposizione del volontaristico «sola gratia» luterano in chiave immanentistica, dati i precedenti di Kant, di Schleiermacher e di Hegel?

La questione tornò ad essere agitata alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, dopo una grande ed ampia discussione sul problema del desiderio di vedere Dio e della filosofia cristiana, avvenuta negli anni ’30[2]. Si trattava di chiarire che influsso ha la divina rivelazione e quindi la grazia sulla ragione filosofica. Ancora natura e grazia.

Nomi che emergono in questa occasione furono quelli di de Lubac e Maritain[3]. Il primo nel campo della teologia dogmatica e il secondo della filosofia morale esagerarono il fattore soprannaturale, quindi la parte della grazia e della rivelazione. Riguardo al conseguimento del fine ultimo soprannaturale, ossia la visione beatifica, sostennero che la natura ha bisogno di essere integrata dalla dalla grazia non solo per liberare l’uomo dal peccato, ma anche per ottenergli di conseguire il suo fine ultimo, che pertanto non è naturale, ma soprannaturale, come se la natura, giunta al punto di raggiungere Dio, diventasse soprannaturale. Era come sopprimere la gratuità della grazia o, se vogliamo, era un assorbire la natura nella soprannatura. In ogni caso veniva meno la distinzione fra natura e grazia.

Per rimediare a questo grave inconveniente, Pio XII nell’enciclica Humani Generis del 1950, mise in guardia contro questo errore, avvertendo: «Alcuni snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale, quando sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli alla visione beatifica» (Denz.3891).

 Il Papa intende evidentemente far presente che, se di fatto Dio ordina l’uomo ad un fine soprannaturale, che è la visione beatifica, questo è un dono gratuito della grazia, perché, se avesse voluto, avrebbe potuto ordinare l’uomo a Sè come semplice fine ultimo naturale, perché anche così l’uomo sarebbe stato felice soddisfacendo il bisogno della sua natura.

Come ci segnala oggi Papa Francesco nella Lettera Gaudete et exultate, l’immanentismo della grazia, la discesa di Dio, che egli pone sotto il nome dello gnosticismo e il naturalismo pelagiano, ossia la salita dell’uomo, sono oggi il volto di questa ricorrente opposizione-confusione fra natura e grazia.

Rahner sta sul versante dello gnosticismo. Egli infatti concepisce la grazia come libera e gratuita «autocomunicazione o discesa di Dio» nell’uomo; mentre l’uomo, come spirito trascendentale o natura storica, è aprioricamente aperto a Dio come orizzonte necessario della trascendenza umana, e con ciò stesso l’uomo è costitutivamente o, come dice Rahner, «esistenzialmente» orientato alla visione beatifica di Dio. La discesa di Dio coincide con l’ascesa dell’uomo.

Rahner, prendendo a pretesto il fatto che l’uomo non conosce un limite al progresso ed aspira a un Bene infinito, sbaglia nel concepire la natura umana, perché la intende insofferente del limite, come se essa non fosse racchiusa e definibile nei limiti di un genere e di una specie, come se non fosse limitata al suo essere animalità razionale; ma la ritiene indefinitamente ed illimitatamente autoplasmabile a piacimento dallo stesso soggetto umano.

Ciò comporta esplicitamente in Rahner la negazione dell’esistenza di una legge naturale universale, immutabile ed oggettiva e la sua sostituzione con la «libera iniziativa» del soggetto. Per cui, con somma arroganza, accusa la Chiesa di arretratezza e le intìma di abbandonare questa concezione a suo dire superata e di assumere la sua, se vuole essere all’altezza dei tempi, e saper parlare all’uomo moderno.  

Rahner dice che Dio Si comunica gratuitamente e liberamente all’uomo, ma poi, contradditoriamente sostiene che l’uomo, ogni uomo, per essenza, possedendo «già da sempre» la grazia come «esistenziale soprannaturale», non può non elevarsi liberamente per sua natura a Dio.

Per Rahner l’uomo è il livello minimo di Dio che scende all’uomo e Dio è il livello massimo dell’uomo che tende a Dio. L’essere, per Rahner, come per Teilhard de Chardin, non è gerarchico e diviso secondo una precisa scala di valori o di gradi tra di loro distinti, ma è come la colonnina di mercurio del termometro, che ora sale, ora scende. Quando è al massimo, abbiamo Dio. Quando è al minimo, abbiamo la natura. In mezzo c’è l’uomo.

In tal modo Dio diventa uomo semplicemente diminuendo o abbassando il suo essere o trasmutandosi in uomo, come già per Eutiche; e l’uomo diventa Dio aumentando o elevando il suo, come per Pelagio e gli gnostici[4]. In Hegel, invece, questo salire e scendere avviene per negazioni dialettiche. Ma anche in Hegel l’essere è uno ed univoco-equivoco. Parmenide si unisce ad Eraclito. Rahner invece sembra rifarsi all’emanatismo neoplatonico ed ariano.

L’essere in Rahner non è concepito secondo categorie logiche, ma come una ineffabile e indistinta fonte di luce interiore ed originaria, che ora aumenta, ora diminuisce. È infatti oggetto di un’«esperienza» concreta, benché «trascendentale», immediata ed originaria, ineffabile e non-concettualizzabile (Vorgriff). I concetti, anche dogmatici,  sono solo schemi immaginari o modelli metaforici, relativi o mitici, interpretativi, relativi, soggettivi e mutevoli, derivati dall’esperienza trascendentale.

L’esperienza sensibile, fonte del concetto, non precede ma segue l’esperienza trascendentale, che è il punto di partenza del sapere. Si tratta di un succedaneo del cogito cartesiano. Questa è l’impostazione della Vorverständnis heideggeriana. Il trascendentale corrisponde alla grazia. Il categoriale corrisponde alla natura.

Rahner, comunque, come Hegel, ha nel suo schema circolare sia la discesa (gnosi) che l’ascesa (pelagianesimo). La fine corrisponde all’inizio. Ma è chiaro che il suo idealismo dà la preferenza alla gnosi. Invece Teilhard e i teologi della liberazione, essendo materialisti, fanno prevalere la salita pelagiana: dalla materia allo spirito, dalla natura alla grazia. Il fine è il vertice dell’inizio. Dio è il vertice della materia.

Da qui vediamo che sia Rahner, che Teilhard de Chardin e i liberazionisti, per motivi opposti, cadono nello stesso errore condannato da Pio XII: la grazia è il vertice della natura (pelagianesimo) o ciò che eleva a sé ed assorbe in sé la natura (gnosticismo). Dio diventa uomo («autocomunicazione») e si dissolve nell’uomo. L’uomo diventa Dio («autotrascendenza») e si dissolve in Dio. Il primo è l’ateismo; il secondo è il panteismo.



