La dinamica della salvezza in San Tommaso, Luigi Molina e Lutero - Prima Parte (1/3)

 La dinamica della salvezza 

in San Tommaso, Luigi Molina e Lutero

Prima Parte (1/3)

Dio suscita in voi il volere e l’operare

Fil 2,13

Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio,

costoro sono figli di Dio

I Cor 8,14

Perché questa triade?

Questi tre nomi di teologi sono legati fra loro, al di là delle opposizioni, perchè hanno svolto una funzione molto importante nel grande dibattito sul rapporto della grazia col libero arbitrio nella questione della salvezza, dibattito suscitato da Lutero e che ha avuto uno sviluppo alla fine del ’500 con la famosa disputa De Auxiliis fra Domenicani sotto la guida di Domenico Bañez e Gesuiti guidati da Luίs de Molina.

Costui aveva opportunamente individuato la grave questione teologica che maggiormente divideva gli animi nel suo secolo lacerato dalle guerre di religione, che avevano fatto seguito alla scriteriata riforma luterana, nonostante il rimedio che il Concilio di Trento, chiusosi nel 1563, aveva cercato di opporvi.

Il Concilio non solo non riuscì a conciliare gli animi dei cristiani divisi, e a far tornare i luterani nel seno di quella Chiesa che avevano abbandonato, ma i suoi decreti vennero duramente attaccati, ed uno dei punti principali della discordia verteva attorno alla risposta che il Concilio aveva dato all’istanza morale di fondo della riforma luterana: il ruolo primario della grazia nella vita del cristiano.

Il messaggio luterano era stato infatti riassunto in tre parole d’ordine intransigenti, perentorie ed altamente suggestive, che sembravano esprimere un assoluto bisogno di purezza e di spiritualità: sola Scriptura, sola fides, sola gratia, quasi un forte richiamo a concentrare l’attenzione su Dio solo, sull’unum necessarium accantonando tutto ciò che non si riferisce a Lui.

Quindi al di sopra di tutto la sola Parola di Dio, Verità assoluta e salvifica, libera dagli impacci delle tradizioni umane; la sola fede, luce indefettibile, forza invincibile, libera dai sofismi e dalle meschine pretese di una ragione arrogante e superba; la sola grazia, dono incommensurabile, consolante e gratuito della misericordia, signora incontrastata, sorgente di umiltà e di libertà - «liberi sotto la grazia», come dice la Regola di S.Agostino, guida sicura dell’agire umano e fustigatrice  di una volontà altera ed autosufficiente.

Lutero aveva cominciato bene

Lutero aveva cominciato la sua vita religiosa molto bene: zelantissimo osservante della regola, assiduo al sacramento della Penitenza, grande capacità organizzativa, tanto che ben presto i Superiori gli affidarono incarichi di responsabilità, affascinate predicatore, teologo dotto e ben preparato, zelante per la riforma della Chiesa, che veramente ne aveva bisogno, perché lo spirito del paganesimo rinascimentale, che pochi anni prima aveva stroncato la vita santa del Savonarola, era penetrato addirittura nel papato, mentre la purezza del Vangelo e la sete di Dio scomparivano sotto un mucchio di interessi terreni mascherati di religiosità. Era il trionfo del farisaismo e dell’ipocrisia.

La predicazione e l’esempio del giovane ardente monaco agostiniano attirarono presto l’ammirazione e le speranze di molte anime pie e sinceramente desiderose di una Chiesa e di un papato conforme al Vangelo e assetati di santità e non di ricchezze, di lusso e di potere.

Da giovane monaco Lutero scrisse una lettera accorata ed ossequientissima a Papa Leone, invocando la riforma e dichiarando di assoggettarsi totalmente alle sue decisioni. Così si spiega il giudizio dato da Papa Francesco su Lutero, quando in un’intervista in aereo disse che Lutero «aveva retta intenzione, non voleva dividere la Chiesa ed offrì una medicina»: si riferiva ai suoi inizi.

Lutero avrebbe potuto diventare un altro Sant’Agostino. Non concordo con chi sostiene che non aveva ricevuto una vera vocazione religiosa, tutt’altro. Egli sentì improvvisamente, come San Paolo, che fu sempre il suo modello, una chiamata assoluta e perentoria a darsi tutto a Dio. Come Agostino, avvertì potentemente il bisogno di Dio come l’unum necessarium.

