La mia storia con Ottone - Aristotele o Cartesio? - Prima Parte (1/2)

 La mia storia con Ottone

Aristotele o Cartesio?

Prima Parte (1/2)

Due amici tormentati

Ottone fu a partire dal lontano 1947 mio compagno di scuola alle Elementari di Ravenna, un ex-convento domenicano adattato, accanto alla bella e grande chiesa di San Domenico, tuttora officiabile, quasi presagio per me frate domenicano.  Ci ritrovammo assieme poi nel 1957 compagni di scuola al Liceo classico Dante Alighieri di Ravenna.

Nel 1958, al secondo anno di Liceo, come è d’uso, c’imbattemmo in filosofia con la conturbante gigantesca figura di Cartesio. La nostra intelligenza ne rimase traumatizzata, perché fummo subito travolti da una scossa spirituale devastante. Al contrario di uno Scalfari, che raccontò gioioso e spavaldo a Papa Francesco nel primo dei suoi scellerati colloqui con lui, quanto Cartesio gli aveva comunicato un senso di libertà spirituale nel renderlo cosciente del suo io assoluto, io e Ottone cominciammo a discutere angosciati come rispondere e cosa dire circa la convinzione preoccupata, dalla quale Ottone era stato preso, che – come diceva -  «i sensi ingannano», con riferimento al famoso esempio cartesiano del bastone nell’acqua, che appare spezzato.

Prendemmo estremamente sul serio quanto diceva Cartesio, a differenza dei nostri compagni di scuola, per i quali Cartesio non era altro che un noioso tizio come molti altri da digerire senza pesantezze di stomaco. Sorse invece tra noi due una discussione interminabile, tormentosa ed agitata, nella quale Ottone sosteneva amaramente, ma nel contempo con un sottile malizioso compiacimento che il problema del sapere sensibile non si può risolvere, mentre io tentavo di controbattere sostenendo il realismo, ma con dubbi ed enorme difficoltà, perché Ottone era sottile e insistente nelle obiezioni.

Ricordavamo vagamente il concetto di conoscenza in Aristotele appreso l’anno precedente un prima Liceo, e Ottone amava citare Aristotele, ma era rimasto così scosso da Cartesio, che non sapeva decidersi per Aristotele. Provava disagio ed amarezza, soffriva di quello che gli sembrava dover constatare, perché avrebbe voluto poterlo non dire, ma non riusciva a venirne fuori e faceva soffrire anche me, che non potevo non prendere in considerazione le difficoltà scettiche di Cartesio, ma nel contempo istintivamente fiutavo che Cartesio aveva torto e mi ribellavo, senza però trovare una risposta chiara e convincente.

Mi sembrava però nel contempo che Ottone provasse anche un gusto sottile nel contraddirmi e nel resistere alle mie obiezioni realiste, ma io non potevo arrendermi. Mi sembrava che poi Cartesio non gli dispiacesse del tutto. Io invece provavo una forte ripugnanza istintiva, ma non riuscivo a raggiungere quella saldezza intellettuale per capire e dimostrare che Cartesio nel suo dubitare aveva torto.

Mi sembrava sbarrata la strada verso la verità. E con ciò stesso anche l’essere o il non-essere mi apparivano ugualmente senza senso. Vivere o non vivere mi sembravano la stessa cosa. Non trovavo più differenza tra il vero e il falso, il bene e il male, l’esistere o il non esistere, l’amare e l’odiare, il giusto e l’ingiusto. Tutto in me e attorno a me sprofondava nel buio e nell’abisso. Niente che mi sostenesse, niente che mi aiutasse, niente che mi illuminasse, niente che mi consolasse, niente che mi desse vita e voglia e ragione di vivere.

Ottone ricominciava sempre daccapo ed io sempre di nuovo, ma invano, a controbattere in difesa del realismo. I nostri compagni di scuola non avevano questi problemi. La loro era una vita spensierata e frivola, per la quale a loro bastava ripetere a memoria Cartesio come qualunque altro filosofo nell’attesa della fine dell’anno scolastico per poter godere le vacanze al mare.

Ricordo che al Liceo la nostra insegnante ci fece leggere brani delle Confessioni di Sant’Agostino. Ma il suo argomentare non mi servì nel mio bisogno di trovare la verità. Non trovavo un sufficiente rigore razionale. Il fatto è che non ero ancora preparato a capire e a gustare la sua sapienza. Vi riuscii solo dopo che fui illuminato dalla conversazione col nostro insegnante di religione, un santo sacerdote di nome Don Giovanni Buzzoni, che era un fervente seguace di Maritain ed attraverso Maritain di San Tommaso.