Testo di Tomas Tyn[5]

1.     La grazia si aggiunge alla natura
           
Nella Sacra Scrittura e, in un modo particolare, nel’epistolario paolino troviamo una teologia già assai elaborata della grazia e della giustificazione. San Paolo insiste energicamente sull’origine soprannaturale, libera e gratuita della grazia: non la legge come un’opera umana, ma la fede viva come un dono di Dio è all’origine della salvezza: “Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,28). Il contesto che è quello di una polemica contro la presunzione giudaizzante, suggerisce un’interpretazione ben precisa. L’apostolo vuole escludere ogni merito da parte dell’uomo in vista della grazia giustificante, almeno nel senso della disposizione ultima ed adeguata (che la legge in qualche modo prepari la venuta di Cristo per S.Paolo è un teologumeno accertato).
Escludendo le opere della legge, San Paolo vuole mettere in risalto “l’inanità della speranza giudaica, che si fonda sulle opere della legge e si culla nell’illusione di poter conseguir la salvezza senza Gesù Cristo, quindi senza il riconoscimento che l’iniziativa di Dio è del tutto indipendente dall’uomo”.[6]
Dio non giustifica coloro che sono già giusti da se stessi, ma giustifica coloro che sono nel peccato e riconoscono il bisogno del dono soprannaturale della grazia salvifica. In questo vi è un indizio chiaro dell’abbondanza dell’amore di Dio, che si estende a tutte le cose e anche a coloro che sono più lontani da lui (nel senso morale), cioè appunto ai peccatori.[7]
La grazia come una gratuità aggiunta a quella dell’ordine naturale è ben distinta da esso. Se però è distinta non è completamente separata. La grazia suppone la natura e la perfeziona sanandola ed elevandola al piano soprannaturale. E’ il risultato di una predilezione libera, ma positiva. Infatti la grazia aggiunge qualcosa ai salvati, ma la sua assenza non sottrae niente di ciò che è dovuto ai non salvati. Non vi è perciò una duplice predestinazione, ma una sola in vista della salvezza. Se la salvezza è il frutto della predilezione divina, la riprovazione non è l’effetto di un’ipotetica esclusione dall’amore di Dio, bensì il risultato di una scelta libera dell’uomo.
Anche il peccatore ha una natura non del tutto corrotta e quindi buona, in quanto è appunto un ente, un’essenza, una natura e Dio la rispetta e la sostiene nell’essere; nei salvati però si aggiunge alla natura un’altra realtà che li prepara alla gloria[8]. “Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria”.[9]  L’apostolo, pur riconoscendo l’insufficienza della natura in vista della salvezza soprannaturale, mantiene una certa consistenza della stessa natura nel suo ordine, anche indipendentemente dalla grazia.
            Questa è esattamente l’opinione di San Tommaso. La grazia presuppone la natura, alla quale si aggiunge come una realtà nuova e gratuita, cioè non dovuta all’ordine naturale, il quale però ne ha strettamente bisogno in vista della sua finalità soprannaturale, sempre supponendo che Dio abbia voluto liberamente elevare una natura razionale ad una tale finalità soprannaturale.

2.     Necessità della natura come presupposto della grazia.
           
La natura è presupposta alla grazia come il perfettibile è presupposto alla perfezione[10]. Così la legge divina rivelata aggiunge qualcosa a quella naturale, ma suppone anche quest’ultima e quindi non è un’aggiunta del tutto estranea. Se la grazia è più efficace perché raggiunge fini più alti, la natura è più essenziale riguardo ad ogni cosa di cui è natura e perciò anche riguardo all’uomo. San Tommaso ne deduce la necessità di far precedere il battesimo (si intende quello degli adulti) da una istruzione di ordine naturale nella catechesi. La vita di grazia (rigenerazione) suppone la vita di una natura razionale che rende capaci sul piano naturale di accogliere la dottrina rivelata.
            La grazia perfeziona la natura e non la distrugge, nè la toglie di mezzo. Perciò anche la ragione serve alla fede e l’inclinazione naturale della volontà è alla base della carità. La grazia poi perfeziona la natura secondo il modo della natura stessa, in quanto ogni ricevuto è nel ricevente alla maniera del ricevente. La grazia è proporzionata al suo soggetto, che è l’anima razionale, come forma sostanziale dell’uomo; perciò negli uomini la grazia iniziale è uguale[11], non negli angeli perché la loro forma non è comune, ma è già individuata in se stessa.
            Dio rispetta la natura in genere, muovendola in modo naturale, in quanto è naturale ad una natura inferiore di essere mossa (passivamente) da una natura superiore. Ogni creatura è per natura sottomessa a Dio e perciò tutto ciò che Dio fa in essa è naturale, anche se talvolta non è naturale[12] secondo la natura particolare della cosa in cui si svolge l’azione divina (come ad esempio l’illuminazione di un cieco o la risurrezione di un morto).
            La beatitudine è al di sopra della natura in quanto l’anima razionale non vi può arrivare con le sue sole forze naturali, ma è secondo la natura dell’anima razionale in quanto quest’ultima è “capax scientiae beatae” in quanto “creata ad imaginem Dei”. La potenza intellettiva può arrivare a qualcosa di soprannaturale secondo l’oggetto, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, ma non secondo la virtù in quanto certi atti superano le sue forze naturali. La perfezione naturale si intende o per il moto proprio della natura o per il moto di un agente superiore alla natura e in questo senso la beatitudine soprannaturale rientra nelle perfezioni “naturali” dell’uomo, ma non nel senso che l’uomo ci può arrivare con un moto proprio, connaturale. La perfezione soprannaturale della visione beatifica può essere raggiunta solo per mezzo di un’istruzione gratuitamente concessa da parte di Dio.

3. La gratuità della grazia.
                       
Una virtù inferiore non si estende a quella superiore, ma una virtù superiore fa in un modo più perfetto l’azione della virtù inferiore. Ciò che eccede i limiti di una determinata natura le può essere dato solo da un agente diverso da essa e superiore rispetto ad essa per concessione gratuita. Ciò che avviene nella creatura come eccedente totalmente le sue facoltà dev’essere attribuito alla grazia divina. Siccome il proprio atto si realizza nella propria potenza, per ricevere una forma più alta si richiede una disposizione superiore del soggetto che lo elevi alla ricezione della forma superiore.
            La grazia è un dono che non proviene dalla natura, ma si aggiunge ad essa come una perfezione non dovuta[13]. Perciò, non essendo una forma sussistente (sostanza), ma accidentale, non ha né essere né divenire proprio, né propriamente si può dire creata. Vi è però in essa qualcosa della creazione in quanto non ha nel suo soggetto naturale né la sua causa efficiente né materiale dispositiva, così da poter essere “educta[14] in atto dalla potenza della materia. I doni gratuiti non provenienti dalla potenza della natura per un agente naturale, provengono da una nuova infusione, anche se il loro aumento è un passaggio dal meno perfetto al più perfetto. Solo Dio può conferire la grazia che è al di sopra di ogni facoltà della natura creata. E’ per questo che Cristo istituì i sacramenti che conferiscono la grazia perché solo Lui poteva concedere la grazia che non possiamo in nessun modo ottenere da noi stessi.
            La grazia è inoltre prodotta da Dio immediatamente perché supera la capacità di agenti creati (non potendo essere “estratta”[15] dalla potenza della materia). Inoltre ci congiunge immediatamente a Dio secondo una certa somiglianza e perciò viene immediatamente prodotta da Lui ed infine, in quanto la grazia conduce all’ultima perfezione, dev’essere attribuita a Dio come primo agente. Tutto ciò che vi è nell’uomo in ordine alla salvezza è compreso nell’effetto della predestinazione, anche la stessa preparazione alla grazia e quindi l’effetto della predestinazione preso globalmente non ha nessuna causa da parte nostra, ma solo da parte della volontà assolutamente libera di Dio.

