Luigino
arricchisce Dio
Le
disavventure dell’Avvenire
Ho avuto modo già più volte di rilevare nel Quotidiano
Avvenire degli articoli di Luigino
Bruni, che purtroppo sono in grave dissonanza sia con la sana teologia che col
magistero della Chiesa. L’Avvenire
dovrebbe rendersi conto una buona volta che col continuare a pubblicare simili infortuni,
si squalifica presso il pubblico cattolico e se si procura lettori e consensi,
essi non riflettono il vero cattolicesimo, ma una sua contraffazione di tipo modernista,
che non fa onore al Quotidiano, non rispecchia la sua proclamata ispirazione
cattolica, e non favorisce la diffusione e difesa del pensiero cattolico.
Non si devono cercare lettori facendo sconti
sulla dottrina o pensando di fare gli originali od assumendo le idee del mondo.
Il primo dovere del giornale cattolico, come di qualunque predicatore del
Vangelo, è quello di diffondere il Vangelo con onestà e chiarezza, nella sua
purezza ed integrità, andando incontro ai bisogni religiosi della gente, senza
soggezione alle idee dominanti, senza temere le critiche dei modernisti e anche
se gli ascoltatori possono essere pochi. L’importante è che i lettori siano interessati
al Vangelo o si trovino in condizioni nelle quali solo il Vangelo può dare una
risposta: Il Vangelo, e non un suo annacquamento o, peggio, una sua contraffazione.
Dio sa benissimo che il giornale, per campare
e prosperare, deve avere un ritorno economico: cerchi innanzitutto il regno di
Dio e la sua giustizia, e il resto gli sarà dato in sovrappiù. Del resto,
questa maniera furbesca e improvvida di proporre al pubblico prodotti sofisticati,
scaduti, avariati o di cattiva qualità, è proprio il modo di perdere lettori cattolici
e di aver successo presso i falsi cattolici e gli eretici.
Ma a che pro? Forse che da 2000 anni non esiste
una letteratura cristiana? Forse che essa non ha mai avuto nemici da
sconfiggere? E come si è tenuta in piedi? Come si è diffusa nel mondo? Come ha convertito
i popoli? Con i pateracchi? Mescolando il vero al falso?
Niente affatto, ma mantenendosi
saldissimamente fedele alla sana dottrina, senza vendersi ai potenti di turno,
costi quel che costi, con la certezza e la fiducia di fede che se seminiamo il buon grano, Dio benedice il
nostro raccolto, perché è Lui il Signore
della messe. Non siamo noi, ma è Lui che fa fruttare la semente, ma a patto che
seminiamo buon seme.
Questo è sempre stato l’atteggiamento degli
scrittori santi, le cui pubblicazioni vanno ancora bene oggi dopo 15 o 20
secoli. Se invece usiamo il nome di Dio per crearci un dio su nostra misura e
manipolarlo come ci pare e piace, per soddisfare alle nostre voglie o per
coprire le nostre astuzie e le nostre furbizie, inventiamo dei mostri o costruiamo
dei castelli di carta, pronti a crollare al prossimo soffio di vento,
disgustando e ingannando quelle anime, la cui salvezza è costata il sangue di
Cristo.
Mi domando pertanto quanto deve andare avanti
l’Avvenire con questa obbrobriosa carrellata
di sconcezze. Mi chiedo chi è che assiste il Direttore nella scelta degli articoli da pubblicare e quali
criteri usa.
Possibile che non riesca a farsi avanti
qualche autorità che fermi questo disastro? Possibile che nell’«ospedale da
campo» debbano lavorare solo incompetenti che creano guai, anzichè guarire i
feriti? Possibile che non si riesca ad invitare a scrivere su Avvenire qualche teologo normale, con la
testa a posto, anche se poco noto, ma degno di questo nome e non degli esaltati,
e non si riesca ad aprire gli occhi a
Luigino, che probabilmente si crede un campione e tale sarà considerato dalla
sua claque, e non si riesca così, con
carità e prudenza, a disilluderlo e
quindi a persuaderlo a desistere da
questo sconcio e non si riesca a trovare per lui con tutta carità sbocchi
onorevoli nel servizio di Dio, così da impedirgli di procurarsi una pessima
fama, e da far cessare i danni che sta procurando all’Avvenire, alla Chiesa ed alla cultura cattolica?