Per questo San Giovanni Paolo II disse che Lutero fu un «animo profondamente religioso». Non c’è alcun dubbio che egli, anche da eretico, fece girare tutta la sua vita attorno a Dio, anche se purtroppo consentendo l’interferenza del suo io. E questa è stata la sua rovina. Ma il sola fides, il sola gratia e il sola Scriptura derivano dalla folgorazione della chiamata divina, della quale il famoso fulmine fu quasi un simbolo spaventoso ma illuminante.

Concordo col Villoslada[1] nel ritenere che la vocazione religiosa di Lutero fu una vera vocazione, che gli apparve in tutta chiarezza nell’episodio del fulmine a 22 anni di età, ma che aveva già maturato in precedenza. Il motivo che egli più volte addusse della sua scelta religiosa fu un motivo squisitamente soprannaturale: il bisogno di salvarsi l’anima e di ottenere la misericordia di Dio; molla della spiritualità luterana, di sapore agostiniano, la quale gli resterà per tutta la vita, anche dopo aver abbandonato la vita religiosa ed esser caduto nell’eresia.

 Concordo pertanto col parere del Maritain, il quale, nel suo ottimo ed insuperato  studio su Lutero, afferma che egli «ha gustato i fiori nascosti della grazia di Cristo; è entrato nel giardino spirituale della Chiesa»[2], ma purtroppo questo slancio mistico è stato presto bloccato dall’angoscia degli scrupoli e dall’assalto della concupiscenza, per cui l’io, nel terrore di perdere il Dio-per-me, si è ripiegato su se stesso ma nel contempo volto a Dio in lacerante dualismo, tra l’io e Dio. Da qui il vano rimedio di un cedimento alla concupiscenza, e di un’affannosa golosità della grazia di Dio. Lutero aspira all’amor Dei insieme con l’amor sui.

La sete di Dio deve alloggiare nell’anima di Lutero e fare i conti con il suo invadente io, sia pur preoccupato della grazia di Dio. Avanza però simultaneamente l’interesse per l’io e retrocede quello per Dio. Il Dio-in-Sé diventa il Dio-per-me. Non più la propria anima fatta per Dio, ma il proprio io schiavo della concupiscenza, eppur libero per grazia, diventa da adesso in poi il centro dell’attenzione e delle occupazioni di Lutero. Pecca fortiter et crede firmius.

Ma come mai tutto ciò? Che cosa è successe? Come mai queste alte aspirazioni, questo nobile programma, questo slancio spirituale a un certo punto si sono guastati e rovesciati nel loro contrario? Che avvenne nell’animo di Lutero?

Occorre tener presente che in Lutero il sincero proposito iniziale di una riforma religiosa si combina col problema angoscioso della sua personale salvezza, in modo tale che a un certo punto Lutero, falsamente pacificatosi nella famosa «esperienza della torre» (Turmerlebinis) del 1514, si fissò talmente nell’idea di essere salvo, che quando Papa Leone condannò questa fissazione nella Bolla Exsurge Domine e lo scomunicò, concepì contro di lui un odio così furioso ed implacabile, che nulla e nessuno valse a calmarlo, ma forse col tempo andò addirittura aumentando.

Mettendosi dal punto di vista di Lutero in certo modo lo si può capire, anche se non lo si può obbiettivamente giustificare: sarebbe come se qualcuno tentasse di strapparci ciò che è per noi la stessa nostra ragione di vita, ciò che ci conduce alla beatitudine e ci salva dalla disperazione e dalla dannazione. Che faremmo? Non lo combatteremmo con tutte le forze? Per questo Papa Leone cominciò ad apparire a Lutero come l’anticristo e il diavolo in persona.

E così si spiega anche l’accanimento col quale Lutero iniziò e portò avanti per tutti gli anni che gli restavano la demolizione di quella Chiesa e di quella dottrina, istituzioni e tradizioni ecclesiali, delle quali Papa Leone era supremo custode, fino ad opporsi, al di là della persona di Leone, all’istituzione dello stesso papato. Si capisce allora la frase amara e sconcertata del Card. Gaetano dopo l’incontro con Lutero: «questo vuol dire fondare un’altra Chiesa!»[3] . E di fatti è evidente che Lutero, ideando una Chiesa senza il Papa, concepiva una Chiesa che non è più quella fondata da Cristo, benché fosse più che mai convinto nella sua ribellione di avere lui, contro il Papa, aver ritrovato la vera Chiesa di Cristo.

