Il fondamento della verità razionale

 

Il fondamento della verità razionale

                                                                   Non avendo radici, si seccò (Mt 13,6)

Ritengo utile ai Lettori riproporre questo mio scritto sul tema della verità, data la grande importanza dell’argomento, che sempre ci interpella se desideriamo veramente mettere in pratica il Vangelo e camminare verso la salvezza.

Nell’attuale clima di dialogo interreligioso, culturale e scientifico è di fondamentale importanza mettere in luce la capacità della ragione umana di cogliere la verità, quella ragione che qualifica la dignità di ogni essere umano e fonda quella che possiamo chiamare la fraternità e l’uguaglianza umane, sulle quali tanto insiste il Santo Padre.

Inoltre ricordiamo che la conoscenza di fede suppone l’accettazione della verità razionale, per cui è impossibile la fede se noi non siamo onesti nel riconoscere la verità della ragione.

 P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 gennaio 2024


La metafisica come fondamento e vertice delle scienze

 Per San Tommaso la ragione umana, nella sua attività conoscitiva, ha bisogno di fondarsi su di una verità razionale iniziale, evidente, ovvia, intuitiva, certissima, senza presupposti, universale, incondizionata, immutabile, inconfutabile, che possa dar fondamento e certezza a tutte le scienze, così da promuovere il sapere in ogni campo.

È questo il principio di non-contraddizione, secondo il quale è impossibile che un medesimo ente abbia e non abbia la medesima proprietà sotto il medesimo riguardo”[1]. Tale principio “dipende dalla concezione (intellectus) dell’ente”[2].

È detto anche principio di identità, in quanto implica che ogni ente sia se stesso, sia questo qualcosa (hoc aliquid) e non altro; abbia quindi una precisa ed inconfondibile identità, che lo determina, lo fa essere quello che è e lo distingue da tutti gli altri. Anche ciò che diviene altro, non è altro, finchè non è divenuto altro. Quindi ha un’identità sia l’ente quieto che l’ente in divenire, nel momento in cui diviene.

Il primo principio è stabilito e formulato da una scienza fondamentale, massimamente conoscitiva ed intellettuale, regolatrice ed unificante nei confronti di tutte e altre scienze, custode dei contenuti, delle nozioni, dei metodi e dei princìpi universali comuni a tutto l’umano sapere. E questa scienza è la metafisica o “filosofia prima”.

Dice infatti Tommaso: “Tutte le scienze e le arti sono ordinate ad un’unica cosa, cioè alla perfezione dell’uomo, che è la sua beatitudine. Per cui è necessario che una di esse sia rettrice delle altre, e che rivendichi il nome di “sapienza”. Infatti spetta al sapiente mettere ordine.

Ma per sapere quale sia questa scienza e circa quali oggetti, lo si può vedere, se si guarda diligentemente a come uno è adatto a governare. Come infatti gli uomini dall’intelletto vigoroso sono naturalmente guide e regolatori degli altri, … così la scienza massimamente regolatrice dev’essere quella che è massimamente intellettuale. Ora essa è quella che si occupa degli oggetti massimamente intellegibili”[3].

San Tommaso prosegue affermando che “gli oggetti massimamente intellegibili possiamo intenderli in tre sensi: primo, secondo l’ordine dell’intendere. Infatti gli oggetti dai quali si ottiene maggior certezza, appaiono essere i maggiormente intellegibili. Per cui, dato che la certezza scientifica si acquista per mezzo dell’intelletto dalla cognizione delle cause, tale cognizione appare essere massimamente intellettuale. Per cui, quella scienza che considera le prime cause, appare quella che è supremamente regola delle altre scienze”[4]. E questa è la metafisica.

          “In secondo luogo, secondo il confronto dell’intelletto col senso. Dato che il senso è conoscenza del particolare, l’intelletto appare differire dal senso per il fatto che intende gli universali. Per cui è massimamente universale quella scienza che riguarda i princìpi massimamente universali. I quali indubbiamente sono l’ente, e ciò che consegue all’ente, come l’uno, i molti, la potenza e l’atto. Ma questi oggetti non possono restare del tutto indeterminati, dato che senza di essi non si può avere completa conoscenza di quanto è proprio a un genere o a una specie.