L’incontro con Don Buzzoni

La luce decisiva mi venne da Don Giovanni, che mi iniziò ai princìpi della metafisica, il principio d’identità, di causalità e di finalità, quei princìpi che Cartesio irrideva come vuoti e insensati per sostituirli col suo io. Don Giovanni capì che il mio era il problema della metafisica, il problema del senso e dell’esistenza dell’essere. Quello che San Tommaso chiama actus essendi, che conduce a Dio come puro atto d’Essere.

Esiste l’essere? Questo era il mio problema. Io penso? Ma sono certo di pensare? E che vuol dire pensare? Esiste il mio corpo? Oppure esisto solo io, come sosteneva Cartesio? L’essere sono io? Si trattava, sostanzialmente, del problema dell’esistenza di Dio celato sotto il problema dell’essere.

A molti nostri contemporanei il problema dell’essere non interesse niente. Per me era una questione vitale, da risolvere assolutamente. E Don Buzzoni mi indicò la strada appunto additandomi la metafisica di Aristotele e di S.Tommaso e polverizzando la falsa metafisica di Cartesio, che però il demonio avrebbe continuamente, in seguito, continuato a propormi, restando però scornato ogni volta e così sarà in questa vita, finché non mi sarò definitivamente liberato da Cartesio in paradiso, che, data la mia età, è ormai alle porte.

L’esperienza dell’uscita dalle tenebre per venire alla luce grazie all’aiuto di Don Buzzoni, mi fece capire che Dio, quando vuol dare ad un’anima una forza invincibile e solidissime basi di certezza, la prova nel più intimo con le tenebre e la più angosciosa incertezza, le fa provare lo smarrimento totale, la totale impotenza, le fa sperimentare l’«ombra della morte» (Lc 1,79), lavora dolorosamente nel fondo della sua anima, facendole provare quella che San Giovanni della Croce chiama «notte dello spirito», alle radici della sua esistenza, scava  a fondo, per donarle le ragioni della sua esistenza ed un’energia tanto potente quanto più profondo è il luogo interiore, dal quale esse producono la vita, sicchè le radici poste in questo fondo sono talmente robuste e cariche di vita, che da esse sorge una energia intellettuale, spirituale così sana e rigogliosa, che nessuna intemperie può scuotere o abbattere e nessun veleno o roditore può distruggere.

Molti anni dopo, leggendo Hegel, mi accorsi che egli non ha tutti i torti quando, parlando della potenza dello spirito, dice che esso trae forza dal confronto con la morte, per affermarsi nella sua vita. La vita sorge dall’esperienza della morte. Lo spirito pertanto, dice Hegel, non deve fuggire dalla morte, ma guardarla in faccia, accettarla, affrontarla e vincerla. E quando esso sembra sconfitto, quello è il momento della sua vittoria. E compresi allora che quanto è più grande la prova, tanto più grande è la vittoria, se non sei tu stesso a cedere volontariamente al nemico con la fuga. Dice Hegel:

 

«Non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Essa guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare se stessa nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo, come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza solo perchè sa guardare un faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere. Essa è il Soggetto, il quale, mentre nel proprio elemento dà esistenza alla determinatezza, supera l’immediatezza astratta e cioè, in genere, solo essente, ed è quindi la verace sostanza, l’essere o l’immediatezza che non ha la mediazione fuori di lei, ma è questa stessa»[1].

L’osservazione che si può fare ad Hegel è però che non è l’incontro con la morte come tale che produce la vita, ma è la sopportazione della morte in unione con quella redentiva di Cristo, considerazione che allora, per la verità, non mi venne mente, né Don Giovanni mi fece fare, perché per il momento avevo bisogno di ricostruire la mia ragione, perché solo a questa condizione avrei potuto ritrovar fondamento a quella fede cattolica nella quale ero stato educato fin da bambino e che sotto i colpi della falsa certezza  cartesiana stava vacillando.

È chiaro infatti che il realismo della fede non può fondarsi sull’idealismo, giacchè questo, nemico com’è del realismo, se vissuto con coerenza, non può che distruggere la fede, portandolo a servire a due padroni: idealista in filosofia e realista nella fede, salvo a non voler essere idealista anche nella fede. Ma questo vuol dire prendersi gioco di Dio e non conviene certamente.

È stato San Tommaso, per mezzo di Don Giovanni, che mi ha fatto scoprire la verità e mi ha fondato definitivamente nella verità razionale. Adesso potevo avere il criterio certo per sapere quando sbagliavo e quando ero nella verità. Potevo ancora, certo, allontanarmi dalla verità, ma potevo averne coscienza, così da potermi correggere. Invece il cartesiano, che fa coincidere la propria idea con la realtà, è convinto di non sbagliare mai.