Anche questa
volta Luigino l’ha fatta grossa
Quale guaio dunque ci ha combinato questa
volta Luigino? Lo scopriamo nel suo articolo «Divina grammatica è la cura»,
apparso in Avvenire del 21 giugno
scorso. Il titolo, per la verità, non è molto perspicuo. Probabilmente intende
dire che Dio vuole parlarci prendendosi cura dell’uomo. E di fatti, per quasi
tutta la lunghezza dell’articolo Bruni svolge il tema di Dio buon pastore ed
ospite dell’uomo. Ma, arrivato alla fine, con una brusca virata, Luigino passa
dal tema di Dio pastore ed ospite dell’uomo, all’uomo che insegna a Dio a fare
il pastore e l’ospite dell’uomo, come se non fosse più l’uomo che impara da
Dio, arricchito e perfezionato da Dio, ma è l’uomo che «arricchisce» Dio.
Dio sembra diminuire, scendere di livello,
abbassarsi al livello dell’uomo, divenire uomo come tutti noi, bisognoso di arricchirsi,
di migliorarsi, di perfezionarsi. Si noti bene che qui non si tratta affatto,
come potrebbe sembrare, dell’Incarnazione del Verbo, alla quale Heschel, citato
nell’articolo, come ebreo, non crede. Ma è proprio Dio, evidentemente un Dio
immaginario ed antropomorfico, come un palloncino che si sgonfia, che
diminuisce, si degrada e si rende perfettibile, così da aver bisogno di essere
perfezionato dall’uomo, che a sua volta assume un potere divino, che gli
permetta di agire su Dio, diciamo pure un potere magico, perché è appunto il mago
che s’illude di avere un potere su Dio, di sottometterlo alla sua volontà. E come
nell’articolo precedente Luigino converte Dio, qui lo arricchisce, lo migliora,
gl’insegna la virtù del pastore e la virtù dell’ospitalità.
Dice infatti Luigino:
«conosciamo e riconosciamo Dio quando vediamo come
il pastore tratta le sue pecore e scopriamo lo stesso Dio quando vediamo uomini
accogliere e onorare altri uomini e donne. Le due metafore s’incontrano,
arricchiscono e completano l’un l’altra».
Ma ecco la svolta improvvisa, il salto mortale
per nulla giustificato da quel che precede, di perfetta accettabilità. E invece
con questa improvvisa virata, che vedremo, per nulla richiesta dallo
svolgimento del discorso, ecco che Dio che si rivela nel pastore umano,
diventa, per un grave illogismo, un Dio
al quale l’uomo insegna come fare il pastore. Prosegue infatti dicendo che
questi uomini:
«arricchiscono
anche Dio, perché ogni volta che dall’alto dei suoi cieli osserva un pastore
prendersi cura del suo gregge, un ospite onorare un altro essere umano, impara
qualcosa di nuovo. Dio onnipotente o onnisciente, sa cosa è la mitezza e cosa è
l’accoglienza, ma per conoscere la mansuetudine ha bisogno della mano del pastore che passa sul dorso dell’agnello
(mansueto) e per conoscere l’ospitalità ha
bisogno della gioia infinita provata da un pellegrino per un calice offertogli
da un ospite sotto la sua tenda Per queste cose ha avuto bisogno che l’Adam uscisse dall’Eden e diventasse pastore
ed ospite».
Naturalmente, in questa visuale onirica e
delirante - immaginaria è dir poco – del divino, perdono totalmente il loro
senso e vengono beffati gli attributi dell’onnipotenza e dell’onniscienza, giacché
che razza di Dio è quello che ha bisogno di essere rafforzato, completato,
aumentato, arricchito ed istruito? Qui siamo al colmo della bestemmia e della
fantasia demenziale.
Luigino è
stato infettato da Abraham Heschel
Ma anche le parole di Abraham Heschel messe ad
esergo dell’articolo sono un capolavoro di falsità: «La Bibbia non è un libro
su Dio: è un libro sull’uomo». Se in tutta l’umanità c’è un libro che i tanti
modi, con tanta sapienza, insistenza e profondità ci parla di Dio, esprime il
bisogno e la sete di Dio, ci parla della bontà, dell’essenza, dei progetti, dei
voleri, dei segreti e delle opere di Dio, ci rivela il nome e i piani di Dio sull’uomo,
questo è proprio la Bibbia. L’interesse supremo non è affatto l’uomo, ma Dio.