Né inoltre si possono trattare in una scienza particolare, poichè, dato che di essi ha bisogno ogni genere di enti per essere oggetto di conoscenza, dovrebbero parimenti essere trattati in ognuna delle scienze particolari. Per cui rimane che questi temi vengano trattati in una scienza comune, che sia massimamente intellettuale e regolatrice delle altre”[5]. E questa è ancora la metafisica.

          “In terzo luogo, secondo la conoscenza intellettuale. Infatti, dato che ogni cosa ha valore intellettuale per il solo fatto di essere immune da materia, ne viene che siano massimamente intellegibili quegli oggetti che sono massimamente separati dalla materia. Infatti, occorre che intellegibile ed inteso siano proporzionati e dello stesso genere, dato che l’intelletto e l’intellegibile in atto sono una cosa sola” (intenzionalmente, non ontologicamente).

          “Ora, massimamente separate dalla materia sono quelle realtà, le quali non soltanto astraggono dalla materia quantificata (signata), ma da ogni materia sensibile. E non solo astrattamente (secundum rationem), come le entità matematiche, ma proprio ontologicamente (secundum esse), come sono Dio e gli angeli. Per cui quella scienza” (la metafisica), “che tratta di questi temi, appare essere massimamente intellettuale, nonchè direttiva e regolatrice nei confronti delle altre”[6].

          Questa scienza è l’opera massima della ragione, opus perfectum rationis, come la chiama l’Aquinate. Esprime il vertice delle possibilità della ragione. Si fonda sulla nozione dell’ente in quanto tale (ens ut ens ) e delle sue proprietà, ed applicando analogicamente e partecipativamente il principio di causalità e di finalità, dimostra inoppugnabilmente l’esistenza di una causa prima e di un bene sommo, la cui essenza è quella di essere, e che in teologia e nella religione si chiama “Dio”.

La ragione, infatti, per Tommaso, è il potere che ha l’intelletto di procedere nella conoscenza della realtà, partendo da una verità iniziale da esso intuìta mediante l’uso dei sensi. “L’intelligere, infatti, è la semplice apprensione della verità intellegibile. Il ragionare, invece, è il procedere da un oggetto inteso ad un altro, per conoscere la verità intellegibile”[7].

Giunto alla conclusione del processo, l’intelletto ha la possibilità di dimostrare la verità delle conclusioni risolvendole o riconducendole ai princìpi dai quali è partito e sui quali si è fondato.

Si costituisce così il sapere scientifico, che, secondo la definizione scolastica, che ben coglie il pensiero tomista, è cognitio certa per causas, ove le “cause” sono ad un tempo logiche ed ontologiche. Logiche, in quanto le premesse, che hanno per oggetto i princìpi, conducono necessariamente la ragione alle conclusioni. Ontologiche, in quanto la ragione, nella conclusione, stabilisce la causa di un dato effetto esistente nella realtà.

La verità razionale, dunque, è la verità scientifica, dimostrabile dalla ragione, la quale riconduce le conclusioni all’evidenza dei princìpi razionali o intellettuali, dai quali è partita.

Dice infatti Tommaso: “E’ chiaro allora che il ragionare può essere confrontato con l’intelligere come il moto con la quiete, o come l’acquistare e il possedere, dove la prima cosa dice imperfezione, mentre la seconda, perfezione”[8]. Questi princìpi devono essere veri, perché, se non lo fossero, le conclusioni sarebbero false.

La conclusione, dunque, comporta il possesso certo della verità riguardo alle conseguenze che si possono trarre da date premesse. È importante, allora, per l’umano sapere, stabilire un punto di partenza o di appoggio assolutamente certo, per dare certezza a tutto il sapere. E questo è compito della metafisica.

