Severino e Barzaghi sulla questione dell’essere di Dio - Prima Parte (1/3)

 Severino e Barzaghi sulla questione dell’essere di Dio

Prima Parte (1/3)

L’operazione di Padre Giuseppe Barzaghi

L’essere di Severino assomiglia all’ipsum Esse di San Tommaso, ma non è la stessa cosa. È l’essere di Parmenide, che è sì l’ipsum esse, ma è un ipsum esse che esclude l’essere analogo, esclude, cioè, la realtà, la diversità e molteplicità degli enti. È, cioè, un ipsum esse che non ammette con e sotto di sé l’ente composto di essenza ed essere, esclude insomma la creatura.

L’essere parmenideo è identità di pensiero ed essere, identità che vale per l’essere e per il pensare divini, ma non per l’essere come tale, che nella creatura comporta la distinzione fra l’essere e il pensare. Se l’essere come tale è identità di pensiero ed essere, allora ne viene che tale identità si ritroverà nel pensare umano. E così il sapere umano sarà pareggiato al sapere divino e si avrà il panteismo.

Quindi questo essere parmenideo-severiniano non può essere Dio, come vorrebbe Barzaghi, credendo che corrisponda all’esse tomistico, anzi che ne sia il fondamento ultimo, sicché l’esse tomistico sarebbe un derivato psicologico dell’essere severiniano, vero essere originario e metafisico. Chi, secondo Barzaghi, va dunque al fondo dell’essere, non sarebbe Tommaso ma Severino.

Eppure Severino esclude nettamente che il suo essere sia Dio, né egli  ammette l’esistenza di Dio, e si capisce il perchè, perché l’essere parmenideo, benché ammetta l’ipsum esse, concepisce questo ipsum esse non come principio e causa efficiente o produttiva di enti esterni a Lui, ad essi trascendente, come lo è Dio, quindi non è creatore di nulla, perché nulla può esistere all’esterno di questo essere che è uno, il solo essere, univoco ed assoluto e quindi esclude qualunque essere contingente, variato, molteplice, finito, temporale e diveniente.

Infatti anche a Parmenide non viene in mente che il suo einai possa essere Dio, giacchè Parmenide era un politeista e la rivelazione dell’einai la attribuisce alla «dea della verità». È solo il cristiano che conosce Es 3,14 che può in qualche modo rintracciare nell’einai parmenideo un qualche richiamo al Dio biblico dell’ipsum Esse.

Tommaso distingue però, a differenza di Parmenide, l’esse dall’ipsum esse, l’essere come tale, analogicamente comune a tutti gli esistenti e a Dio stesso, uno e molteplice, dall’essere divino, che è appunto l’ipsum esse, proprio di Dio solo, essere che appunto Lo definisce nella sua divinità (Ego Sum Qui Sum) e Lo distingue da tutte le creature.

Se si identifica l’essere divino con l’essere di Severino, come vorrebbe fare Barzaghi, ne viene fuori un Dio che non crea e non può creare, perché nulla può esistere al di fuori di Lui. E difatti Severino esclude assolutamente che il suo essere sia Dio. Per lui non esiste un ente contingente, nel quale l’essenza sia distinta dal suo essere, sicché il suo essere non sia necessario e ci si possa chiedere perché esiste o perché ha l’essere, se non lo ha da sé.

Per questo Severino non ha alcun bisogno di porre un Dio creatore, il che è come dire che Severino è ateo. Infatti un Dio che non può creare, sia pur definito come ipsum esse, non esiste.

Barzaghi, dal canto suo, ammette che Dio ha creato il mondo, ma, come vedremo, con un concetto sbagliato di creazione, tale per cui per Barzaghi è inconcepibile pensare che Dio esistesse da solo prima che creasse il mondo, perché per Barzaghi il mondo esiste ab aeterno, dato che identifica Dio col mondo avendo l’uno e l’altro un solo esse, non quello analogico e pluralistico di Tommaso, ma quello univoco e monista di Parmenide e di Severino.

Il fatto dunque che Barzaghi rintracci Dio nell’essere severiniano è sorprendente, perchè fa capire che il concetto che Barzaghi ha di Dio è sbagliato, in quanto è un Dio che non può creare.