L’uomo interessa in quanto viene da Dio e conduce a Dio. È aborrito l’uomo che
si chiude in sé stesso e non ci svela Dio o non cerca Dio.
Prosegue Heschel: «Nella prospettiva della
Bibbia: chi è l’uomo? È un essere posto nel travaglio, ma che ha i sogni e i
disegni di Dio». Niente affatto. I sogni e i disegni di Dio sono infinitamente
più alti di quelli dell’uomo. Dio prospetta all’uomo un fine di beatitudine
soprannaturale e di gloria divina, che l’uomo con la sua sola ragione non
conosce affatto, ma gli viene rivelato in Cristo. Dio dona all’uomo la vita
eterna, che è molto di più di quanto l’uomo naturalmente desidera.
Prosegue Heschel: «Sogno di Dio è non essere
solo, ma di avere il genere umano a compagno nel dramma della continua
creazione». Osserviamo che nel creare il mondo Dio non si è proposto di raggiungere
qualcosa che gli mancava, e di cui abbisognasse, un fine o un bene superiore, che
dovesse perfezionarlo, farlo star meglio, così da avere bisogno del mondo per
essere completo e perfetto, o così da ricevere qualche perfezione o arricchimento
dal mondo, perché Dio è già completissimo, perfettissimo e beatissimo da solo, anche
senza il mondo.
Dio non è come un impiegato di banca, che
aspira a diventare direttore. Dio è già da sempre, ab aeterno, per essenza, l’ottimo e il massimo, il sommo Bene. Se
no, non sarebbe Dio. È, come diceva Sant’Anselmo, «ciò di cui non si può
pensare nulla di maggiore». È l’Infinito, e nulla può essere al di là
dell’infinito, mentre tutto il resto, il finito, è al di sotto. È il finito che
può essere aumentato e migliorato.
L’Infinito divino non può essere
rimpicciolito, come se fosse un infinito immaginario. Ma è un infinito
ontologico, ossia atto puro di essere, senza potenzialità o ulteriori
possibilità di attuazione ovvero, essendo semplicissimo, non può esser privato
di nulla e quindi non può diminuire. Per
questo, il titolo del libro del Padre Giuseppe Barzaghi, «Oltre Dio»[1],
non ha senso. Dio è proprio Colui oltre il quale non c’è nulla. Se no, non è
Dio, ma un idolo.
Ma a parte ciò, Luigino cade nell’errore
dell’altra volta. Cambia l’applicazione del principio, ma il principio è lo stesso.
Allora voleva «convertire» Dio, obbligarlo a fare il buono, a smettere di mandare
sventure e ad accontentare l’uomo bisognoso di felicità e di starsene in pace a
godere questa vita. Aveva quasi il tono dell’avvertimento e della minaccia,
come a dire: bada che, se non mi esaudisci e se non ti correggi, sono capace
anche di arrangiarmi e di fare senza di te!
Questa volta Luigino mantiene verso Dio lo stesso
atteggiamento pratico magico-kabbalistico della volta precedente, atteggiamento
che dovrebbe consentire all’uomo di agire e di influire su Dio e di mutarlo a sua
volontà. Luigino non si accorge o non vuole accorgesi del fatto che il dio che
può essere mutato o migliorato ad opera dell’uomo, un dio che obbedisce all’uomo
e che impara dall’uomo, anziché esser l’uomo a dover imparare da Dio ed
obbedire a Dio, un dio alle dipendenze dell’uomo; oppure un dio che vuole
esattamente ciò che l’uomo vuole, come se l’uomo conoscesse perfettamente i
piani di Dio e il perché delle sue scelte, non può essere affatto il vero Dio, ma
non è altro che il demonio.
Trattare con un dio del genere, fidarsi di un dio
del genere, «padre della menzogna» (Gv 8,44), «omicida fin da principio»
(ibid.) e maestro di superbia, non è pietà religiosa, ma è satanismo; non è
fede ma superstizione, e pertanto vuol dire metterci e mettere chi ci segue sulla
via della dannazione eterna, con buona pace dei buonisti, che dicono che ci salviamo
tutti, ma anche questo è un inganno del demonio.