San Tommaso si chiede se e come si può esser certi del primo principio e pertanto si domanda se è possibile dubitarne. Dato che esso deve essere alla base di tutta e di ogni verità razionale, il dubbio non può essere il semplice dubitare di questo o quell’ambito di verità, ma un dubitare della verità in senso universale, come tale, perché si deve fondare una scienza universale, dalla quale dipendono tutte le altre, qual è la metafisica. Egli parla allora di “universalis dubitatio de veritate”[9]. Se non si coglie l’ente, non si coglie niente.

 Tommaso trova che abbiamo qui l’unico principio circa il quale è assolutamente impossibile dubitare, perché se lo si mette in dubbio, per risolvere il dubbio, bisogna rifarsi al medesimo principio: “Se qualcuno – osserva Tommaso – volesse dimostrare questo principio, dovrebbe rifarsi al medesimo principio”[10].

Ma Tommaso non rinuncia a confutare con precisione coloro che negano questo principio e che quindi ammettono che i contradditori possono essere entrambi veri. Egli nega questa tesi e nota che, invece, per conoscere, l’intelletto ha bisogno di un oggetto determinato, che sia quello e non altro. Se invece l’oggetto è e ad un tempo non è, se è simultaneamente affermato e negato, il pensiero si confonde e resta senza oggetto[11].

San Tommaso nota poi come “L’opinione secondo la quale la contraddizione si verifica simultaneamente, è venuta un mente ad alcuni, ai quali era sorto il dubbio considerando le realtà sensibili, nelle quali appare la generazione, la corruzione e il moto”[12]. Ma costoro, osserva l’Aquinate, si sono ingannati, perchè non hanno tenuto conto della distinzione fra essere in potenza ed essere in atto, che è una spiegazione ragionevole del divenire, che non offende per nulla il principio di identità e di non-contraddizione[13].

Inoltre, egli nota che “un giudizio certo di verità non si può desumere convenientemente dai molti o dai pochi, così che venga detto vero ciò che pensa la maggioranza, e falso ciò che sembra a pochi, dato che capita che ciò che sembra a molti plausibile, non sia di per sé vero”[14].

Inoltre, Tommaso constata che nel campo delle esperienze sensibili ad uno una cosa sembra buona; ad un altro, cattiva; ed anche ad un medesimo individuo, prima una cosa pare buona e poi appare cattiva. Non sembra dunque esistere veracità nel senso. Alcuni pensano che il giudizio del senso non è certo, dato che non giudica sempre allo stesso modo. “Per questo, pare che non ci sia alcuna certezza di verità, così da poter dire che questa opinione determinatamente è vera e la contraria è determinatamente falsa”[15].

Tommaso risponde che occorre dare ascolto a coloro che nella sensibilità sono sani e normali e in fatto di verità razionale sono saggi e intelligenti. Non vale quindi il giudizio dei malati e degli stolti[16]. Con molti argomenti egli espone i criteri che rendono possibile la verità della conoscenza sensibile[17].

Tommaso, tuttavia, accoglie l’istanza di coloro che sostengono che non esiste un criterio oggettivo ed universale per distinguere il sano dall’infermo e il sapiente dallo stolto.

“Costoro – dice San Tommaso[18] – si chiedono come si possa distinguere con certezza il sano dall’infermo, chi veglia da chi dorme, e il sapiente dallo stolto, ed in breve, in tutte le differenze di opinione, come si possa discernere chi giudica rettamente in tutto, dato che ad alcuni uno sembra esser sapiente, mentre ad altri costui pare stolto, e così via.

Ma questi dubbi sono stolti (stultae dubitationes). Assomigliano infatti al dubbio di chi dubitasse se adesso dormiamo o siamo svegli. Un discorso del genere non ha senso (horum enim omnium distinctio per se non est). Tutti questi dubbi procedono dalla medesima radice. Questi sofisti infatti pretendono che s debbano esibire ragioni dimostrative per ogni cosa. E’ chiaro che essi esigono un principio che faccia da regola per distinguere il sano dall’infermo, tra chi è sveglio e chi dorme. Né si accontentano di conoscere questa regola in qualunque modo, ma vogliono ammetterla dimostrativamente. Ma che essi si ingannino è chiaro dai loro stessi atti, secondo quanto abbiamo detto.