4. La necessità della grazia per raggiungere effetti soprannaturali.
                       
La conoscenza naturale è aiutata dalla rivelazione gratuita in quanto la luce naturale dell’intelletto è confortata dall’infusione della luce gratuita e talvolta si formano divinamente anche dei fantasmi[16] nell’immaginazione come accade nelle visioni profetiche o perfino delle voci sensibili come avvenne nel battesimo di Gesù. L’uomo è ordinato al fine ultimo soprannaturale ed ha bisogno di una conoscenza adeguata di esso. Ma siccome un tale fine è superore alle facoltà naturali della ragione, è necessario che gli sia rivelato tutto ciò che è al di là delle capacità naturali del suo intelletto. Così l’uomo non può conoscere la grazia che è in lui, perché la sua presenza dipende unicamente dalla volontà divina, i cui decreti ci sono profondamente nascosti, ma si può conoscere o per congetture  attraverso certi segni esterni o con certezza quando Dio concede una rivelazione particolare.
            Il dono di grazia eleva l’uomo a qualcosa che è sopra la natura umana, sia per quanto riguarda la sostanza dell’atto che per quanto riguarda il modo e per questi atti, soprannaturali “quoad modum” è infusa da Dio la grazia abituale santificante.
            L’uomo è stato gratuitamente elevato ad un fine soprannaturale: un dono che non poteva essere dato a delle creature inferiori incapaci di arrivare ad un fine superiore alla loro natura. Ora, se l’uomo è ordinato ad un fine che è sopra la sua natura, deve avere i mezzi proporzionati al fine e cioè deve avere un aiuto soprannaturale e gratuito di Dio. La beatitudine perfetta infatti non può essere raggiunta dalla natura creata, perché consiste nella visione dell’essenza divina. Ma la conoscenza creaturale è secondo il modo della sostanza creata e quindi inferiore rispetto ad un oggetto così alto e sublime, infinitamente eccedente ogni sostanza creata.
            Né l’uomo né qualsiasi altra creatura può per natura sua conseguire la beatitudine perfetta, in quanto la sua forza e la sua azione è limitata e soggetta alle leggi della natura. Se perciò avviene qualcosa di soprannaturale, dev’essere attribuito a Dio e così anche la beatitudine che eccede le capacità naturali delle creature. Solo Dio può causare il dono gratuito della beatitudine perfetta, la quale perciò non si ottiene per natura, bensì per grazia. La grazia a sua volta è ordinata alla beatitudine perfetta. Così gli angeli furono creati immediatamente in grazia di Dio, perché erano virtualmente destinati alla beatitudine soprannaturale.
            San Tommaso rivela quindi un grande senso per l’autonomia e la consistenza della natura nel suo ordine, per la superiorità della grazia, ma anche per la presenza in qualche modo “connaturale” della grazia nel suo soggetto naturale, il quale non solo non è distrutto o danneggiato nella sua perfezione naturale, ma perfezionato e sopraelevato ad un livello più alto.

 
5. Natura e grazia

a.     La natura.[17]

Ogni cosa è quel che è per mezzo della sua essenza (“id quo aliquid est id quod est”), la quale, come principio di operazione, si chiama “natura”. L’essenza di una specie dà l’unità alla specie e la distingue da altre specie. L’essenza in sé non è né universale né individuale, ma realmente esiste solo in un supposito individuale come natura individuale identificata con il suo supposito.
La natura individua è però la stessa natura universale individuata da un supposito individuale o identico con essa (forme separate individuate “in specie”) o da essa realmente distinto (forme inerenti alla materia individuante).
La natura individua comprende in sé la natura universale come sua parte formale, la quale è per conseguenza reale nel suo soggetto concreto. Il termine supposizionale come costitutivo formale del supposito sussistente si distingue secondo una distinzione reale modale[18] dalla natura individua  (suppositum). Nelle forme inerenti vi è inoltre una distinzione reale tra la forma e il suo supposito individuale (il principio individuante è infatti la materia distinta dalla forma), mentre nella forma separata la natura è già individuata in sé, è il suo supposito.[19]
Così si spiega come i gradi metafisici (natura dell’individuo, della specie e dei generi) si identificano nell’individuo e allo stesso tempo vi è una distinzione tra la natura universale (forma) e il principio di individuazione (materia prima attitudinalmente quantificata) nelle realtà composte di materia e forma.
La natura comune è partecipata nei singoli individui, i quali a loro volta hanno parte in un’unica realtà comune a tutti, che li definisce, li fa essere ciò che sono rispetto all’identità con se stessi e alla differenza da altri esseri. Cambiare l’essenza significa cambiare lo stesso essere di una cosa; è perciò impossibile che una cosa sia cambiata quanto all’essenza rimanendo nella sua propria identità: questo infatti implicherebbe contraddizione e quindi non-fattibilità oggettiva, alla quale non si estende la potenza (nemmeno quella “assoluta”) di Dio.
L’essenza è perciò il principio dell’identità delle cose e per conseguenza della loro proprietà e distinzione. Sul piano dell’essere le cose dipendono da Dio in linea di causalità efficiente; invece sul piano dell’essenza la dipendenza si realizza prevalentemente in linea di causalità formale. Dio crea le essenze ponendole in esse; considerate invece indipendentemente dal loro essere, sono prodotte da Dio secondo il suo intelletto, ma l’atto creativo pratico suppone già l’essenza concepita come un’idea nella mente divina[20].
Dio potrebbe creare altre essenze al di fuori di quelle che di fatto crea, ma allora creerebbe secondo altre idee, secondo altre essenze già concepite, già esistenti in un modo intenzionale e potenziale.
Il nesso tra essenza ed essere è contingente in tutte le cose create e la loro essenza è ordinata trascendentalmente (cioè secondo tutto il suo essere) all’essere attuale, come la potenza è ordinata al suo atto; ma la creatura è in relazione solamente predicamentale[21] al suo Creatore in quanto il suo “essere creato” suppone un soggetto (essenza individua) già costituito per poter aderirvi come un accidente; la creatura non si riduce al suo essere creato[22]. Essa ha infatti un essere, ma lo ha secondo una tale essenza o natura propria; a sua volta però, la natura è distinta dall’essere e lo riceve secondo il suo modo proprio.  
            San Tommaso pone l’origine delle singole essenze o “rationes rerum” nella mente divina che formula diverse idee secondo la diversa partecipabilità della sua essenza infinita concepita dall’intelletto divino.
            Dio intende di per sè il bene di tutto l’universo e per conseguenza anche quello delle parti: la concezione dell’universo è impossibile senza quella delle singole parti di esso. Ed è secondo le proprie nature (“rationes”) delle cose che Dio crea ogni singola realtà. La concezione che Dio ne ha nel suo intelletto è l’idea non come mezzo di conoscenza (la conoscenza divina infatti è immediata), bensì come un oggetto conosciuto.
Sul piano pratico Dio crea secondo le “rationes rerum”; invece sul piano puramente conoscitivo è Lui che nell’intelletto produce le stesse “rationes” come idee architettoniche del cosmo, non dipendenti dalle cose stesse, ma dall’intelletto divino, che conosce la stessa essenza divina come diversamente partecipabile dalle creature secondo una certa somiglianza. Ed è quindi proprio come una partecipazione dell’essenza divina che ogni creatura ha la sua specie propria.
La stessa “naturalità  delle cose, la loro “proprietà”, il fondamento della loro relativa indipendenza ontologica è un effetto del progetto architettonico nella mente divina. Le creature sono indipendenti in quanto imitano nella loro essenza o “ratio rei” la stessa indipendenza dell’essenza divina, cioè in quanto dipendono dall’intelletto divino. Più profonda è questa dipendenza di imitazione esemplare[23], più consistente è la stessa natura delle creature e la loro indipendenza essenziale.
 