Heschel è solo un rappresentante di questa
tradizione ebraica kabbalistica, corruzione dell’autentica tradizione biblica. Nella
Kabbala non è l’uomo che dipende da Dio, ma è Dio che dipende dall’uomo. O
quanto meno, si dà una dipendenza reciproca tra Dio e l’uomo, agenti
reciprocamente l’uno sull’altro, cosicché si perde la percezione del vero
rapporto dell’uomo con Dio e di Dio con l’uomo, confuso con quello che non può
esser altro che un rapporto alla pari tra due creature divinizzate, come nella
mitologia pagana.
Il famoso, dottissimo studioso ebreo della
Kabbala, Gershom Scholem, porta ad esempio della pratica kabbalistica la
costruzione del cosiddetto «golem», un automa costruito dal mago, al quale egli
applica sulla fronte il nome di Jahvè, cosicché questo automa prende vita e una
vita divina, perché è animato dal Nome.
Ma siccome l’automa è stato costruito dal
mago, che è in possesso del nome di Jahvè, il mago si ritiene in possesso del potere
divino di divinizzare il golem, per cui il golem fa tutto quello che il mago gli
ordina di fare, anche opere divine.
Ebbene, il dio di Luigino è il golem e Luigino
crede di essere il mago della Kabbala. Lascio ai lettori immaginare che cosa,
con queste idee, Luigino combinerà la prossima volta su Avvenire, se non si corregge.
La
creatività in teologia
Le stramberie di Luigino sono l’effetto di un
metodo teologico sbagliato per due motivi. Uno lo vediamo qui. L’altro lo
vedremo nel prossimo paragrafo. L’errore
che esaminiamo qui nasce dalla riduzione dell’intelletto speculativo
all’immaginazione poetica. Questi teologi non riescono ad astrarre dallo spaziotempo
e dall’immaginabile per intuire o vedere il puro intellegibile, che è l’orizzonte
d’essere al quale appartiene l’essenza divina.
Essi, educati nella letteratura e non in una
severa disciplina teoretica, si creano un Dio immaginario, che è praticamente
un idolo. La loro mente conserva il bisogno di Dio, ma siccome essa resta
avvolta nell’immaginazione, finisce per vedere solo la nube, la quale peraltro
è certamente un’immagine biblica, perché il loro intelletto ha perso il
contatto con l’essenza o con l’essere divino. Qui il teologo corre un grosso
pericolo, ed è quello che Dio si risolva in un parto della sua fantasia. Non ha
più una regola oggettiva di verità, ma si smarrisce nelle stranezze e nei
vortici della fantasia.
Per questo, non riesce a formarsi un vero concetto
di Dio come ente o come essere, ma l’intellegibilità divina Dio per lui resta
immersa e nascosta in un alone fantastico ed immaginativo. In questo senso la
Scrittura parla della «nube», nella quale si trova Dio[2].
Ma il rischio è che sia così scarsa la forza di penetrazione e di intuizione
dell’intelletto, che allo sguardo della mente appare solo la nube e l’essenza
sembra sparire o diventare irraggiungibile, così come il sole sparisce dietro
alla nube. La speculazione teologica svanisce in una favola, dove non occorrono
riferimenti oggettivi ontologici, ma tutto si risolve in una geniale creazione
poetica.
Rimasta così in possesso solo di quel parto
immaginativo, che è la nube, la mente è tentata di elaborare a piacimento in
modo creativo questa immagine, scambiandola per l’essenza di Dio, ma con ciò
stesso allontanandosi dalla realtà divina. Ma d’altra parte, siccome le manca la
regola oggettiva che le garantirebbe l’intuizione intellettuale dell’ente
divino, si crede in diritto di creare o di inventare, trattandosi di un’immaginazione
creativa. Da qui vengono fuori i mostri di Luigino. Per rimediare, e non
viaggiare nella fantasia, Luigino dovrebbe superare la visione della nube,
penetrare al suo interno con l’intelletto e lì scoprirebbe la vera essenza di
Dio.