In quest’opera distruttiva Lutero salvò sì la Scrittura, ma con quale contraddizione! Da chi infatti l’aveva ricevuta, se non dalla Chiesa? E come la Scrittura può vivere se non nella Chiesa? E chi ha messo per iscritto il Vangelo se non gli Evangelisti? E da che cosa nasce la Scrittura se non dalla Tradizione? È vero che la Scrittura è al di sopra del dogma, ma non è possibile interpretare correttamente la Scrittura se non attraverso il dogma. Il sola Scriptura è la distruzione della Scrittura.

Perché dunque questo cambiamento così improvviso e radicale? La certezza di salvarsi per fede era diventata il sostegno della sua vita, la consolazione dai suoi terrori, la pace nella libidine. A questa spasmodica certezza si teneva aggrappato con le unghie e coi denti, convinto che senza di essa non si sarebbe salvato. Per questo interpretò la condanna papale come una smentita al valore della sua speranza, come un ostacolo alla sua salvezza. Si sentì derubato del suo tesoro più prezioso: la certezza di salvarsi per sola fede e quella che gli sembrava essere l’esperienza della grazia, il Dio-con-lui.

Lo sbocco fatale

Così Lutero fu travolto da questo interiore rivolgimento spirituale, che lo trascinò in uno stato di falsa euforia ed esaltazione, e che lo portò a corrompere quelle tre parole d’ordine, sicché quella che poteva essere una riforma diventò una deformazione.

Ecco allora la Scrittura contro la Tradizione, la fede contro la ragione, la grazia contro il libero arbitrio. Da qui lo scontro fra cattolici e luterani. Mentre nel cattolicesimo l’umano armonizza col divino, il libero arbitrio con la grazia, nel luteranesimo avviene un conflitto: il divino si afferma contro l’umano, per cui l’umano, per affermare se stesso si oppone al divino. Così la ragione insorge contro la fede, la natura contro la grazia, la filosofia contro la religione, la storia contro il dogma, l’uomo contro Dio.

Impressionante a questo proposito il rovesciamento radicale del suo giudizio sui voti religiosi, decisamente scelti dapprima come mezzi di libertà spirituale e, dopo la Turmerlebnis, altrettanto decisamente respinti come intralcio alla libertà. La forza della concupiscenza, che prima a Lutero appariva come una schiavitù da cui liberarsi, adesso appariva una legge di natura, alla quale occorreva obbedire. Dall’angoscia per la propria salvezza, Lutero passerà, dopo la Turmerlebins  alla certezza assoluta della propria salvezza.

Intanto la preoccupazione per la propria salvezza non viene meno. Nasce in Lutero il terrore di non essere in grazia di Dio e, per reazione, un bisogno spasmodico di avere l’assoluta certezza di essere in grazia. Non gli bastava affatto il tradizionale e comprovato accorgimento di accontentarsi della probabilità suggerita da certi passi della Scrittura. Voleva la certezza assoluta, voleva l’esperienza, che pareva essere garantita in altri passi.

Infatti la Sacra Scrittura su questo punto sembra avere due serie di testi contrapposti: in alcuni pare affermare che non sappiamo con certezza se siamo o non siamo in grazia[4]; altri testi invece sembrano ammettere che possiamo fare l’esperienza  di essere in grazia[5]. I primi servono a coltivare il timor di Dio; i secondi invece la confidenza. Ora, la pace e la perfezione spirituale sono date dal sapiente contemperamento di questi due fattori apparentemente contrastanti, ma in realtà reciprocante complementari. Il timore fa evitare il peccato, la confidenza dà lo slancio dell’amore.

Ora bisogna osservare che certamente l’aver cura della propria salvezza e il fare in modo di essere in grazia con l’osservanza dei propri doveri è sì sommo dovere del cristiano e quindi, di conseguenza, di essere in grazia. A che cosa, infatti, il cristiano può tenere soprattutto che di essere in grazia, senza la quale egli è perduto? Ma può sapere di essere in grazia? Può averne esperienza come di qualcosa a propria disposizione?