D’altra parte, se la verità è adeguazione alla realtà, come potevo ammettere che il dubitare per principio fosse la verità? Infatti sta proprio qui l’inganno di Cartesio, nel quale molti sono caduti[2], e cioè che il suo non è affatto un dubbio metodico, ma un dubbio voluto, forzato, artificioso e sofistico, perché il suo cogito è un dubito. Quindi quello che egli dà come principio della certezza non è altro che l’atto del dubitare. È questo il suo cogito.

Anche San Tommaso ricava dall’autocoscienza l’esistenza dell’io. Ma come lo fa? San Tommaso non dice semplicemente cogito, ma cogito aliquid[3], nel che c’è una differenza abissale. Il vero pensare ha un oggetto: cogito aliquid. Il cogito cartesiano non ha un oggetto e si può capire perchè. Infatti io non dico «dubito qualcosa», ma «dubito se la cosa è così o non è così». Cioè mentre il pensare è un sì a qualcosa, il dubitare è un oscillare fra il sì e il no.

Ciò vuol dire che il dubbio cartesiano non è un dubbio metodico, ma un dubbio fine a se stesso. Infatti il vero dubbio metodico è un dubitare ragionevole e motivato, che viene sciolto in base ad un criterio indubitabile di verità, che è la percezione dell’identità dell’ente, come mostra Aristotele. Invece il dubbio cartesiano è un dubitare irragionevole (dubitare della veracità dei sensi) che si pretende di risolvere in base a un criterio dubbio (io sono certo di dubitare).

Anche San Tommaso ipotizza per la fondazione della metafisica l’universalis dubitatio de veritate[4], dovendo appunto il metafisico chiedersi se esiste la verità.

Ma Tommaso, constatando l’assurdità di un simile dubitare, lo elimina immediatamente per prendere atto dei princìpi primi inconcussi del sapere sensibile e razionale. Tommaso, quindi, si guarda bene da dubitare sul serio su questi principì, perché qualunque altro dubbio è ammissibile, ma non si questi princìpi, perchè permettono appunto di risolvere ogni dubbio.

Cartesio, invece, per avviare la sua ricerca della verità fondamentale, della base e del punto di partenza del sapere, dubita deliberatamente dei fondamenti sensibili e razionali della certezza, ossia di tutte le scienze, passandole in rassegna ad una ad una, per concludere che l’unica basilare certezza che possiede e che gli resta è quella del dubitare di tutto, ma da ciò si salverebbe solo il suo esistere di Renato Cartesio, esistere del quale ha certezza assoluta perché lo pensa.  Io mi chiedo se questa è serietà nel filosofare.

Inoltre, nell’ergo sum di Cartesio, quell’ergo, per esplicita dichiarazione di Cartesio, non è una deduzione logica, ma è una posizione ontologica per la quale il sum non è dedotto dal cogito, ma è oggetto immediato del cogito, per cui pongo simultaneamente il mio pensare e il mio essere. Come a dire che non ho bisogno di chiedermi chi ha creato il mio essere, perché lo pongo io col mio atto di pensarlo.

Quindi per Cartesio non è che io penso perché sono, ma sono perché penso: ossia io pongo il mio essere in forza del mio pensarmi. Io non sono posto in essere da nessuno, ma mi pongo in essere da me stesso. Dal che si capisce che di Dio non c’è alcun bisogno o semmai Dio sono io stesso.

È stato San Tommaso a dare a me come a tutti i cercatori della verità il criterio razionale della verità, Tommaso come interprete della confutazione aristotelica degli scettici nel IV libro della Metafisica, come interprete di Aristotele, fondatore della stessa metafisica come «scienza della verità», come si esprime San Tommaso.

Una volta scoperta la verità, tornando a Sant’Agostino alla fine degli anni ’60, frequentando la Facoltà di Filosofia all’Università di Bologna, scoprii con gioia e con immenso frutto spirituale, la sapienza agostiniana e ne sono grato ai miei Maestri dell’Università che me l’hanno fatta conoscere e gustare, per cui ho compreso il valore di Sant’Agostino, diverso e complementare a quello di San Tommaso.

Gilson s’inganna nel porre il cogito cartesiano in continuità con quello agostiniano[5]. Cartesio stesso, infatti, interrogato se egli non fosse stato preceduto dal cogito agostiniano, ebbe a dire che il suo cogito nulla aveva a che fare con quello di Agostino. E ne aveva ben donde. Infatti, mentre il cogito agostiniano, il famoso si fallor, sum, è la conseguenza logica che Agostino trae dal sapere di essere fallibile, quindi da un pensare con un oggetto preciso – l’errare -il cogito cartesiano, come ho detto, non è neanche un vero pensare, perchè è un dubitare, e per questo non ha oggetto.