Infatti in una concezione di Dio ricavata dall’essere di Severino e non dall’essere analogo di San Tommaso, che distingue e collega la causa con l’effetto, il possibile col reale, il non-essere con l’essere, il tutto visto nell’orizzonte dell’essere analogo, Dio non può creare dal nulla, perchè il nulla non esiste, è un concetto contradditorio. Dio risulta essere una totalità tale, per la quale nulla può esistere al di fuori di Dio, il che è totalmente falso, giacchè esiste il creato e contra factum non valet argumentum.

È vero che il mondo non aggiunge nulla a Dio, giacchè all’Assoluto non si può aggiungere nulla. Ma per capire come sia possibile che il mondo esista fuori di Dio, con Dio e insieme con Dio è sufficiente distinguere esse per essentiam ed esse per participationem, cosa che purtroppo Barzaghi non fa: l’essere del mondo è meno essere dell’essere divino, perché è per partecipazione, mentre viceversa l’essere per essenza, proprio di Dio, è essere nell’assoluta pienezza e perfezione della ratio essendi, per cui contiene virtualmente in sé e supera l’essere per partecipazione, così come la causa precontiene in se stessa, nella sua virtù causativa l’effetto che produce o può produrre..

Ossia l’essere creato partecipa dell’essere increato ed è chiaro che la parte è meno del tutto; non aggiunge nulla al tutto. Nel contempo non è che il mondo sia una parte di Dio interna alla sua essenza, che non è composta di parti, ma è semplicissima come puro atto di essere, per cui il mondo è realmente distinto da Dio. Mondo e Dio sono due realtà diverse, benché in comunione fra di loro nel fatto di essere, solo che il mondo è per partecipazione, mentre Dio è per essenza.

Inoltre in rapporto alla questione del Dio creatore, c’è da considerare che il principio parmenideo secondo cui «il non-essere non è» non significa solo che il non-essere non può nel contempo essere, il che è verissimo, ma anche che il nulla non esiste. Ora, ciò crea ostacolo all’ammissione di un Dio che crea dal nulla. Infatti, se il nulla non esiste in nessun modo, ma tutto è essere, se Dio occupa tutto lo spazio dell’essere, non c’è posto per il nulla. E se non c’è posto per il nulla, diventa impossibile che Dio crei dal nulla. Il che evidentemente non significa che il nulla sia una specie di serbatoio come il pozzo al quale la massaia va ad attingere acqua.

Se Dio non creasse, il nulla non esisterebbe, ma dato che Dio crea, non può non creare dal nulla. È vero che l’essere della creatura proviene da Dio come essere finito; ma la finitezza dice non-essere-l’altro-da-sé. Per questo, per spiegare questo non-essere che caratterizza il finito, occorre dire che, sotto questo aspetto, il finito proviene dal nulla o, come dice Maritain, «confina col nulla». 

Per spiegare dunque l’esistenza del mondo occorre usare un complemento d’agente (ab) riferito a Dio e un complemento di provenienza (ex) riferito al nulla. La creatura è creata da (ab) da Dio, ma proviene dal (ex) nulla. Non è creata dal (ab) nulla, perché il nulla non produce nulla, ma è creata da (ab) Dio perché è l’essere che produce l’essere. Essa sta tra Dio e il nulla.

Si può dire con Tommaso che la creatura certo di fatto in sé (in se) è qualcosa, ma da sé (a se) è nulla. Il suo essere non lo ha da sé (esse ab alio), ma da Dio (esse a se). Dio solo esiste da sé e a sé (aseitas). Se Dio non ci fosse, nulla esisterebbe. L’ateismo è un nichilismo. Ecco perché il Padre dice a Santa Caterina «Io sono Colui Che È e tu sei colei che non è», specificando: «devi sapere che te per te non essere».

Meister Eckhart invece dice: «non dico che la creatura sia qualcosa, ma che essa è un puro nulla». Ebbene questa tesi di Eckhart, che si era addottorato in teologia alla Sorbona, fu condannata da Papa Giovanni XXII, mentre Santa Caterina, che non aveva studiato alla Sorbona, è Dottore della Chiesa.