Ora il Maritain giustamente disapprova questo desiderio smodato di Lutero di esser certo o di sentire di essere in grazia. Infatti tale desiderio è troppo pretenzioso, perché per sapere con assoluta certezza, per esperienza o per intuizione se siamo in grazia, bisognerebbe che ci ponessimo dallo stesso punto di vista divino, che avessimo, per così dire, il suo stesso occhio su di noi, che noi fossimo nella mente di Dio mettendoci dal punto di vista delle decisioni divine, cosa evidentemente per noi impossibile.

Possiamo invece, come già insegnava S.Tommaso[6], avere segni congetturali del nostro essere in grazia dati dal nostro gusto per le cose divine[7] e dal sentirci a posto in coscienza. Ma il punto era proprio questo, che Lutero, assalito dagli scrupoli, non si sentiva mai a posto ed esagerava fino ad un’angoscia insopportabile il sospetto per non dire la convinzione che sotto la sua sensazione di innocente si nascondesse sempre l’ipocrisia e un «sottilissimo orgoglio nascosto», come egli stesso dice.

Ecco allora nel 1515 la svolta drammatica ed esaltante, apparentemente liberante, che era trapelante nelle sue lezioni su San Paolo, infette di attacchi al Magistero e alla teologia scolastica. Che cosa era successo? Che attorno agli anni 1513-14 Lutero cominciò ad essere assalito dagli scrupoli. Egli non seppe reagire nella maniera giusta e si lasciò vincere dalla tentazione. La Turmerlebnis del 1514 lo portò a passare dalla disperazione all’arroganza e alla presunzione. E da lì seguì tutto il resto.

Lutero era uno spirito fortemente intuitivo e ciò certamente lo teneva su nella sua vita intellettuale e morale; ma ciononostante aggravò il suo dramma spirituale e portò molti fuori strada, oltre che per la sua emotività tumultuosa, che offuscava la limpidezza della vista spirituale e il procedere ordinato e corretto del ragionare, anche per lo stesso linguaggio col quale esprimeva le sue idee, un linguaggio iperbolico, simile del resto a quello di S.Paolo o dello stesso Sant’Agostino.

Sappiamo quali sono i rischi di questo modo di esprimersi, tipico dei retori o dei poeti, più che dei teologi e moralisti: sono quelli di essere fraintesi e, ancor peggio, sono quelli di cadere, trascinati dalla foga oratoria, in veri e propri errori di contenuto.

Chi usa tale linguaggio, per chiarire che cosa intende dire, soprattutto al vedersi frainteso o strumentalizzato, dovrebbe aver cura di esporre lo stesso argomento in un modo equilibrato e misurato. Ma purtroppo Lutero si rifiutava di dare queste spiegazioni, sicché suscitava l’impressione in chi lo ascoltava o lo leggeva, che divenne certezza, che egli non facesse questione di linguaggio, ma di veri e propri contenuti. E fu così che cadde nell’eresia.

Molina cerca di rimediare

Molina, davanti allo spettacolo dolorosissimo di una Chiesa dilacerata - le guerre di religione erano cessate da poco più di vent’anni - soffrì profondamente l’attacco dei luterani alla Chiesa; capì che il nodo della questione era proprio il rapporto della grazia col libero arbitrio, dove Lutero aveva miseramente fallito e tentò generosamente di rimediare a questo conflitto provocato da Lutero con la sua famosa opera del 1588 De concordia liberi arbitrii cum divinae gratiae donis. Ma la prima grande opera teologica prodotta dalla giovane Compagnia di Gesù volle forse fare il passo più lungo della gamba e forse troppo confidando del prestigio ottenuto e del favore dei Papi, volle forse porsi in un atteggiamento inopportunamente competitivo con l’Ordine Domenicano.  Cominciamo tuttavia col vedere i punti in comune fra Tommaso, Molina e Lutero.