Inoltre ad Agostino, benché fosse diffidente circa la veracità dei sensi, non venne mai assolutamente in mente di dubitare circa l’esistenza delle cose esterne e della possibilità che l’esperienza dei sensi ci dà di dimostrare l’esistenza di Dio mediante la conoscenza sensibile delle cose create materiali.

Per questo, la prospettiva cartesiana di autofondazione nel proprio io non mi attirava assolutamente. Sentivo chiaramente che era una truffa. Avvertivo che non potevo assolutamente appoggiarmi su me stesso. Il mio spirito si proiettava spontaneamente al di fuori di me, «come la cerva anela ai corsi d’acqua» (Sal 42,2), sentendo chiaramente di non fondarsi in se stesso, ma d’altra parte lo scetticismo cartesiano mi bloccava.  E se avesse ragione Cartesio?

Il cartesianismo ha dato luogo ad immensi sviluppi e ad una sconfinata produzione letteraria nell’idealismo fino a Gentile, Husserl, Heidegger e Severino. Ma, se ci pensiamo, costoro in ultima analisi non hanno fatto altro che darci una filosofia che gira su se stessa, producendo risultati pratici che, illudendo l’uomo di essere Dio, lo conducono al nichilismo. Ogni nuovo filosofo assicura di rifare la filosofia dalle fondamenta e di fornire alla filosofia quel fondamento inconcusso che fino ad allora non esisteva. Si propone di superare il precedente criticandolo con gli stessi princìpi sui quali il precedente si è basato per criticare il precedente, fino a che si arriva a Cartesio, i cui princìpi si fondano sulla messa in dubbio di qualunque princìpio.

Viceversa, il vero progresso della filosofia è assicurato da Aristotele, corretto e sviluppato dalla scuola tomista. Infatti è Aristotele e non Cartesio a fornire punti di partenza, oggetti e metodo del vero filosofare, che dai suoi tempi ad oggi hanno consentito immensi progressi al sapere in tutti i campi ed ancora e sempre si aprono a nuovi sviluppi e conquiste.

Dall’amicizia nella ricerca della verità alla rottura

per il disaccordo sulla questione della verità

Alla luce dunque dei princìpi che mi propose Don Giovanni, riuscii a distruggere il veleno cartesiano, trovai la luce, la certezza e la pace, nonchè la voglia di progredire nella sapienza e mi confermai nella fede cattolica ricevuta dall’infanzia. Sentii quindi congiuntamente nascere in me un grande amore per la filosofia. 

Cominciai a provare il desiderio di comunicare la mia gioia, di sconfiggere l’errore, di liberare le anime dalle tenebre nelle quali mi ero trovato io, insegnando, loro come venirne fuori. Era il germe della vocazione domenicana, della quale allora non mi rendevo assolutamente conto. Mi ricordo al riguardo come in uno dei tanti incontri con Don Giovanni, se ben ricordo nel 1960, egli, dopo avermi chiarito per l’ennesima volta l’importanza della metafisica, buttò quasi senza badare una frase: «a ciò dovrebbero pensare i Domenicani! ». Ma sul momento quella frase non fece in me alcun effetto.

Mi venne in mente dieci anni dopo, quando Dio mi manifestò la mia vocazione domenicana, che avrei scoperto solo nel 1971. Un giorno di maggio, mese della Madonna, ero seduto a leggere un libro in una poltrona nell’orto di casa mia, quando improvvisamente sentii interiormente la voce della Madonna che mi disse: «Entra nell’Ordine domenicano: ti troverai bene!». E di fatti così è stato ed oggi sono più che mai contento della mia scelta.  

Tuttavia, ancora nel 1960, terminati gli studi liceali, si poneva il problema delle scelte ulteriori. Per il momento, considerando la mia abilità nel disegno e la prospettiva di trovare un impiego remunerativo, frequentai preso l’Istituto Rizzoli di Bologna un corso di tre anni per quelli che allora si chiamavano «disegnatori anatomo-chirurgici», incaricati di disegnare in sala operatoria le fasi degli interventi chirurgici per illustrare tali fasi nei trattati di chirurgia. Oggi questa professione non esiste più, sostituita dall’uso di mezzi fotografici.

Ma nel contempo mi misi appassionatamente a studiare il pensiero di San Tommaso. Quanto ad Ottone, suo padre, che non approvava affatto gli interessi filosofici del figlio, intervenne energicamente ad obbligarlo a iscriversi a ingegneria all’Università di Bologna, affinchè lavorasse nella sua azienda commerciale.

Mi sono interrogato a lungo sul senso che potesse avere l’improvvisa svolta di Ottone. Certamente fu spinto dal padre a quella scelta per Ingegneria. Ma a pensarci bene, mi accorsi che in fondo egli stesso aveva un modo di filosofare il cui esito non poteva che essere l’abbandono della filosofia per gli interessi pratici di questo mondo. Mi accorsi allora che la filosofia cartesiana, nella quale egli si era impigliato è – per quanto ciò possa apparire paradossale – una filosofia che, se praticata veramente sul serio, viene a sopprimere se stessa, perchè pone il dubbio su ciò che su cui occorre esser certi per risolvere il dubbio, ossia la certezza dell’esperienza sensibile e dei primi princìpi della ragione.