Da ciò appare evidente che la loro posizione è falsa. Se infatti il giudizio di un dormiente o di chi è sveglio fosse ugualmente valido, da entrambi i giudizi dovrebbero seguire negli atti umani le stesse cose: il che è falso[19]. Ma, sebbene sostengano una tesi del genere e la professino a parole, tuttavia, nella loro mente non arrivano al punto di credere sul serio che sia lo stesso il giudizio di chi è sveglio e di chi dorme. Il che appare chiaro dai loro stessi atti come si è detto.

Ma, benchè non si ingannino sì da dubitare in ciò, questa tuttavia è la loro afflizione (passio) ovvero infermità di mente, che pretendono una ragione dimostrativa di quelle cose, delle quali non esiste e non può esistere dimostrazione. Ed essi facilmente credono questo, perché non è difficile assumere ciò anche per via dimostrativa[20]. Infatti la ragione dimostra che non tutto può essere dimostrato, se no, si andrebbe all’infinito”.

Tommaso poi critica anche altri, i quali “non si accontentano di porre questa tesi affermando che tutto ciò che appare, è vero, perchè secondo loro non esiste una regola per distinguere con certezza chi giudica bene da chi giudica male, ma lo sostengono per pura protervia (protervia). … Essi vogliono arrivare a dire che i contrari sono simultaneamente veri, perchè tutto ciò che appare è vero”[21].

Tommaso allora nota che “a meno che non si sostenga che tutto ciò che appare è vero, non si può dire che tutto ciò che esiste, esiste relativamente ad altro (omnia quae sunt, sunt ad aliquid)[22]. Se infatti nel mondo dei valori esistono dei valori assoluti, cioè non relativi al senso od all’opinabile, non si potrà dire che per questi valori è la stessa cosa essere che apparire. Ciò infatti importa relazione al senso o all’opinione, giacchè l’apparire è apparire a qualcuno: per cui bisognerà ammettere che possa esser vero qualcosa che non appare a qualcuno. È evidente, infatti, che chi afferma che tutto ciò che appare è vero, concepisce tutto come relativo, ossia in relazione al senso o all’opinione.

Per questo, contro i predetti sofisti, che forzano il senso delle parole (quaerunt vim in oratione), se qualcuno si azzarda a conceder loro la parola (dare orationem), ossia ad ammettere la posizione, che essi sostengono, occorre vigilare e fare attenzione a che non siano indotti a concedere che i contradditori sono veri simultaneamente. Non si deve infatti dire che ciò che appare vero in senso assoluto, ma che ciò che appare, è vero per colui al quale appare, e per quanto appare e quando appare e come appare. Questo ci è lecito apporre, dal che le cose non hanno un essere assoluto, ma solo relativo”[23].

Tommaso osserva ancora che, se si volesse negare il principio di non-contraddizione per salvare il divenire, la conseguenza sarebbe che “tutto sia in quiete, piuttosto che tutto divenga. Nulla infatti diviene ciò che è già, così come ciò che è bianco non diventa bianco. Se dunque l’essere coincidesse col non-essere, tutto sarebbe in tutto, cosicchè tutto diventerebbe uno. E così non si potrebbe dire che una cosa diventi un’altra”[24].

Tommaso nota infine che questo principio è negato da coloro che sostengono che l’oggetto della nostra conoscenza non è la realtà esterna, sensibile, che ci circonda, ma sono le nostre idee (species)[25], le quali, quindi, non sarebbero ricavate dalle cose, né sarebbero rappresentazioni delle cose, ma lascerebbero indecisa o dubbia la questione se noi possiamo raggiungere e conoscere queste cose o addirittura supporrebbero che le cose non esistano.

Tommaso obietta che, a parte il fatto che, se il sapere avesse per oggetto solo nostre idee, non esisterebbe un sapere della realtà, entrando nel merito del nostro tema, la negazione del principio di non-contraddizione risulta dal fatto che in questa concezione della conoscenza, prendendo come misura o regola o criterio del sapere non le cose reali, ma le idee, se la regola della verità sono solo le idee e non le cose, succede che “se uno giudica che il miele è dolce, dirà il vero, e similmente chi, avendo il gusto infetto, giudica che il miele è amaro, dirà parimenti il vero”.