Punti in comune fra i tre rispetto alla dottrina

1. Sia Tommaso come Molina e Lutero ammettono la Sacra Scrittura come rivelazione divina, via di eterna salvezza e regola assoluta delle verità da credere, trasmessaci dalla tradizione apostolica sotto ispirazione dello Spirito Santo. Tutti e tre riconoscono il Simbolo Niceno-Costantinopolitano contente i dogmi del Mistero Trinitario e dell’Incarnazione redentrice del Verbo.

Tommaso e Molina affermano l’infallibilità della dottrina dei Concili e dei Papi fino alla fine del mondo. Lutero invece ritiene che col Medioevo il Magistero della Chiesa abbia perduto l’infallibilità e sia rimasto adulterato da falsi dogmi e tradizioni meramente umane. Secondo lui è rimasta solo la Scrittura come regola della verità di fede.

Secondo Lutero la tradizione ecclesiale dev’essere purificata dagli elementi umani aggiunti nel Medioevo e fatta tornare alla purezza delle origini. Questa è la riforma che egli propone: recuperare il Vangelo, i dogmi, la tradizione e i sacramenti nella loro purezza originaria.

Il papato come potere infallibile di interpretare la Scrittura ha esaurito la sua funzione. Come già avevano predetto Gioachino da Fiore, John Wycliff e Jan Hus, la Chiesa ha superato l’era del Figlio in quanto rappresentato dalla gerarchia ed è entrata nell’era dello Spirito, per cui «ogni cristiano ispirato dallo Spirito ascolta immediatamente Cristo nel Vangelo ed – dice Lutero - è Papa».

È finito il sacerdozio riservato ad alcuni, perché ogni cristiano è sacerdote. Non occorre più una mediazione sacramentale per interpretare la Scrittura (sola Scriptura), ma ogni cristiano ispirato dallo Spirito è in grado di interpretare la Scrittura eventualmente con l’aiuto dell’esegeta biblico. La comunità cristiana è retta dal pastore eletto dai fedeli.

2. Per Tommaso, Molina e Lutero la salvezza consiste certamente nella liberazione dal peccato grazie alla fede in Cristo ricevuta nel Battesimo e lo scopo ultimo della salvezza è, al di là della liberazione dal peccato, la libertà e la gloria celeste dei figli di Dio. Per Tommaso, Molina e Lutero noi saremo totalmente liberi dal peccato e compiutamente salvi solo in paradiso.

3. Sia per Tommaso che per Molina e per Lutero l’iniziativa dell’opera della salvezza spetta a Dio. La giustificazione parte dal dono della grazia. È la grazia che provoca nell’uomo il compimento delle buone opere. Per questo le buone opere compiute senza la grazia non valgono per la salvezza. Ma a questo punto le posizioni divergono: per Tommaso Dio muove il libero arbitrio ad accogliere la grazia; per Molina Dio offre la grazia, ma la dona effettivamente solo se l’uomo accetta l’offerta; per Lutero Dio dona la grazia al peccatore, che resta peccatore, ma giustificato per la giustizia di Cristo, che gli viene imputata.

4, Tommaso, Molina e Lutero sono d’accordo nel confessare che la salvezza è puro dono della divina misericordia. Tuttavia, mentre Tommaso e Molina sostengono che noi non siamo solo salvati, ma simultaneamente ci salviamo, per cui i nostri stessi meriti soprannaturali sono dono della sua misericordia, e il paradiso non è solo gratuito ma anche meritato, ossia oggetto della nostra conquista o del nostro acquisto, Lutero sostiene che noi siamo puramente e semplicemente salvati. che i nostri meriti non contano nulla e che il paradiso non è affatto oggetto di conquista, ma è puro dono della grazia.

5. Tutti tre sono d’accordo nel sostenere che la salvezza è gratuita. Ma mentre per Tommaso e Molina il libero arbitrio deve collaborare con la grazia, per Lutero la salvezza dipende dalla sola grazia, perché il libero arbitrio è estinto. Per tutti e tre non è l’uomo che salva se stesso con le sue opere o per i suoi meriti, ma è Dio che salva l’uomo facendolo operare bene.