Quanto ad Ottone, a differenza di me, che ho fatto sempre una gran fatica in matematica, era in quella materia molto intelligente e capace, sicchè gli parve, abbracciando gli studi ingegneristici, di trovare una via d’uscita dal suo tormento interiore, e così abbandonò gl’interessi filosofici pensando di dar senso alla vita con l’immergersi negli affari di questo mondo.  Ma nello stesso tempo mostrò d’aver preso sul serio Cartesio proprio nel suo abbandonare la speculazione per gettarsi nella prassi.

Infatti mi ha sempre colpito in Cartesio il contrasto tra le sue certezze indubitabili in matematica e la sua doppiezza ed ambiguità in campo filosofico. Si nota in Cartesio e lo dichiara lui espressamente, che la sua cosiddetta «metafisica» non è e non vuol essere affatto una via verso la teologia e la fede cattolica (sebbene Cartesio si professasse cattolico!), ma intendeva essere il metodo che potesse garantire all’uomo di «diventare signore e possessore della natura»[6].

Dunque si tratta dello sviluppo dell’ideale magico ed ermetico[7] dell’antropocentrismo rinascimentale, che trova sempre ai tempi di Cartesio un’espressione apertamente gnostica in Giordano Bruno, mentre Cartesio riveste il suo idealismo di una veste cattolica.

Così, a un certo punto, mentre io mi confermai nel seguire Aristotele, Ottone divenne un realizzatore perfetto della filosofia cartesiana. Io, da parte mia, illuminato dalla sapienza di Don Giovanni, mi accorsi che lo scontro con Ottone era radicale. Io cercavo la verità e lui forse cercava l’affermazione del proprio io. La nostra amicizia cominciò a raffreddarsi, le distanze aumentavano. Mentre io cominciavo a pregustare la gioia del paradiso avendo scoperto la verità, vedevo con dolore Ottone camminare ostinatamente aggrovigliato nei suoi sofismi, con la pretesa di aver ragione lui. Il dialogo s’interruppe e io cessai di farmi vivo.

Stando così le cose, io mi decisi ad una chiarificazione definitiva. Basta con le tergiversazioni, basta con le commedie, con i trucchi, con le scappatoie, con le ipocrisie. Era una faccenda seria. Capii che si trattava ormai di fare una scelta chiara, netta, ferma, coerente, leale e definitiva. O sì o no. Davanti alla verità non ci si può tirare indietro, non si può menare il can per l’aia. Non si può fare i furbi.

Così ricordo una serata dopocena del 1963, allorchè, dopo un’ennesima inconcludente ed esasperante discussione, nella quale Ottone era più che mai sordo dai miei argomenti più fondati che mai, giunti al portone di casa mia e al momento di congedarci, mi venne l’ispirazione di dirgli chiaro e tondo: «Io scelgo Cristo». E così fu ed è stato e sempre sarà fino al mio ultimo giorno, ormai vicino. Ottone rimase silenzioso e se ne andò.

Da quel momento non ci rivedemmo più, fino a che ricomparve improvvisamente un giorno a casa mia in un’estate del 1968, quando io frequentavo la Facoltà di Filosofa a Bologna, dove mi sarei laureato nel 1970. Chissà perché venne?

Non riprendemmo le discussioni del passato. Che intenzioni aveva? Avevo acquistato la Somma Teologica di San Tommaso e la stavo leggendo dove l’Aquinate parla del matrimonio fra la Madonna e San Giuseppe. Ricordo che gli feci l’elogio della sublimità di questo straordinario matrimonio vergine, che aveva vissuto anche Maritain con Raissa, e lui cominciò ad attaccarmi con sofismi. Io controbattei, ma non servì a nulla. Se ne andò seccato e da allora di lui non ho saputo più nulla.

Caro Ottone! Amico di appassionate discussioni filosofiche in un ambiente studentesco spensierato e vanesio che si prendeva gioco di noi! Era apparso in Don Giovanni l’Angelo della Verità. Io ne approfittai e tu l’hai respinto. Chi aveva ragione? Aristotele o Cartesio? Abbiamo fatto la nostra scelta. Io ho scelto Aristotele, tu, Cartesio. Io ho deciso di fidarmi di Dio. Tu di te stesso. Io ho scelto Cristo. Tu hai scelto il mondo. Io mi sono lasciato conquistare da San Domenico e da San Tommaso. Tu dagli affari terreni. Verrà il giorno nel quale faremo la pace?  