            La natura di ogni cosa è la sua forma prima e più intima, alla quale si aggiungono tutte le altre perfezioni. Così ad esempio gli esseri dotati di intelletto, prima ancora di essere dotati di conoscenza razionale, sono dotati di una natura che a sua volta comprende la razionalità. La natura è la stessa essenza come principio di operazione, ma ogni cosa agisce per la sua forma e perciò ogni natura individua ha la sua specie propria secondo la sua forma o natura universale. La natura specifica è uguale in tutti gli individui in cui si verifica e si dice ugualmente di tutti (“natura una in multis et de multis”, “natura … aequaliter in omnibus invenitur”). 
            La natura determina l’essere di ogni cosa distinguendolo dall’essere delle altre cose. Si tratta quindi di un principio delimitante, definiente e perciò a sua volta ben delimitato e definito. 
Alla natura non si può aggiungere nulla come parte di essa, ma si può aggiungere qualcosa all’individuo, che ha una tale natura.[24] Ne segue necessariamente che tutto ciò che è sopra la natura si distingue realmente da essa. E’ così che le virtù teologali si distinguono da quelle intellettuali e morali. E’ per questo che la carità è infusa: in quanto cioè l’effetto naturale non trascende la sua causa e per conseguenza ciò che eccede le facoltà della natura non può essere nel soggetto in un modo naturale, né può essere acquistato per mezzo delle forze naturali. La natura non è principio sufficiente di ciò che è sopra la natura, anche se ne è il presupposto necessario. Infatti non avrebbe senso parlare di effetti soprannaturali se non rispetto ad una natura determinata. 
            La legge naturale corrisponde alla finalità insita nelle creature. In questo senso è una vera legge come un ordine della ragione per il bene universale del mondo promulgato dal Creatore, che ne è l’autore ed il governatore supremo. Le sue caratteristiche corrispondono a quelle della natura stessa. E’ immobile nei suoi principi universali, anche se, nelle ultime conclusioni più particolari può deficere[25] (ut in paucioribus), sia quanto alla conoscenza, sia quanto alla rettitudine. La sua immobilità deriva dalla sua partecipazione alla Legge eterna che è la stessa essenza di Dio. 
            L’intelletto divino istituisce la natura in un modo perfetto e quindi attitudinalmente immobile (ma deficiente ut in paucioribus in quanto la materia si può eccezionalmente sottrarre all’ordine della forma) e contenente dei principi universali sempiterni. La legge naturale e divina (positiva) possono essere cambiate solo dalla volontà di Dio, da cui procedono. 
            Qui però bisogna fare attenzione ad una distinzione fondamentale: la legge positiva può cambiare con una nuova rivelazione; quella naturale invece, essendo “promulgata” nella stessa creazione, potrebbe cambiare solo nell’ipotesi di un’altra creazione, ma, supposto che Dio abbia voluto creare un tale mondo determinato con tali finalità precise, ne risulta una legge naturale ben definita nell’ambito e nei limiti di questo stesso ordine. Come la natura con la sua finalità operativa è intima ad ogni cosa, così anche la legge naturale è “indita” alla natura umana. 
E San Tommaso distingue bene il duplice modo di intendere l’interiorità della legge: quella naturale è indita come parte della natura stessa, mentre quella della grazia è indita in quanto inerisce al soggetto umano, ma è quasi “aggiunta” rispetto alla natura. La grazia e la legge nuova che le[26] corrisponde è per conseguenza nella natura (contro l’estrincesismo), ma vi è come qualcosa di aggiunto ad essa (contro l’immanentismo); la legge naturale invece non solo è nella natura ma vi è come parte della natura stessa. L’ordine della grazia non toglie la natura e perciò la legge naturale rimane e nell’economia dell’Antico e in quella del Nuovo Testamento.
         
La conoscenza naturale è presupposta a quella soprannaturale e si distingue realmente da essa. Essa infatti riguarda Dio come l’autore della natura creata e del suo essere connaturale, non come l’autore della grazia giustificante ed oggetto della visione beatificante. La formalità diversa specifica una conoscenza diversa: quella naturale distinta da quella soprannaturale di fede e di visione.
Solo la conoscenza soprannaturale ha un effetto salvifico, giustificante; solo essa può fondare il moto della volontà nell’atto della speranza e della carità. Queste virtù infatti tendono al fine soprannaturale e quindi esigono una conoscenza previa adeguata di questo fine e cioè una conoscenza soprannaturale per fede. 
Un simile ragionamento si deve fare anche per l’amore di Dio, che può essere naturale o soprannaturale. Il primo riguarda Dio come principio dell’essere naturale, il secondo invece si converte[27] a Lui come al principio beatificante per mezzo della visione immediata della sua essenza. Il primo è connaturale e quindi raggiungibile con le sole forze della natura; il secondo eccede i limiti della natura creata e proviene da un dono gratuito.
L’amore di amicizia si fonda su di una comunicazione di beni: se si tratta di beni naturali, è naturale; se invece la comunione riguarda dei beni soprannaturali, è un dono gratuito di Dio. Vi è un amore naturale di ogni cosa per il suo essere e la massima perfezione della creatura razionale consiste nell’amore di Dio, che riassume in sé la bontà di tutte le creature. Solo la carità soprannaturale unisce però veramente con Dio, fa entrare in comunione di vita spirituale con Lui.
In sé Dio è sommamente degno di amore, ma siccome la nostra volontà segue spesso dei beni sensibili, vi è bisogno della carità affinché ci si orienti perfettamente a Dio. L’amore di Dio sopra tutte le cose è connaturale all’uomo secondo la sua natura considerata però nella sua totalità. Ora, dopo il peccato originale, l’uomo non è più in grado di raggiungere la pienezza degli effetti connaturali ed ha perciò bisogno della grazia sanante anche sul piano della natura stessa.
Dopo il peccato originale l’amore di Dio sopra ogni cosa è un amore soprannaturale di carità, fondato però sulla tendenza naturale ad amare Dio sopra ogni cosa, tendenza che raggiungeva il suo pieno effetto solo  nell’integrità della natura, ma che rimane anche se deficiente nei particolari e quindi anche nella totalità dell’effetto connaturale, perfino nello stato di natura decaduta come una disposizione di base.  
L’amore naturale di Dio sopra tutte le cose non è però la carità. Il primo infatti riguarda Dio come fine di un bene naturale; quest’ultima invece tende ad una vera e propria società spirituale con Dio, oggetto della beatitudine. Il GAETANO[28] distingue bene tra la dilezione naturale e quella soprannaturale, in quanto l’amore naturale è secondo la natura, secondo l’intera sua capacità, non però come proveniente dalla natura stessa (riguarda infatti lo stato di natura integra e non vi sarebbe nell’ipotesi di una “natura pura”)[29]. Il fatto che la natura decaduta non adegua più la totalità delle sue capacità originali è puramente accidentale come lo è la stessa infermità della natura conseguente al peccato originale, che porta con sé la tendenza disordinata al bene particolare.
L’amore di carità, strettamente soprannaturale, supera la capacità della natura in quanto suppone la rivelazione gratuita dell’amore di Dio (l’amore di amicizia è infatti reciproco) e comunione di beni divini (l’amicizia fondata su di una comunione di beatitudine). Perciò[30] fa rientrare la dilezione naturale nella virtù di religione che fa parte della giustizia ed afferma che è in questo senso che il precetto dell’amore di Dio e del prossimo si può in qualche modo adempiere anche sul piano naturale senza la carità infusa.
Ovviamente non v’è la stessa relazione tra carità e dilezione naturale come tra virtù infusa ed acquisita, perché la carità è infusa per la sua stessa essenza e per conseguenza non ha un equivalente “acquisito” come la virtù morale che può essere o infusa o anche acquisita, ma se la carità non ha un equivalente naturale a livello di abito acquisito, ha nondimeno un fondamento naturale nella dilezione naturale spontanea. 
            Posta la distinzione reale tra la natura e la grazia ed affermata l’inerenza della grazia al soggetto naturale, ne segue che la differenza tra lo stato di giustizia originale e lo stato di natura decaduta non sarà nè quella tra una natura perfetta e una natura completamente distrutta in seguito, né si tratta di una natura sostanzialmente uguale, che con il peccato perde solo una perfezione esterna rimanendo in sè del tutto intatta.
Il peccato originale non è indifferente rispetto alla natura, ma nemmeno la distrugge completamente; la danneggia e la rende inferma. Secondo S. Tommaso, triplice è il dono naturale: quello della giustizia originale soprannaturale secondo la sua origine e la sua destinazione finale, ma naturale secondo il suo modo di essere nel soggetto; quello dell’inclinazione alle virtù e alle loro operazioni; infine, quello dei principi naturali.
Ora, la giustizia[31] è stata tolta completamente[32]; la natura in sensu stricto è rimasta perfettamente intatta per quanto riguarda i suoi principi entitativi (ad es. l’uomo è un essere animato ragionevole ante et post lapsum indifferentemente); invece è stata resa inferma o “inclinata”[33] per quanto riguarda i principi operativi (inclinazione al bene particolare).
L’ipotetica “natura pura” - un pensiero del tutto legittimo del GAETANO - si deve intendere della natura come principi entitativi e così si può dire senza esitazione che tra la natura pura e quella decaduta vi è solo una differenza come tra una persona nuda ed una spogliata di vestiti; la natura rimane la stessa ma nel caso della natura pura i difetti erano naturali, mentre nello stato di natura decaduta hanno ragione di pena per una colpa[34].
Quando poi si parla di principi “entitativi”, le stesse conclusioni valgono anche per le facoltà operative, in quanto sono degli enti, non però in quanto sono formalmente operative. La base ontologica delle capacità operative è quindi intatta; la loro operatività invece è inclinata al male. Se infatti la grazia è intesa come un accidente non dovuto alla natura, allora il peccato non potrà essere inteso come una distruzione totale della natura, perché togliendo la grazia la natura rimane nel suo ordine (ben differente e ben distinto da quello della grazia), ma siccome la grazia inerente al soggetto naturale ne ordinava le facoltà al fine soprannaturale ed anche alla totalità del bene connaturale, la sua assenza provoca una ferita nell’operatività anche naturale: le facoltà naturali abbandonate a se stesse cominciano a tendere a dei beni particolari senza più adeguarsi alla totalità del loro bene connaturale.[35]