Da qui – osserva l’Aquinate - la negazione del principio di non-contraddizione, giacchè, se questa concezione della conoscenza fosse vera, ne verrebbe che i contradditori sono simultaneamente veri. Ciò che è vero per me, è falso per te. Non esiste una verità oggettiva e universale. Il che è come dire che non esiste la verità, ma solo l’apparenza soggettiva (il videtur). Una realtà esterna, se c’è, è irraggiungibile, e comunque è impossibile accordarci su di essa.

Kant dirà qualcosa di simile: la cosa in sè è inconoscibile; conosciamo solo il fenomeno, anche se Kant tiene a precisare che il fenomeno non è un apparire soggettivo (videtur) a me o a te (Schein), ma è l’apparire (Erscheinung) sensibile oggettivo, verificabile ed universale della cosa in sé, che tuttavia resta nascosta. Si pensi, per esempio, a quello che oggi chiamiamo “fenomeno morboso” o “fenomeno atmosferico” o “fenomeno religioso”[26].

Senso e intelletto

Poggiando sul solidissimo principio di non-contraddizione, la ragione può innalzare con sicurezza l’edificio del sapere, che è uno speciale grattacielo, nel quale – se l’Aquinate fosse vissuto oggi, avrebbe fatto questo paragone - si possono aggiungere sempre nuovi piani.

La dimostrazione della solidità dei nuovi piani si fa verificando il loro rapporto con la solidità delle fondamenta. La dimostrazione scientifica è dunque possibile proprio perchè il principio fondante regge da sè e non ha bisogno di essere dimostrato, tanto esso è evidente; e del resto non rimanda ad un principio precedente, proprio perché è il primo.

San Tommaso fa notare che questa causa prima del sapere non va confusa con Dio; non si tratta di una conoscenza teologica, quasi che il sapere razionale debba partire da una specie di intuizione originaria ed immediata dell’essere divino.

Dio, per Tommaso, è la causa prima creatrice della realtà e della stessa ragione e muove indubbiamente la ragione nel suo procedere. Ma il primum cognitum, come lo chiama Tommaso, il primo reale conosciuto non è altro che l’ente sensibile (quidditas rei materialis).

L’intelletto coglie la cosa in sé, che si trova fuori dell’anima (extra animam) nello spazio e nel tempo e se ne forma un’idea o concetto, che gli serve come immagine o rappresentazione della cosa e per conoscerla.

È dalla nozione dell’ente, ricavato dall’ente sensibile, che la ragione ricava il primo principio del sapere, che poi le servirà per dimostrare l’esistenza di Dio partendo dagli effetti creati.

La verità razionale, per Tommaso, suppone la verità sensibile. Se il senso non funziona, la ragione non funziona. La verità conoscitiva è adeguazione o corrispondenza del senso e dell’intelletto al reale[27]. L’evidenza del senso come quella della ragione sono indubitabili ed entrambi, in collaborazione, sono il principio e la causa della scienza. Senso ed intelletto possono sbagliare; ma essi correggono i loro rispettivi errori proprio rafforzando o migliorando il loro potere conoscitivo.

Il senso è al servizio dell’intelletto, sicchè la ragione passa dalla conoscenza delle cose sensibili a quella delle realtà spirituali, fino a giungere alla conoscenza di Dio. La verità razionale è più alta di quella sensibile; ma non sta all’intelletto correggere gli errori del senso: esso si arrangia sé. Se sono miope, devo andare dall’oculista. L’intelletto servirà per fissare l’appuntamento dal medico. L’intelletto può essere di aiuto quando ci sono le illusioni dei sensi. Per Tommaso, se è stoltezza dubitare dell’intelletto, è ancor più stoltezza per non dire demenza dubitare del senso, laddove anche gli animali raggiungono la certezza.