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 marzo 2023

 

Prendemmo estremamente sul serio quanto diceva Cartesio, a differenza dei nostri compagni di scuola, per i quali Cartesio non era altro che un noioso tizio come molti altri

Esiste l’essere? Questo era il mio problema. Io penso? Ma sono certo di pensare? E che vuol dire pensare? Esiste il mio corpo? 

Oppure esisto solo io, come sosteneva Cartesio? L’essere sono io? 

Si trattava, sostanzialmente, del problema dell’esistenza di Dio celato sotto il problema dell’essere. 




 

È stato San Tommaso a dare a me come a tutti i cercatori della verità il criterio razionale della verità, Tommaso come interprete della confutazione aristotelica degli scettici nel IV libro della Metafisica, come interprete di Aristotele, fondatore della stessa metafisica come «scienza della verità», come si esprime San Tommaso.

 

Immagini da Internet: Autoritratti, Egon Schiele 
 



[1] Fenomenologia dello Spirito, Edizioni La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.I, p.26.

[2] Per esempio l’opuscolo di Pedro Lumbreras, De dubio methodico Cartesii. Dissertatio historico-critica, Friburgi Helvetiorum 1919.

[3] Quaestio disputata De Veritate, a.10, ad 7m.

[4] Nel Commento alla Metafisica di Aristotele, l.III, lect.I, Edizione Marietti, Torino 1964, n.343, p.97.

[5] In Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, pp.53-55.

[6] Vedi il commento che Maritain fa a questa prospettiva di fondo della filosofia cartesiana in Le songe de Descartes, Edizioni Buchet&Chastel, Paris 1932, p.130.

[7] Vedi gl’importanti studi di Frances A.Yates, Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento, Laterza, Bari 1995 e Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza,Bari 1192.  È interessante notare che fra razionalismo e magia esiste una segreta insospettata ma logica connivenza, perché tanto nel razionalismo che nella magia l’uomo si considera dotato di un potere divino di operare sulla natura obbligandola a fare la sua volontà. Tutto il contrario di quanto stabilisce Galileo, quando dice che comanda alla natura solo chi per primo obbedisce alle sue leggi, in perfetta sintonia in ciò con i princìpi fisici di Aristotele. C’è pertanto da sottolineare, come ce lo fa presente il Maritain ne La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974, come occorra distinguere nella cosmologia aristotelica la parte filosofica, di valore perenne, dal rivestimento tolemaico, crollato con la fisica galileiana. I sedicenti “aristotelici”, quindi, che avversarono stoltamente Galileo, non erano veri aristotelici, ma fanatici del sistema tolemaico, ai quali va la responsabilità di aver ingiustamente screditato la fisica aristotelica presso i moderni. Ma anche Cartesio dimostra di non averla capìta e noi oggi ne paghiamo le conseguenze dando ascolto qui al dualismo meccanicistico cartesiano e non ad Aristotele.

7 commenti:

  1. Buonasera Padre, le pongo queste osservazioni: 1) Il cogito di Cartesio pensando se stesso, a me pare che esclude il dubbio, perché appunto pensando se stesso pensa un oggetto cioè appunto se stesso. E anche il se stesso è sempre essere, non materiale, ma spirituale. San Tommaso ricava dall’autocoscienza l’esistenza dell’io dopo che ha pensato attraverso i sensi gli oggetti materiali, Cartesio dopo che ha pensato direttamente se stesso come oggetto spirituale. Per cui il risultato alla fine è lo stesso, cambio solo il percorso. O no?

    2) Lei dice che in Cartesio è l’atto del mio pensiero che pone, che crea, il mio essere. Domando: ma Cartesio non afferma anche come un dato evidente che avvertendosi come imperfetto ricava la sua origine da qualcun altro altrimenti se fosse stato per lui si sarebbe creato come perfetto. Questo qualcun altro è Dio. Ecco mostrata quindi l’esistenza di Dio, indipendente da me e creatore di me. O no? Grazie e distinti saluti. Francesco Orsi