b.     La grazia.[36]

La grazia è accidentale rispetto alla natura del suo soggetto, che è una sostanza razionale sussistente. La sostanza infatti o è la natura o fa parte di una natura come la forma o la materia. Se perciò la grazia fosse “sostanziale”, dovrebbe appartenere alla natura e quindi non sarebbe più né soprannaturale né gratuita. Per essenza sua la grazia è accidentale rispetto all’anima, che è il suo soggetto. Ovviamente la grazia increata, che è lo stesso atto divino con cui la grazia creata viene data, è sostanziale in Dio, in quanto è identica alla stessa essenza sussistente di Dio.
Il suo effetto, essendo solo un’imperfetta partecipazione dell’anima alla bontà divina, è accidentale rispetto all’anima e quindi meno perfetto dell’anima stessa quanto al suo modo di essere, ma infinitamente più alto dell’anima quanto alla sua azione, che è quella di far partecipi alla bontà di Dio, di cui la grazia è un’espressione speciale. L’imperfezione del modo di essere non diminuisce la nobiltà intrinseca della grazia.   
Anzi, il voler farne una sostanza[37] potrebbe rivolgersi proprio contro la sua dignità come accade con la carità (virtù coestensiva con la grazia) se si confonde con lo stesso Spirito Santo (ipotesi di una grazia increata come effetto dell’anima); così infatti diventa una cosa divina, ma cessa allo stesso tempo di essere una cosa umana e quindi non sarebbe una virtù vera e propria della persona umana (ed è proprio questa la tesi estrinsecistica degli pseudosupernaturalisti).
La grazia è perciò una qualità (e quindi una realtà accidentale), un abito (prima specie della qualità)[38] ordinato come abito non direttamente all’atto (ha bisogno delle virtù infuse per raggiungere l’atto), ma ad un ornamento interno dell’anima e ad una disposizione rispetto alla gloria. E’ un accidente particolare, esulante completamente dagli accidenti naturali dell’anima, ma rientra appunto, nonostante la sua particolarità, nelle realtà accidentali. La grazia inoltre è in un modo mutevole nell’anima, cioè può essere persa per un peccato mortale in statu viae. Anche questa è una conseguenza della sua accidentalità, in quanto, avendo un essere completo nell’anima come una forma accidentale, segue le variazioni del suo soggetto, il quale cambia le sue disposizioni secondo le scelte del libero arbitrio. 
            Vi sono dei teologi che trovano inadeguato il termine “accidentale” applicato da San Tommaso alla grazia, perché vedono messa in questione l’inerenza intima della grazia al soggetto umano e la sua operatività in esso. Ora qui bisogna dire che:
1)   San Tommaso stesso fa delle riserve dicendo che la grazia è un “accidente” sconosciuto ai “filosofi” e cioè del tutto particolare[39];
2)   che sarebbe un errore immaginarsi gli accidenti (anche quelli predicabili[40]) come qualcosa di puramente estrinseco (talvolta, in un’interpretazione deteriore della metafisica aristotelica, ci si serve perfino dell’immagine completamente inadeguata degli “abiti appesi ad un attaccapanni”);
3)   il termine “accidentale”, nonostante l’inadeguatezza essenziale del linguaggio umano davanti al mistero soprannaturale, è il più adatto, perché salva e la gratuità della grazia e la sua reale inerenza al soggetto.
            La tesi di San Tommaso è la seguente: la grazia abituale è una forma accidentale aggiunta, ma inerente e permanente rispetto al suo soggetto. Siccome la grazia è un aiuto in vista dell’ultimo fine, è necessario che la grazia aiuti l’uomo durante tutto il suo cammino verso il fine ultimo. Un tale aiuto non può essere solo un moto o una passione, che sono transitori, ma dev’essere una forma permanente e che quasi riposa nell’uomo (“quasi quiescens in ipso”). Il moto e la passione (grazia attuale) vi sono solo nella conversione attuale dell’uomo al fine ultimo; la grazia abituale invece rimane anche quando l’uomo non opera. Il fine, essendo soprannaturale, anche la forma secondo la quale si opera in vista del fine dev’essere aggiunta come una perfezione soprannaturale, ma allo stesso tempo dev’essere inerente all’uomo perché è l’uomo stesso che per le sue azioni deve dirigersi verso il suo fine. 

San Tommaso dice in sostanza che:
a) oltre alla grazia attuale vi è quella abituale,
b) la prima è un moto, l’altra un abito,
c) la seconda non è una “qualitas otiosa in corde” per usare un termine di LUTERO, ma anch’essa è ordinata all’atto mediante le virtù infuse (dinamica del fine - cammino verso il fine ultimo), 
d) la grazia, oltre alla sua operatività, ha anche un’entità che è presupposta ad ogni operazione (“agere sequitur esse”),
e) un’entità aggiunta e quindi un accidente che non deriva dall’essenza del suo soggetto,
f) è però inerente al soggetto perché l’azione deve essere del soggetto stesso (“actiones sunt suppositorum” ).