6. Sia per Tommaso che per Molina e Lutero il sacrificio espiatorio e redentore di Cristo e la sua soddisfazione vicaria sono più che sufficienti ad ottenerci il perdono del Padre e la salvezza, solo che mentre per Tommaso e Molina bisogna che noi partecipiamo a questo sacrificio divino infinitamente meritorio coi nostri sacrifici essi pure meritori benché solo in modo congruo e non condegno come quello di Cristo, e soprattutto col sacrificio eucaristico, per Lutero pretendere che compiamo anche noi dei sacrifici espiatori è pretendere di aggiungere qualcosa all’opera di Cristo già in se stessa perfetta. A Lutero sfugge il concetto di partecipazione. Occorre rispondere che unirsi al sacrificio di Cristo non vuol dire perfezionarlo, ma solo partecipare nella grazia alla sua potenza salvifica ed imitarlo.

Punti in comune riguardo alla loro testimonianza cristiana

1.Tutti tre erano convinti di dover vivere secondo il Vangelo l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Accettavano la preghiera cristiana e la vita della comunità cristiana col dovere di annunciare il Vangelo e di dare testimonianza, di vivere in Cristo e di testimoniarlo con l ’esempio.

Lutero, come si sa, a differenza degli altri due, accoglieva solo la Scrittura (sola Scriptura) e non la Tradizione come fonte della Rivelazione. Abolì tutti i sacramenti, tranne il Battesimo e la memoria della Cena. Concepì la fede come certezza della propria salvezza unita alla carità in base alla promessa di Cristo (sola fides). Concepì la salvezza come puro dono gratuito di Dio senza la necessità delle opere e dei meriti (sola gratia). Concepiva la giustificazione come dono della grazia divina accompagnata dalla dichiarazione divina di giustizia non per l’intrinseca liberazione del peccatore, che resta peccatore, ma per l’imputazione divina della giustizia di Cristo al peccatore.

2. Tutti e tre sono stati operosissimi nella loro attività teologica, nel loro magistero, nel commentare le Scritture, nella diffusione del Vangelo, nel combattere gli errori, nel promuovere ed organizzare la vita cristiana, nella ricerca di Dio e della salvezza per sé e per gli altri.

Fine Prima Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 28 gennaio 2021                        


 

 

 

 

Sia Tommaso come Molina e Lutero ammettono la Sacra Scrittura come rivelazione divina, via di eterna salvezza e regola assoluta delle verità da credere, trasmessaci dalla tradizione apostolica sotto ispirazione dello Spirito Santo.

 

 

 

 

 

Tutti e tre riconoscono il Simbolo Niceno-Costantinopolitano contenente i dogmi del Mistero Trinitario e dell’Incarnazione redentrice del Verbo.


Si capisce allora la frase amara e sconcertata del Card. Gaetano dopo l’incontro con Lutero: «questo vuol dire fondare un’altra Chiesa!». E di fatti è evidente che Lutero, ideando una Chiesa senza il Papa, concepiva una Chiesa che non è più quella fondata da Cristo, benché fosse più che mai convinto nella sua ribellione di avere lui, contro il Papa, aver ritrovato la vera Chiesa di Cristo.

 

San Tommaso - Molina - Lutero (Immagini da internet)



[1] Ricardo Garcίa-Villoslada, Martin Lutero. Il frate assetato di Dio, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1985, vol.I, pp.129-131.

[2] Cf J. Maritain, Tre Riformatori, Morcelliana 1964 p.46.

[3] Cf J. Lortz-E. Iserloh, Storia della Riforma, Il Mulino, Bologna 1990, p.54.

[4] Cf Qo 9,1; Sir 5,5; I Cor 4,4; Pro 25,3; Gb 9,21; Sal 18,3; Fil 2,12.

[5] Sal 34,9; 63 4; 90,14; 119,76; 143,8.

[6] Sum. Theol., I-II, q.112, a.5. Il Concilio di Trento confermò la tesi tomista avvertendo che «chiunque, considerando se stesso e la sua fragilità e la sua indisposizione, può paventare e temere, dato che nessuno è in grado di sapere con certezza di fede, alla quale non può sottostare il falso, di non aver conseguito la grazia di Dio» (Denz.1534). Cf R.Garrigou-Lagrange, De Gratia. Commentarius in Summam Theologicam S. Thomae I-II, qq. 109-114, Edizioni LICE-R.Berruti&C., Torino 1946, pp.252-258.

[7] Ibid., II-II, q.97, a.2, 2m.

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