 

Queste considerazioni di San Tommaso consentono di dimostrare la falsità della concezione cartesiana del fondamento dell’evidenza razionale. Infatti, Cartesio considera un “inganno” il ritenere che la sorgente prima, sufficiente ed immediata dell’evidenza razionale sia l’evidenza delle realtà sensibili esterne e che quindi lo sia anche la convinzione spontanea che abbiamo, secondo la quale le nostre idee rapprendano cose esterne.

Egli racconta infatti: “un’altra cosa asserivo, che a causa dell’abitudine che avevo di credervi, pensavo di percepire assai chiaramente, sebbene veramente non la percepissi affatto: e cioè che vi erano delle cose fuori di me, donde procedevano quelle idee, ed alle quali esse erano in tutto simili. Ed era in questo che m’ingannavo”[28]. “Il principale e più ordinario errore che si possa trovare nei giudizi consiste in ciò, che io giudico che le idee, le quali sono in me, siano simili o conformi a cose che sono fuori di me”[29]. Possiamo esser certi di possedere delle idee: ma non possiamo sapere se ad esse corrispondano cose esterne, dalle quali, come da regole di verità, avremmo ricavato, mediante i sensi, quelle idee.

Tommaso osserverebbe che Cartesio qui dimentica il motivo per il quale ci formiamo delle idee, che è precisamente quello di poter conoscere o riconoscere, mediante l’esperienza del senso, la realtà esterna sensibile. Tanto che, se vogliamo correggere un’idea falsa, dobbiamo rifarci a questa realtà come regola di verità. Il che evidentemente suppone la capacità del nostro intelletto di cogliere il reale così come è.

La convinzione dell’esistenza di cose al di fuori del soggetto (extra animam, dice San Tommaso), non è dunque un pregiudizio, un’abitudine non verificata, un’ingenuità acritica o addirittura un errore da correggere. Ma essa nasce dall’esperienza del senso, la cui veridicità di principio è indubitabile, pena la contravvenzione al principio di non-contraddizione, secondo quanto abbiamo visto circa la questione se conosciamo le cose con le nostre idee.  Il senso, certamente, può sbagliare; esistono illusioni dei sensi difficilmente correggibili. Ma in fin dei conti, è sempre il senso che corregge se stesso con un migliore impiego delle sue forze.

Tommaso non contesta affatto la certezza che dà la coscienza di pensare, ed è evidente che essa comporta la coscienza di esistere. Ma Tommaso farebbe presente a Cartesio che questa autocoscienza (il cogito) non può essere considerata il fondamento primo ed immediato dell’evidenza e del sapere. La coscienza di dubitare è importante, ma a patto che il dubbio sia ragionevole.

 Ora, come dimostra San Tommaso, dubitare, come fa Cartesio, della veracità del senso è stoltezza. L’evidenza sensibile è prima, fondamentale ed assoluta; non ha bisogno di essere dimostrata, perché è essa stessa principio di dimostrazione delle verità sperimentali e mediazione dell’evidenza razionale.

La coscienza di pensare è indubbiamente un’evidenza importante, soprattutto in quanto è interiore e spirituale; ma non fonda l’evidenza prima ed originaria della conoscenza e quindi della verità razionale. Infatti, il pensiero ha bisogno di un oggetto, che in fin dei conti è tratto dall’esperienza, per cui questa coscienza è coscienza di conoscere un oggetto tratto dai sensi. Se quindi prima dell’atto della coscienza l’intelletto non ha concepito un oggetto tratto dai sensi, la coscienza resta priva di oggetto.

Questo ovviamente non toglie che la ragione sappia elevarsi a realtà superiori a quelle sensibili, come per esempio lo stesso mondo delle idee, nonchè le realtà spirituali della morale, della psicologia, della religione, della teologia e della fede. Ma resta sempre che il fondamento primo inconcusso della verità razionale non è la coscienza, ma la nozione dell’ente extramentale (extra animam), ricavata dalla conoscenza della realtà sensibile: entitas in hoc.