La metafora è indispensabile in teologia,
perché per conoscere abbiamo bisogno dei sensi e dell’immaginazione. Ma bisogna
che la metafora - sia essa il mito, il simbolo, la parabola o il paragone - non
occupi tutto l’orizzonte dell’intelletto, ma sia una semplice introduzione al
concetto. La poesia è utile, ma occorre che la sua creatività consenta
l’esercizio dell’attività intellettuale e la percezione del puro intellegibile
divino, sia pur per analogia[3].
Una categoria che oggi sta riscuotendo
successo in questo clima fabulatorio, pieno di stravaganze, di illusioni e
manìe di originalità, in cui si fa a gara di chi la spara più grossa, è la
categoria del sogno, una categoria ben nota alla Scrittura, ma dai risvolti
contradditori. Si va dal sogno che rivela la volontà di Dio (Dn 2,45; 7,1; Gl
3,1; I Re 3,5; Gb 33,15) al sogno ingannevole (Zc 10,2), vano (Sir 34,2) ed
illusorio (Sir 34,1).
Può essere un mezzo di conoscenza. A tal riguardo
sono molto belle le espressioni dell’inno di compieta: «Te corda nostra
somnient, Te per soporem sentiant». Ma occorre fare attenzione che, salvo i sogni
profetici o carismatici, nel sogno normalmente confondiamo l’apparenza con la
realtà; essi sono costruzioni spontanee e fantastiche emergenti dal subconscio,
avulse da rapporti col reale e nelle quali la ragione e la volontà sono legate
dall’immaginazione e quindi irresponsabili. Essi possono esprimere aspirazioni
o desideri di felicità o di virtù, ma facilmente basati su criteri meramente soggettivi.
Il metodo
della doppiezza
Donaci occhi limpidi,
che vincano le torbide
suggestioni del male
Dal’inno delle Lodi dell’ufficio divino
Un altro
vizio bruttissimo, che si sta diffondendo oggi in teologia, è quello di erigere
a metodo teologico la negazione del principio di non-contraddizione, sotto vari
pretesti: il mistero insondabile e ineffabile di Dio, l’opposizione del dato di
fede alla ragione, il divenire e il progresso del sapere teologico, la realtà
dell’esperienza mistica, la trascendenza della logica divina sulla logica
umana, il Dio che è «tutt’altro» da ciò che noi pensiamo essere Dio, il Dio al
quale è possibile ciò che a noi appare impossibile.
Questo vizio
nacque nel sec.XIV con l’occamismo, col suo tipico volontarismo irrazionalista
e il suo concretismo atematico, atteggiamenti mentali e comportamentali, che non
favoriscono la limpidezza del pensiero e la linearità dell’azione,
probabilmente favorito dalla dottrina averroista della «doppia verità» e da un
ritorno dell’antica sofistica greca.
I grandi
filosofi della Grecia, Platone ed Aristotele, hanno sempre avuto cura di rispettare
il principio di non-contraddizione. Se ne
fanno un onore, ponendolo alla base di tutto il sapere filosofico. Aristotele
dedica addirittura un intero libro della Metafisica, il IV, alla fondazione e
alla difesa di questo principio dei princìpi. Esso è fondamentale anche per la
Sacra Scrittura, dove la concezione di Dio è quella di un Dio sempre identico a
se stesso, immutabile, che non si smentisce e che mantiene le promesse, mentre
sono aborriti l’ipocrisia, il tradimento e l’infedeltà.
Questo vizio
esordisce nella cristianità nel sec. XV con Nicolò Cusano con falsi intenti
mistici: la famosa coincidentia
oppositorum in Dio. Esso pretende relativizzare all’uomo il principio di
non-contraddizione, per cui Dio ne sarebbe estraneo, col pretesto della sua trascendenza
e libertà. In realtà si tratta di un principio universalissimo, che abbraccia
tutto l’orizzonte dell’essere. Esso tocca l’essere come essere. Ora, dato che
Dio è l’ipsum Esse, non solo non è
estraneo a Dio, ma trova in Lui la sua prima, esemplare e fondamentale
attuazione.