Si comprende il motivo della condanna papale: se la creatura è nulla, ciò è offensivo della creatura e di Dio stesso, che l’ha creata nella sua dignità e bellezza, che l’ha creata «a sua immagine e somiglianza». Oppure c’è il rischio di vederla solo in Dio, fino ad essere identica a Dio. E allora si cade o nel panteismo o nell’idolatria.

Con Eckhart comincia a manifestarsi nella storia della teologia un vizio caratteristico dell’anima tedesca, che arriva fino ai nostri giorni e del quale purtroppo i tedeschi si vantano anziché vergognarsi; si tratta di quello che il Padre Fabro chiama un esagerato «bisogno d’immanenza», forse di origine indiana: un bisogno di interiorità in se stesso legittimo - «in interiore homine habitat Veritas», come dice Sant’Agostino -, sul quale però il tedesco è portato ad insistere talmente, sino a respingere l’idea di avere un Dio davanti a sé, al di sopra di sé ed al di là di sé, come è nel realismo aristotelico e biblico, ma vuole un Dio che sia il fondo o il vertice del proprio io.

E allora è chiaro che viene meno l’umiltà dell’io davanti a Dio e l’io finisce per credersi Dio, cosa particolarmente evidente nella teologia di Fichte. Lì l’io umano non sopporta di dover render conto a nessuno, ma la sua volontà diventa l’assoluto. Viene fuori il principio del volontarismo: sit pro lege voluntas. Da qui tutte le empietà, le violenze, le aberrazioni e gli orrori che sorgono da una simile autodivinizzazione.

Tornando, dunque, alla nostra disquisizione relativa al tema del nulla, bisogna dire che per ammettere un Dio creatore, occorre che il nulla sia quanto meno pensabile, e quindi sia qualcosa, se no la parola «nulla» non avrebbe senso e non ci intenderemmo quando parliamo del nulla.

Dunque il pensare il nulla ad instar entis, come ens rationis, è una necessità della nostra mente che nulla può pensare se non sub ratione entis. E quindi, per capire il dogma della creatio ex nihilo o de nihilo sui et subiecti[1] è sufficiente capire che cosa vuol dire la parola «nulla», parola che capiscono anche i bambini. Se la mamma dice a Paoletto: in quella bottiglia non c’è nulla! Paoletto capisce benissimo che cosa la mamma vuol dire.

Non dovrebbe esser difficile capire che, se Dio vuol creare qualcosa, prima che questa cosa esista, non esiste. In altre parole: prima non esiste e poi esiste. Non occorre concepire questo «prima» e «poi» in senso temporale, poiché è evidente che non può esserci un tempo prima della creazione del tempo. Ma d’altra parte è strutturale alla nostra mente far uso di categorie temporali, anche quando parliamo di cose indipendenti dal tempo. Non possiamo farne a meno.

L’uso della categoria temporale serve solo a farci capire che cosa avviene fuori del tempo, sul piano dell’essere e dell’origine o causa dell’essere, sia esso temporale o sia sovratemporale. Che prima la cosa non ci sia e dopo ci sia non significa una durata o passaggio temporale dal prima al poi, ma vuol dire semplicemente passaggio ontologico dal non-essere all’essere, passaggio dell’ente ideato dal non-esistere reale all’esistere reale, dall’ideale o possibile al reale.

Che problema c’è? Sì, secondo Severino; anzi per lui siamo nell’assurdo. Ma questo come mai? Perché egli si ostina a negare la realtà di questo fatto ontologico e ragiona fra pure astrazioni, al di fuori della realtà di ciò che avviene. Quindi per Severino Cristo si è sbagliato quando ha parlato di sé affermando la sua esistenza «prima che il mondo fosse» (Gv 17,5): è andato contro il principio di non-contraddizione. Difficile pensare come il «tomista» Barzaghi possa seguire Severino in queste assurdità.       

Così nella teologia barzaghiana ricavata da Severino non c’è bisogno di ammettere il nulla per spiegare l’esistenza delle cose. Basta dire che dipendono da Dio nell’essere così come in un triangolo equilatero l’uguaglianza degli angoli dipende dall’uguaglianza dei lati. Tutto si risolve nella causa formale. Quella efficiente e quella finale non esistono. Per Barzaghi non ha senso pensare che Dio possa trarre l’essere delle cose da qualcosa fuori di Lui, il cosiddetto «nulla», che non sia Lui. Dunque le cose le ricava dal suo stesso Essere. Ab aeterno stanno in Lui identiche a Lui. Dio non fa nulla, non agisce: semplicemente è.