P. Giovanni Cavalcoli

Varazze, 8 marzo 2016 


Dice Tommaso: “E’ chiaro allora che il ragionare può essere confrontato con l’intelligere come il moto con la quiete, o come l’acquistare e il possedere, dove la prima cosa dice imperfezione, mentre la seconda, perfezione”. Questi princìpi devono essere veri, perché, se non lo fossero, le conclusioni sarebbero false.

La conclusione, dunque, comporta il possesso certo della verità riguardo alle conseguenze che si possono trarre da date premesse. È importante, allora, per l’umano sapere, stabilire un punto di partenza o di appoggio assolutamente certo, per dare certezza a tutto il sapere. E questo è compito della metafisica.

San Tommaso nota poi come “L’opinione secondo la quale la contraddizione si verifica simultaneamente, è venuta in mente ad alcuni, ai quali era sorto il dubbio considerando le realtà sensibili, nelle quali appare la generazione, la corruzione e il moto”. Ma costoro, osserva l’Aquinate, si sono ingannati, perchè non hanno tenuto conto della distinzione fra essere in potenza ed essere in atto, che è una spiegazione ragionevole del divenire, che non offende per nulla il principio di identità e di non-contraddizione.

La verità razionale, per Tommaso, suppone la verità sensibile. Se il senso non funziona, la ragione non funziona. La verità conoscitiva è adeguazione o corrispondenza del senso e dell’intelletto al reale. L’evidenza del senso come quella della ragione sono indubitabili ed entrambi, in collaborazione, sono il principio e la causa della scienza. Senso ed intelletto possono sbagliare; ma essi correggono i loro rispettivi errori proprio rafforzando o migliorando il loro potere conoscitivo.

Questo ovviamente non toglie che la ragione sappia elevarsi a realtà superiori a quelle sensibili, come per esempio lo stesso mondo delle idee, nonchè le realtà spirituali della morale, della psicologia, della religione, della teologia e della fede. Ma resta sempre che il fondamento primo inconcusso della verità razionale non è la coscienza, ma la nozione dell’ente extramentale (extra animam), ricavata dalla conoscenza della realtà sensibile: entitas in hoc.

Immagini da Internet:
- S. Ceccarini, L’allegoria dei cinque sensi, 1748, Coll. privata, Pesaro
- Da Scheda didattica per Scuola Primaria
- G. de Lairesse, I cinque sensi, 1668, The Burrel Collection, Glasgow


[1] Commento alla Metafisica di Aristotele, l.IV, lect.VI, n.600, Edizione Marietti, Torino 1956.

[2] Ibid., l.IV, lect.VI, n.605.

[3] Ibid., Prooemium, p.1

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] Summa Theologiae, I, q.79,a.8.

[8] Ibid.

[9] Ibid., l.III, lect.I, n.343.

[10] Ibid., l.IV, lect.VI, n.609.

[11] Cf l.IV, lect.IX

[12] Ibid., lect.X

[13] Cf ibid.

[14] Cf Lect.XI, n.671.

[15] Lect.XI, n.670.

[16] Cf Ibid., n.671.

[17] Lect.XIV.

[18] Lect.XV, nn.708-710.

[19] San Tommaso intende dire che se giudicare che uno dorme o è sveglio fosse la stessa cosa, dovrebbe seguire che adesso io sono sveglio e nello stesso tempo dormo, il che è assurdo.

[20] Tommaso intende dire che si può dimostrare che il primo principio non può essere dimostrato. Ma ciò lo facciamo proprio ricorrendo a quel principio!

[21] Lect.XV, n.711.

[22] È il principio di quello che oggi chiamiamo “relativismo”.

[23] Lect.XV, n.712.

[24] Lect.XIII, n.691.

[25] Summa Theologiae, I, q.85, a.2.