La gratuità è sottolineata particolarmente nella caratteristica della grazia  di essere un dono di Dio eccedente la natura creata, in quanto rende partecipi della natura divina. Perciò esclude il merito in quanto un dono è concesso gratuitamente senza un merito previo o anche previsto come futuro (diversamente sarebbe una ricompensa e non un dono vero e proprio).
Il dono inoltre è aggiunto a colui che né è dotato perché la grazia eccede la natura umana impedita inoltre dal peccato originale e dalle sue tragiche conseguenze. La grazia è un’illustrazione divina che illumina l’anima e perciò il decoro della grazia proviene dall’infusione di questa luce divina. Solo Dio può essere la causa principale della grazia, che è una partecipazione alla natura divina nell’anima, nella quale solo Dio può operare interiormente. Nella causalità della grazia sacramentale i sacramenti e la stessa natura umana di Cristo hanno un valore puramente strumentale e l’agente principale è sempre Dio solo.
La grazia aggiunge una gratuità particolare rispetto alla natura creata che a sua volta è in qualche modo gratuita in quanto procede dalla libera volontà di Dio, che causa nel suo amore la bontà delle creature colmandole dei suoi doni, cioè delle perfezioni naturali; ma la grazia corrisponde ad un amore speciale di Dio, che chiama la natura razionale ad un’amicizia soprannaturale, ad una società di perfetta beatitudine.
Per antonomasia è questo amore speciale che si chiama semplicemente “amore” ed è questa grazia speciale che si dice semplicemente “grazia”, anche se pure i doni naturali potrebbero essere chiamati in qualche modo “grazia” in sensu largo.
La natura è gratuita perché non meritata, i doni di grazia sono gratuiti non solo perché non meritati, ma anche perché aggiunti alla natura stessa. Dio non è tenuto a creare l’uomo, ma se lo crea, lo crea necessariamente nella sua natura che gli è dovuta. Non necessariamente lo crea in grazia, la quale invece supera la sua natura come un dono non dovuto ad essa.
             L’interiorità della grazia è accentuata quando si mette in risalto il fatto che la grazia è una partecipazione alla natura divina. E’ ovvio che una partecipazione coinvolge il soggetto partecipante; l’uomo per mezzo della grazia entra in comunione di vita con Dio, è “consors divinae naturae”, figlio di adozione, ordinato alla gloria e alla beatitudine eterna. Per questo il dono di grazia incide nella vita dell’uomo come una “ratio divina” che lo dirige continuamente alla sua destinazione soprannaturale.

c.      Opinioni divergenti da quella di S. Tommaso.
                       
PSEUDOSUPERNATURALISMO.
La natura esige la grazia che le rimane però estrinseca sostituendola. L’uomo creato non è necessariamente dotato di grazia, la creazione si distingue dall’elevazione al fine ultimo soprannaturale e dalla redenzione.
Né si può dire che la distinzione tra natura e grazia nella Sacra Scrittura sia dovuta ad una “concezione mitologica” (BULTMANN) secondo la disposizione del cosmo “a tre piani” (cielo, terra, inferi). Il significato biblico della gratuità speciale della grazia rispetto alla natura è profondamente teologico e del tutto indipendente da eventuali concezioni cosmologiche. Essa significa infatti che Dio è esente da qualsiasi debito soprannaturale nei confronti delle creature[41].

LUTERO, esagerando le esigenze “soprannaturali” della natura ante lapsum la considera completamente distrutta post lapsum, come se, persa la grazia originale, si fosse perduta anche tutta la bontà naturale. Il suo ragionamento, come quello di BAIO e dei GIANSENISTI, è fondato su di una indebita confusione tra natura e grazia nello stato originale, il che porta ad una altrettanto indebita separazione nello stato attuale.

            NATURALISMO.
Nella sua radice PELAGIANA questa tendenza riduce la grazia alla natura negandone l’accidentalità ed affermandone allo stesso tempo l’inerenza reale al soggetto: il risultato è quello di far rientrare la grazia nella stessa natura come una parte di essa.
          La concettualità tomista di “grazia abituale” garantisce invece le sue esigenze fondamentali: l’inerenza della grazia al soggetto[42] e la sua gratuità[43]. La SCRITTURA[44] e il MAGISTERO[45] [46] riconfermano pienamente questi dati ottimamente spiegati nell’insieme della dottrina tomista, i quali però vengono meno sia in una prospettiva essenzialista, sia in quella nominalista (personalista). Salvo un giusto pluralismo dottrinale, sembra di poter concludere senza esitazione dicendo che la concezione tomista mantiene molto bene il delicato rapporto tra natura e grazia, che è alla base dello stesso mistero della fede cristiana.
            Non tutti interpretano però S. Tommaso allo stesso modo. I tentativi recenti di una rilettura non-scolastica, più personalista e soprattutto più “ecumenica”, in breve una rilettura detta “tommasiana” per contrapposizione all’interpretazione tomista, insiste sull’esteriorità della grazia rispetto all’uomo. Il concetto di grazia “creata” implicherebbe sempre un riferimento a Dio, Creatore e Datore della grazia[47]. Ora un tale riferimento indubbiamente c’è ma non è riduttivo. S. Tommaso afferma esplicitamente la consistenza propria delle creature davanti a Dio[48]. La creatura non si riduce al suo essere creato. In tal modo anche la grazia creata dice una relazione rispetto a Dio senza danno per la sua consistenza propria nell’uomo.
            Allo stesso tempo però, secondo questa stessa opinione, la natura “esige” la grazia, così che il soprannaturale entra in qualche modo a “far parte” di essa.[49]  Ora San Tommaso afferma che la grazia inerisce alla natura dell’anima umana. Questo però non significa minimamente che la grazia è “dovuta” al suo supposito naturale o che entra a far parte di esso, anche se vi si aggiunge senza contraddizione e con una certa soave continuità.
            Se la grazia è gratuita in genere, lo è a fortiori la grazia di Cristo, in quanto la stessa incarnazione è un’opera della grazia divina e quindi aggiunge un’ulteriore ragione di gratuità. Questo fatto però viene assai spesso trascurato da coloro che vedono l’inizio della redenzione nella stessa creazione (non distinguendo ovviamente tra la potenza obbedienziale e quella naturale), i quali attribuiscono a Cristo il merito del resto della bontà naturale rimasto dopo il peccato (come se la natura, termine della creazione, traesse tutta la sua proprietà e quindi tutta la sua resistenza all’opera disgregatrice del peccato dalla redenzione), arrivando perfino a trovare un “accordo” tra il cristianesimo luterano e quello di S. Tommaso, un accordo che ci sarebbe realmente anche se non esplicitamente.[50]  S. Tommaso però rimane teocentrico e distingue bene tra la creazione e la redenzione – quest’ultima suppone la prima, ma la prima non dà nessun “diritto” a quest’ultima.
            La grazia sarebbe sempre estranea all’anima, non sarebbe mai dell’uomo, proprio così come insegna Lutero. S. Tommaso avrebbe detto questo in termini “alienanti” (“befremdend”) del suo vocabolario scolastico, ma grazia “accidentale” significherebbe proprio “grazia estranea”.[51] E’ indubbio che l’accidentalità della grazia sottolinea la sua gratuità, ma in una prospettiva tomista si potrà difficilmente parlare di una estraneità.
            S. Tommaso sarebbe “inconseguente” quando designa la grazia come qualità nel senso analogico (ricordiamo che “analogico” si riduce in questa prospettiva quasi all’“equivoco”), ma fortunatamente lascerebbe così spazio ad un dinamismo personalistico e all’azione dello Spirito Santo.[52]  Dire che la grazia è qualità nel senso analogico non significa però, nel pensiero di S. Tommaso, che di fatto non si tratterebbe di una qualità vera e propria; ma vuol dire solo che la grazia propriamente appartiene al genere della qualità, ma a modo suo particolare e caratteristico solo di essa. Né si tratta di “lasciare spazio” per l’azione divina e per il dinamismo dell’azione umana personale, perché entrambe sono garantite dallo stesso concetto di grazia come realtà “accidentale”, come “qualità”.
            Svuotando la grazia abituale della sua realtà accidentale di una qualità vera e propria, si corre evidentemente il rischio di far diventare Dio quasi immediatamente la forma dell’anima stessa. La grazia increata divinizzerebbe così l’uomo senza la mediazione della grazia creata[53] [54]. Questo pensiero va sicuramente incontro all’avversione luterana contro ogni tipo di mediazione tra l’uomo nella sua concretezza e Dio, ma corre il rischio non indifferente del panteismo e sicuramente non si può attribuire a S. Tommaso.