Ora bisogna dire che è vero che, se Dio non creasse ma fosse solo, il nulla non esisterebbe. Il nulla appare alla nostra mente, è pensabile ed intellegibile solo se Dio crea dal nulla. Non che il nulla sia creato, giacchè è nulla, ma è il presupposto intellegibile e verbalmente esprimibile della possibilità del passaggio dell’ente dal nulla all’essere, il che è appunto il fatto dell’essere creato.

Infatti il creare comporta effettivamente che Dio fa passare l’ente dall’ideale al reale, dal pensato e progettato al realizzato fuori di Dio, dal non essere all’essere, dal possibile all’attuale.

Se tutto il possibile, come crede Severino e Barzaghi con lui, è attuato, non è pensabile un possibile che diventi reale. Il possibile non esiste. Infatti, per Severino un passare dal non-essere all’essere è contradditorio, come l’affermare che l’essere non sia, che sia nulla: è nichilismo. E per questo egli accusa il cristianesimo di nichilismo[2] perché ammette quella possibilità che è legata al concetto di creazione.

Sulla scia di Parmenide Severino formula il principio di non-contraddizione in modo tale che il divenire diventa contradditorio e quindi impossibile. L’enunciato severiniano è molto semplice: «è impossibile che l’essere sia e non sia». Ma in realtà è troppo semplice e le cose troppo semplici sono ingannevoli. Occorre infatti precisare e aggiungere: «nello stesso tempo», per cui l’enunciato del principio viene così: «È impossibile che una cosa sia e non sia nello stesso tempo».

Oppure Severino lo enuncia così: «l’essere non può non essere». Avrebbe dovuto precisare: «simultaneamente». Ma, come sappiano, egli ce l’ha col tempo, non lo può vedere. Così però succede che afferma che tutto è necessario e nega l’esistenza del contingente. Ora siccome solo Dio è l’assolutamente necessario, ne viene allora che tutto è Dio, il panteismo.

Severino infatti considera l’essere solo come essere eterno e trascura l’essere temporale. Ora il divenire è nel tempo. Se non si tiene conto del tempo, il divenire non è più sotto l’egida del principio di non contraddizione. Ma ciò è assurdo, poiché è evidente che il divenire esiste e tutto ciò che esiste ha un’identità e non si contraddice, perché il contradditorio non esiste se non come ente di ragione.

Se il divenire, se le realtà mutevoli e temporali non hanno esistenza ed identità, non è più possibile una scienza delle realtà generabili e corruttibili, non è più possibile una scienza della natura ed un’antropologia. Non sono più possibili una morale, una religione e una scienza storica. Non è più possibile una rivelazione divina nella storia, come è il caso del cristianesimo. O se sono possibili, non ci danno certezze.

Fine Prima Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 maggio 2021

  

Per spiegare dunque l’esistenza del mondo occorre usare un complemento d’agente (ab) riferito a Dio e un complemento di provenienza (ex) riferito al nulla. La creatura è creata da (ab) da Dio, ma proviene dal (ex) nulla. Non è creata dal (ab) nulla, perché il nulla non produce nulla, ma è creata da (ab) Dio perché è l’essere che produce l’essere. Essa sta tra Dio e il nulla.

Si può dire con Tommaso che la creatura certo di fatto in sé (in se) è qualcosa, ma da sé (a se) è nulla. Il suo essere non lo ha da sé (esse ab alio), ma da Dio (esse a se). Dio solo esiste da sé e a sé (aseitas). Se Dio non ci fosse, nulla esisterebbe. L’ateismo è un nichilismo. Ecco perché il Padre dice a Santa Caterina «Io sono Colui Che È e tu sei colei che non è», specificando: «devi sapere che te per te non essere». 

Immagine da internet


[1] Concilio Lateranense IV, Denz.800.

[2] Essenza del nichilismo, Edizioni Adelphi, Milano 1982.

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