[26] In San Tommaso non c’è ancora la nozione di “fenomeno”, che sarà stabilita da Kant, dietro suggerimento di Galilei, su presupposti idealistici, che certamente Tommaso non avrebbe accettato. Tuttavia la nozione kantiana può essere adattata al realismo di San Tommaso, solo che ammettiamo che la cosa in sé, che in Kant resta nascosta, possa rivelarsi, nella sua essenza, all’intelletto. Occorre però a questo punto distinguere, come ha fatto Maritain ne La filosofia della natura (Morcelliana, Brescia 1974, pp.71-80), la scienza dei fenomeni dalla filosofia della natura. La prima considera il fenomeno senza cogliere l’essenza della cosa. La seconda considera l’essenza della cosa. Husserl, su presupposti idealistici, tenta di concepire l’essenza come fenomeno. Per Heidegger, anch’egli su presupposti idealistici, il fenomeno è “rivelazione”, “apparizione”, “manifestazione” dell’essere (Offenbarung des seyn).

[27] Cf De Veritate, q.1, a.1.

[28] Meditazioni metafisiche, Terza Meditazione, Edizioni Laterza, Bari 1968, p.95.

[29] Ibid., p.97.

3 commenti:

  1. Carissimo p. Giovanni mi ritrovo e mi riconosco pienamente nel contenuto di questo suo articolo che ci richiama l’importanza, oggi più che mai, dello stretto legame che esiste tra la conoscenza che deriva dalla fede che professiamo e il riconoscimento e l’accettazione della verità razionale.
    Il riconoscere che il primum cognitum come lo chiama San Tommaso è l’ente sensibile extra-mentale che sta a fondamento della nostra conoscenza, che non procede dal nostro pensiero, ma è la condizione e forma di un’idea o di un concetto, a mio avviso permette di intercettare nel tempo e nella storia l’evento della Rivelazione divina.
    Mi spiego. Se noi mettiamo in relazione la verità della Rivelazione divina, incarnata dal Verbo divino, con la definizione di verità elaborata da san Tommaso: “veritas est adæquatio rei et intellectus”, in cui si stabilisce una conformità fra ciò che si pensa e ciò che è nella realtà è possibile aprire una pista di riflessione per un approccio razionale alla fede, che preceda, prepari la ragione umana all’assenso di fede.
    L’evento dell’Incarnazione è la modalità con la quale Dio entra, in modo umano, nella storia e nell’esperienza umana, per essere accolto da quell’ente che è l’essere umano, creato a Sua immagine e somiglianza, con il quale condivide l’intelligenza, la volontà e la libertà.
    Ma questa comunicazione è possibile in quanto la Rivelazione divina giunge a noi come realtà altra, extramentale e rendendosi conoscibile, adeguandosi così al nostro intelletto, il Verbo si fa carne, si rende visibile, udibile, toccabile, cade sotto i nostri sensi e soltanto un soggetto che possiede tutti gli elementi necessari per esprimere un giudizio e pronunciarsi per un assenso alla fede oppure per un dissenso.
    Nel giudizio, quindi, il soggetto prende in maniera esplicita posizione circa l’attualità della cosa, nel nostro caso della Rivelazione divina. Per mezzo del giudizio il soggetto accoglie la realtà della cosa, la sua essenza, il suo contenuto, il suo essere in atto, quindi in azione (la Parola vivente) nella sua specifica modalità di essere: il Verbo si fa carne e pone la sua tenda in mezzo a noi.





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    1. Caro Don Vincenzo,
      mi trovo davanti ad un’ottima esposizione di quello che è il cammino della ragione verso la fede nell’orizzonte della verità, cammino che è stato reso possibile dal mistero dell’Incarnazione, per cui la Verità fatta Persona illumina la nostra ragione nella ricerca della verità e la eleva grazie alla fede alla conoscenza della verità divina.

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    2. Se non sbaglio, la ricca esposizione di don Vincenzo ci rimanda a coloro che sono i preambula fidei.
      Mi chiedo come ripristinare questo cammino dalla ragione alla fede, reso possibile dall'Incarnazione del Verbo, quando nel nostro mondo attuale la ragione umana appare in tanti casi così svalutata, corrotta e persino animalizzata, si potrebbe dire. Sembra necessario oggi cercare di far rinascere l'uomo, per stabilire i presupposti della possibilità della Fede.
      Non è questa l’opzione pastorale assunta da Papa Francesco durante tutto il suo pontificato?

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