P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 6 giugno 2019


[1]  Cfr. Summa Theologiae I, q.62, a.5 c.a.; III, q.69, a.8 arg. 3 e ad 3; I, q.2 a.2 ad 1; I-II, q.99, a.2 ad 1; q.94, a.6 ad 2;
III, q.71, a.1 ad 1; I, q.1, a. 8 ad 2; III, q.44, a.2 ad 1; In Rm XI, 1.3; Summa Theologiae III, q.9, a.2 ad 3; I-II, q.109, a.3 ad 2; II-II, q. 2, a.3 c.a.; De Verit. q.14, a.10 c.a.; S.Th. I, q.84, a.1 ad 2; Contra Gentes III, 52, nn.2295-2296; 53 n.2299; De Pot. q.3, a.8 ad 3; S. Th. I-II, q.108, a.2 c.a.; I-II, q.112, a.1 c.a.; II-II, q.8, a.1 ad 2; I Sent. d.14, q.3 c.a.; d.17, q.2, a.2 c.a.; S.Th. I, q.63, a.3 c.a.; S. Th., I, q.12, a.13 c.a.; I-II, q.5, a.5 c.a.; a.6 c.a; Contra Gentes III, 147, n.3202; S.Th. I, q.112, a.5 c.a.; q.1, a.1 c.a.; II-II, q.171, a.2 ad 3.
[2] Cf Luigi Bogliolo, Il problema della filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia 1959; Y.Floucat, Per una filosofia cristiana. Elementi di un dibattito fondamentale, Editrice Massimo,Milano 1987, J.Maritain, Sulla filosofia cristiana, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1978.
[3] Nove Lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1979.
[4] Cf Giovanni Filoramo, Il risveglio della gnosi ovvero diventare dio, Edizioni Laterza,Bari 1990.
[5] Testo tratto dalla Bozza originale della Tesi di Dottorato "L'azione divina e la libertà umana nel processo della giustificazione secondo la dottrina di San Tommaso d'Aquino", testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli O.P.
(http://www.arpato.org/).
[6]  Otto KUSS, La lettera ai Romani, Brescia, Morcelliana, 1962, p.171 ss.
[7]  Cfr. M.-J. LAGRANGE, OP, St. Paul. Epître aux Romains, Paris, Gabalda, 1916, 103 ss. : “( L’amour de Dieu ) est assez riche pour ne pas se préoccuper des qualités de ceux envers lesquels il s’exerce”.
[8] Già da queste prime battute della trattazione, vediamo come l’Autore, che per ben tre volte ripete il verbo «aggiungere», si oppone alla tesi di Rahner, che invece si rifiuta di ammettere che la grazia si aggiunge alla natura e la considera una semplice «autotrascendenza» della natura. Nota mia.
[9] Rm 9,22 ss. Cfr. Il commento di Karl PRÜMM, Il messaggio della lettera ai Romani, Brescia, Paideia, 1964, 123-124.
[10] Sbagliata, quindi, è la concezione di Rahner, che paragona il rapporto della grazia alla natura al concreto che realizza l’astratto o all’esistenziale che attua un’essenza universale possibile o concepisce la grazia come il trascendentale atematico che si determina nel categoriale proprio della natura. Nota mia.
[11] E’ uguale specificamente, perché tutti noi esseri umani partecipiamo della stessa specie. Ciò però non toglie che Dio, nel mistero dei suoi misteri, doni ai singoli individui diverse quantità di grazia, a chi di più e a chi di meno: vedi la parabola dei talenti. Nota mia.
[12] È al di sopra della sua natura, non nel senso che vada oltre le esigenze della natura, ma nel senso che le soddisfa in un modo del quale la natura deficitatria (cieco o defunto) non è capace. Nota mia.
[14] Nel senso che non rientra nelle esigenze, nei fini, nei bisogni e nei diritti della natura, ma dà più di quanto la natura chieda o desideri. Nota mia.
[15] O edotta. Nota mia.
[16] Immagini. Nota mia.
[17]  Cfr. Summa Theologiae I, q. 45, a.3 ad 3 (GREDT II 239, n. 833); q.15, a. 2 c.a. e ad 3; ad 4; q.60, a.1 c. a.; Contra Gentes IV 36, n.3740; Summa Theologiae II-II, q.5, a.4 ad 3; I-II, q.62, a.2 s.c.; II-II, q.24, a.2 c.a.; I, q.60, a.2 c.a.; I-II, q.97, a.1 ad 1; a.3 ad 1; q.106, a.1 ad 2; Suppl. q.6, a.2 ad 2; I-II, q.113, a.4 ad 2; II-II, q.4, a.7 c.a.; I, q.62, a.2 ad 1; q.63, a.1 ad 3; II-II, q. 24, a.2 ad 2; I-II, q.109, a.3 c.a.; ad 1; IV Sent. d.28, a.3 ad 2 (DThC 6, II, coll.1587 ss., VAN DER MEERSCH); I-II, q.85, a.1 c.a.
[18] Reale modale vuol dire che non riguarda l’essere, ma il modo d’essere. Nota mia.
[19] Per i principi di individuazione come principi di sussistenza e di distinzione dei sussistenti, cfr. De Pot. q.9, a.5 ad 13. Cfr. anche Summa Theologiae I, q.3, a.3 c.a.
[20] P.Tomas ci mostra qui due modalità del creare divino: un creare di tipo efficiente e un creare di tipo formale. Il primo tipo di creazione impegna la volontà divina secondo la causalità efficiente e produce l’essere, mentre il secondo impegna l’intelletto secondo la causalità formale, che è la causalità ideale, che produce le essenze. Stando così le cose, Dio può produrre una essenza senza darle l’essere. Siamo qui nel campo dei possibili o dei creabili. Quando invece Dio impegna la sua volontà, crea liberamente l’ente dal nulla. La creatura è creata; è il soggetto dell’esser  creata. Non può quindi identificarsi col suo esser creata. Altrimenti, ci sarebbe un esser creato senza qualcosa che è creato, il che è assurdo. Nota mia.
[21] Riguarda l’essenza. Nota mia.
[22] Un conto è la creatura esistente e un conto è l’esser creato della creatura in quanto essenza individua. Dunque l’esser creato, che riguarda essere come tale della creatura e quindi la volontà divina, appartiene alla creatura e la presuppone in quanto essenza individuale previamente pensata dalla mente divina. Certamente, anche l’essenza è creata, ma solo in quanto pensata da Dio. Affinchè essa esista nella realtà, occorre che essa riceva l’essere dalla volontà divina. In questo senso Padre Tyn dice che l’esser creata è un accidente, un qualcosa che si aggiunge accidentalmente all’essenza individuale della creatura, perché la creatura non esiste per essenza. Nota mia.
[23] O formale. Nota mia.
[24]  Cfr. De Pot. q.7, a. 4 c.a.:nulli naturae vel essentiae vel formae aliquid extraneum adiungitur, licet id quod habet naturam vel formam vel essentiam, possit aliquid extraneum in se habere; humanitas enim non recipit in se nisi      quod est de ratione humanitatis”.
[25] Latinismo. Venir meno, tralignare, decadere. Nota mia.