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    1. Caro Francesco,
      (1) Cartesio, dicendo che riflette sul suo atto di pensare, in realtà riflette sul suo dubitare, il quale, come ho detto, non è un vero pensare, ma è un’oscillazione del pensiero tra il sì e il no e si tratta di un dubbio volontario universale, del tutto irragionevole, perché non ha senso dubitare, come fa lui, dell’esistenza delle cose esterne.
      Io posso essere certo di dubitare, ma questo dubitare è un atto del mio spirito, dal quale non posso ricavare legittimamente alcuna conclusione.
      Il cogito di Sant’Agostino e di San Tommaso sono invece principi validi, dai quali si può ricavare la coscienza dell’esistenza dell’io, perché questo cogito ha un oggetto. In Agostino si tratta della consapevolezza della fallibilità del nostro pensiero (“si fallor, sum”), ossia se sono consapevole della mia fallibilità, questa fallibilità è oggetto del mio pensiero e quindi qui compio un vero atto di pensiero, perché ho davanti a me un oggetto.
      Per quanto riguarda San Tommaso, anche qui abbiamo un atto valido di riflessione, perché Tommaso riflette sul proprio atto di pensare la realtà. Infatti, mentre Cartesio dice solo “cogito”, San Tommaso dice “cogito aliquid”.
      Perché Cartesio dice solo “cogito”? Perché il suo pensare non ha un oggetto, per il fatto che come ho detto non è un pensare, ma un dubitare, e si sa che io non posso dire “dubito qualcosa”, ma, se dubito, devo dire “non so se A è o non è B”.
      Anche San Tommaso ci insegna che noi possiamo essere oggetto di conoscenza a noi stessi, come soggetti spirituali. Tuttavia Tommaso giunge a questa conclusione con un metodo giusto, ossia partendo dalla conoscenza delle cose sensibili.
      Ora, è vero che anche Cartesio sostiene che noi abbiamo coscienza di noi stessi, come soggetti spirituali. Tuttavia è sbagliato il metodo col quale arriva a questa coscienza. Infatti, secondo Cartesio, noi iniziamo a conoscere con la percezione immediata delle nostre idee. Ma questo non corrisponde al vero processo della conoscenza umana, ma semmai è proprio degli angeli, i quali, essendo puri spiriti, che non hanno bisogno dei sensi per conoscere la realtà, raggiungono la conoscenza perché Dio stesso infonde nel loro intelletto le idee delle cose.

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    2. (2) Il passaggio dal cogito al sum, per espressa dichiarazione di Cartesio, non è una deduzione, ma un passaggio immediato. Cioè, secondo lui, io coglierei il mio essere nel momento stesso in cui io colgo il mio pensare, ma qui c’è una grave insidia che condurrà alla posizione di Fichte, per la quale io pongo il mio stesso essere.
      Ma questa conclusione panteistica è già nascosta nella ambiguità del rapporto cartesiano pensare-essere, perché già qui questo porre il proprio essere, al di là dell’atto mentale, può essere interpretato con un porre ontologico. Per questo Giovanni Gentile, sviluppando ulteriormente l’Io Assoluto di Fichte, parla esplicitamente di autocreazione (“autoctisi”).
      Ora, è chiaro che Cartesio certamente non si accorse di queste conseguenze del suo cogito. E tuttavia esse possono essere ricavate da una interpretazione idealistica del cogito.
      Riconosco che Cartesio fa quel ragionamento basato sulla coscienza della propria imperfezione. Tuttavia ricordiamoci che il punto di partenza cartesiano non è la percezione delle cose esterne, dalle quali, in base al principio di causalità, si possa ricavare l’esistenza di Dio, ma, come è noto, è il suo cogito, per il quale io ho la percezione immediata di me stesso e in me stesso trovo l’idea innata dell’esistenza di Dio.
      Da questa idea di Dio, Cartesio ricava l’affermazione dell’esistenza di Dio, ma questo procedimento non è legittimo, perché in realtà noi possiamo formare l’idea di Dio solo una volta che abbiamo scoperto l’esistenza di Dio, partendo dalla conoscenza delle cose esterne.
      Pertanto, la prova dell’esistenza di Dio, basata sulla coscienza della sua imperfezione, suppone già quell’idea di Dio innata, della quale Cartesio parla quando deve fondare l’oggettività o verità della conoscenza.