Cristo
stesso enuncia questo principio primo del pensare, dell’essere e del parlare
con le famose parole: «sia il vostro parlare: sì, sì, no, no. Il di più viene
dal maligno» (Mt 5,37). È l’opposizione radicale fra l’essere e il non-essere,
fra il vero e il falso, fra il bene e il male. San Paolo esprime questo
principio anche con l’opposizione radicale fra Cristo e Beliar (II Cor 6,15).
La
Scolastica, dal principio di non-contraddizione, che dice che non è possibile
che un ente sia e non sia simultaneamente sotto lo stesso aspetto, ha ricavato
il cosiddetto principio del terzo escluso: «Ogni ente è tale o non è tale. Non
si dà una terza possibilità». Si chiama anche il principio dell’aut-aut. Tra
essere e non essere abbiamo un’opposizione assoluta, netta e per contraddizione.
Non esistono passaggi intermedi fra l’essere e il non-essere, diversamente da
quanto avviene per i contrari, tra i quali esistono gradi intermedi, come
esiste per esempio il tiepido fra il caldo e il freddo. Importante è anche
l’opposizione relativa, tra due diversi, che si esprime con la formula et-et.
Non bisogna però ridurre l’aut-aut all’et-et.
Il rispetto
del principio di non-contraddizione porta il teologo ad aver la massima cura
nell’evitare la contraddizione nel suo discorso di Dio, perché dovrebbe esser
evidente a tutti la falsità di tesi contradditorie, benché non sia sufficiente
una tesi coerente per esser certi che sia vera, ma occorre fare un’ulteriore
verifica riguardo alla verità della materia della tesi. Per esempio la tesi che
Dio ha creato il mondo da sempre non è contradditoria, eppure è falsa. Invece
Luigino non solo sostiene una tremenda falsità, ossia la perfettibilità di Dio,
ma cade anche in contraddizione, perché ha la pretesa di sostenere nel contempo
l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio.
Il mancato
rispetto del principio di non-contraddizione produce in morale il vizio della
doppiezza, condannato da Cristo: «nessuno può servire a due padroni» (Mt 6,24).
Si potrebbe chiamare anche il «principio della finzione», perché anche
l’ipocrita segue due linee di condotta: una apparentemente buona e l’altra
nascostamente e sostanzialmente malvagia. In questo vizio il principio
dell’aut-aut, che potremmo chiamare in morale «principio di onestà» o di
«lealtà», viene confuso col principio dell’et-et[4],
che rappresenta il principio dell’analogia o della diversità. Così, a causa di
questa confusione, succede in campo morale che il male e il peccato appaiano
semplicemente sotto le vesti del «diverso». Ciò allora finisce per giustificare
il male, confondendolo col bene. Si comprende allora quanto sia dannosa questa
confusione in teologia morale.
Un
teologo nei guai
Volendo fare
un bilancio della teologia di Luigino così come emerge nei quattro articoli
pubblicati su Avvenire, che ho
commentato, la mia impressione è quella di trovarmi di fronte a un teologo che
guasta quello che tocca: nel primo ha rifiutato il concetto del sacrificio
cristiano; nel secondo ha rifiutato il concetto della perfezione cristiana.
Negli ultimi due, ispirandosi alla Kabbala, ha voluto fare il mago, che prima
converte Dio facendolo da cattivo a buono e adesso lo arricchisce, facendolo
diventare ancora più buono.
Che cosa si
popone Luigino? Come mai è ospitato da un Quotidiano cattolico non avendo nulla
di cattolico ed anzi dando contro il cristianesimo e sconfinando nelle
bestemmie? E l’Avvenire che cosa si
attende dagli articoli di Luigino? Vuol preparare i motivi ideologici per
chiudere i battenti o per rovinare la Chiesa dall’interno, quella che San Paolo
VI chiamava l’«autodemolizione della Chiesa»?
P. Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
25 giugno 2020
[1] Giorgio Barghigiani Editore, Bologna, 2000.
[2] cf Es 16,10; 19,9; 20,21; Sal 97,2; Sir 45,
5, ecc.
[3] Cf Jacques et Raissa Maritain,Situation de la poésie, Desclée de
Brouwer,Bruges 1964.
[4] La pretesa di negare il principio del terzo
escluso è esplicitamente dichiarata nel libro di Chiara Giaccardi e Mauro
Magatti, La scomessa cattolica, il
Muino, Bologna 2019.
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