[26] Questo appare anche dal rapporto della legge naturale con quella positiva divina (Legge Nuova intesa come Legge della Grazia).
[27] Si orienta a Lui. Nota mia.
[28] 451) Cfr. CAIETANI Thomae de Vio card., Commentum in Summam Theologiam S. Thomae Aq., Opera omnia, ed. Leonina, Romae 1892, t. VII (I-II, q.109-114) comm. in q.109, a.2, n.VI-VII, p.296.
[29] Come vedremo meglio più avanti, la natura integra è quella dell’Eden, arricchita dei doni preternaturali,tra i quali l’amore efficace per Dio sopra tutte le cose. La natura pura invece è la natura come tale, spoglia di quei doni, e quindi incapace di per sè di quell’amore supremo. Nota mia.
[30] Sottinteso: il Gaetano. Nota Mia.
[31] Si intende la giustizia originale, non la giustizia intesa come virtù morale naturale. Nota mia.
[32] Lutero tiene conto solo di questo fatto e trascura le altre accezioni del termine «natura». Nota mia.
[33] Sottinteso: al peccato. E’ ciò che il Concilio di Trento chiama concupiscentia o fomes peccati. Nota mia.
[34] Prendiamo ad esempio il caso della morte: nella natura pura (nuda) essa è naturale, perché gli elementi dei quali si compone il corpo non sono fatti di per sé per stare assieme a costituire il soggetto umano, ma per loro natura sono fatti per seguire ciascuno la propria legge. Invece nella natura decaduta (spogliata) la morte può apparire come innaturale in quanto la natura è privata dell’immortalità, però ricordiamoci che questa non risulta di per sé dalla natura, ma era un dono preternaturale fatto da Dio ai progenitori. Nota mia.
[35] Cfr. ibid., n. III, p.292.
[36] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.110, a.2 ad 2, a.3 ad 3; II-II, q.23, a.2 c.a.; De Verit. q.27, a.2 ad 7; II Sent. d.26, q.1, a.4 ad 1; Summa Theologiae III, q.63, a.5 ad 1; CG III 150, nn.3227, 3229, 3230; Summa Theologiae I-II, q.112, a.1 c.a.; q.114, aa.2 e 5; I-II, q.76, a.2 ad 2; q.109, a.7 c.a.; III, q. 62, a.1. c.a., a.5 c.a.; q.64, a.1 c.a.; I-II, q.110, aa.3 e 4; q.113 , a.9; q.114, a.3; II-II, q.19, a.7 c.a.; II Sent. d.26, q.1, a.1 ad 2 e Summa Theologiae I-II, q.111, a.1 ad 2 (DThC 6 / II, coll. 1556-1557.
[37] Se la grazia è una sostanza, come può inerire alla sostanza umana? La grazia si trova nell’anima come nel suo soggetto. Se la grazia fosse una sostanza, o addirittura Dio stesso, come dice Rahner, cadremmo nell’assurdo. Come può infatti una sostanza e per giunta Dio stesso soggettarsi in un un’altra sostanza? È una cosa impossibile. Altra tesi inaccettabile è la teoria rahneriana della grazia come «autocomunicazione divina» per coloro, ai quali non andasse bene la prima teoria. Ma anche qui siamo nell’assurdo: Dio non può mettere in comune il proprio semplicissimo e indivisibile essere con nessuno. Ora, la grazia non è Dio, ma un dono creato di Dio, benchè ci renda «consorti o partecipi della vita divina». Essa comporta un’amicizia, una comunione con Dio, una vita comune, ma sempre nella distinzione abissale delle persone, una finita e l’altra infinita.
[38] Le quattro specie di qualità sono: 1. L’abito e la disposizione; 2. La potenza e l’impotenza; 3. La passione e la qualità passibile; 4. La forma e la figura. Cf J.Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, §188, p.149, Vol.I, Editrice Herder, Friburgo in Brisgovia 1937.
[39] Il che vuol dire che il concetto di accidente ha un significato analogico, che trascende il piano fisico, dal quale è stato tratto e si applica  anche nel campo spirituale, e non solo, ma anche nell’ordine soprannaturale. Il concetto di accidente dice, infatti, in questo significato analogico, un’esistenza benefica ed illuminante, adveniente, avvolgente e prossima. Potente e fragile ad un tempo, a disposizione dell’uomo, eppure divino fattore di arricchimento del suo essere e del suo operare. Nota mia.
[40] L’accidente predicabile è quello che si riferisce alla sostanza come essenza, per esempio l’intelletto e la volontà nell’anima. Si distingue dall’accidente predicamentale, che invece riguarda l’esistenza della sostanza, per esempio una circostanza di spazio o di tempo. La grazia appartiene a questa seconda categoria di accidenti, perché si tratta di un’esistenza che l’anima acquista e che può perdere. Nota mia.
[41] Cfr. John L. McKENZIE, SJ, Dictionary of the Bible, Milwaukee, Bruce, 1965, p. 324: “His (sc. God’s) favour is under no compulsion, he shows it to whomsoever He pleases; this means, that He is absolutely free to give or withhold it (Ex 33,19)”.
[42] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.110, a.2 c.a.
[43] Cfr. M. SCHMAUS, Katholike Dogmatik, München, Hueber, 19493,4, II, 186: “Die Natur wird in ein Jenseits der Natur geführt. Aber es ist eben die Natur die da hinübergeführt wird. Sie bleibt, aber sie wird verwandelt,  hinübergewandelt in einen neuen Seinszustand”.
43 Cfr. P. ALTHAUS, Der Brief an die Römer, Göttingen, Vand.&Rup., 1966, p.58; REVENTLOW Henning Graf von, Rechtfertingung im Horizont des AT, München, Kaiser, 1971, pp. 131-132; G. KITTEL, ThWNT II 207.
[45]  Cfr. J. AUER, Das Evangelium des Gnade, Regensburg, Pustet, 1970, KKD V, p.75 con riferimento a DS 1526. 
[46] Ricordiamo la condanna del pelagianesimo nella Gaudete et exultate di Papa Francesco. Nota mia.
[47] Cfr. O.-H. PESCH, Theologie des Rechtfertigung. ecc., p. 622.
[48]  Cfr. Summa Theologiae I, q.45, a.3 ad 3.
[49] Elementi soprannaturali farebbero così parte della “legge naturale” – cfr. O.-H. PESCH, Theologie. der Rechtfertigung. ecc., pp. 418-424, soprattutto nn. 33-35, 39-40 con riferimento a U. KÜNG, Via caritatis, Berlin 1964, Göttingen 1965.
[50] H. KÜNG, Rechtfertigung, pp. 27 e 178; O.-H. PESCH, Die Theologie. des. Rechtfertigung, Ecc., p. 599.
[51] Cfr. O.-H. PESCH, Die Theologie des Rechtfertigung, ecc., p. 645 e in genere pp. 636 ss.
[52] Cfr. ibid., p. 702.
[53] Cfr. ibid., p. 651.
[54] È lo stesso errore di Rahner. Nota mia.

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