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  2. Reverendo Padre Cavalcoli,
    ho ventidue anni, appassionato della verità indicata da Aristotele e San Tommaso e turbato anch'io nella mia adolescenza da figure come Cartesio e da uno stuolo innumerevole di letterati, primo fra tutti Leopardi. Le sono molto grato per aver condiviso questo suo frammento di esistenza, perché vedo che le dinamiche degli spiriti, se messi in contatto con le medesime cose, sono anch'esse le medesime: a maggior ragione dato il grande divario di età tra Lei e me. Anch'io immerso nella parole di questi tentatori e privo di qualsiasi mezzo intellettuale di difesa (incredibile come nelle scuole superiori si spendano anni in storie della letteratura e filosofia, ma neanche un'ora di Logica e Gnoseologia) ero particolarmente sedotto da questi; parlo al passato, ma gli effetti della malattia, seppur riconosciuti e ammorbiditi, ancora sono presentissimi. Scrivo queste righe, oltre che per ringraziarLa di nuovo, per porgerLe una domanda o forse più una richiesta di consolazione occasionata dalla forte impressione che mi ha fatto l'espressione da Lei usata "ambiente studentesco spensierato e vanesio che si prendeva gioco di noi". Anch'io ho condotto molto anni fra le aule di un Liceo Classico e questi ultimi tre davanti le cattedre di una Facoltà di Filosofia e Le confesso che, dopo aver esplorato seppur ancora sommariamente le ampiezze di pensatori come Aristotele, si è rafforzato in me un sospetto che in realtà era già vivo da tempo: che tutta quell'istruzione ricevuta fosse "campata per aria". E perché? Perché non ancorata alla solide radici dell'essere e non maturata entro una visione sponsale della realtà, che credo solo Cristo permetta. A tal proposito mi vengono in mente le pagine che Agostino spende ricordando dei suoi studi di Retorica. Mi sentivo piuttosto vuoto e ora , riconosciuto il male, piuttosto deluso e tradito da un sistema scolastico che ci prometteva grandi cose per le nostre anime, quando in realtà si sono insinuate solo erbacce. Le volevo chiedere dunque se anche Lei avesse provato le stesse cose: sarebbe per me di grande gioia sapere che il mio intelletto, e quindi la mia natura disposta da Dio, durante il periodo di "convalescenza da idealismo" avesse da sé diagnosticato la malattia e avesse scatenato in me i tipici sintomi di orgoglio e vuotezza. Ciò che mi rammarica è che non tutti i miei amici sono stati graziati come me allo stesso modo: ho persino sentito una mia amica frequentante la Facoltà di Medicina irridere al finalismo e a Dio... come se il teoreta del corpo umano potesse voltare le spalle a queste verità.
    Grazie ancora Padre Cavalcoli

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    1. Caro Giovane,
      mi ha fatto molto piacere rivedere nel tuo spirito quello che è successo a me, ai tempi del Liceo.
      Se ho ben capito, tu hai potuto vincere l’idealismo di Cartesio con il realismo di Aristotele e questa è una vittoria sicura.
      Il senso di vuoto lo sente un animo bisogno di verità, che si imbatte nel dubbio cartesiano. A questo punto può sorgere un moto di orgoglio, vale a dire che, ascoltando quella spinta all’orgoglio che c’è in tutti noi, in quanto feriti dal peccato originale, può venire la tentazione di riempire quel vuoto non con un atto di umiltà, che consiste nell’adeguare la nostra mente alla realtà delle cose esterne, ma di voler risolvere il problema della verità puntando solo su noi stessi. Fu questa purtroppo l’operazione di Cartesio.
      Vedo invece con piacere che tu hai superato questa tentazione e con un atto di grande onestà, dietro lo stimolo che ti è venuto da Aristotele, hai potuto superare il dubbio cartesiano e trovare nel realismo gnoseologico la vera certezza del conoscere.
      È questa peraltro la base razionale, che ci consente di incontrare Cristo nella fede.

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  3. Il giovane che ha scritto ha ragione, la scuola dovrebbe insegnare le basi del pensare e non l'ideologia dominante, anche perché, da giovani, non si hanno i mezzi per difendersi intellettualmente dai "professori".

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    1. Caro Alessandro,
      purtroppo la nostra scuola pubblica è, sin dall’epoca del fascismo, dominata da una impostazione che si rifà allo storicismo idealista di Giovanni Gentile, il quale nel 1930, da ministro dell’istruzione pubblica, fece una famosa riforma della scuola, la cui struttura è rimasta sostanzialmente invariata.
      Nella scuola pubblica in questi ultimi decenni si è aggiunto un influsso proveniente dalla massoneria, dal marxismo, dal positivismo e dal freudismo.
      Esistono bensì le scuole cattoliche, ma esse sono molto limitate nelle loro possibilità e accessibili soltanto a pochi.
      A proposito di questo importante problema educativo, occorrerebbe che i nostri vescovi, congiuntamente con le nostre forze politiche cattoliche, soprattutto quelle legate agli ambienti della cultura e della scienza, si organizzassero in modo tale da poter promuovere una migliore attuazione della scuola cattolica e della università cattolica.
      Un altro problema in questo campo è la presenza, all’interno della stessa cultura cattolica, di una tendenza modernista e di un’altra passatista, che inquinano la purezza della dottrina cattolica.
      Strutture educative significative sono quelle organizzate dalle diocesi e dalle parrocchie, nonché dai movimenti ecclesiali e da istituzioni legate agli istituti religiosi.
      Esistono anche iniziative di singoli educatori, i quali operano in ambiti più o meno vasti.
      Considerando questa complessa realtà, gli ambienti educativi e familiari devono favorire nei giovani l’interesse per gli ambienti educativi civili od ecclesiastici, privati o pubblici, che diano il massimo di garanzia di essere in comunione con la Chiesa e di svolgere un compito educativo veramente formativo.

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