Il sacrificio espiatorio - Terza Parte (3/3)

 Il sacrificio espiatorio

Terza Parte (3/3) 

Rahner attinge da Heidegger, a sua volta eco di Hegel

L’essere-per-la-morte heideggeriano, se vissuto autenticamente, non disperdendosi nella quotidianità del «si dice», ma concentrandosi nel proprio esistere senza illusioni e quindi accettando l’«angoscia» e la «cura», garantisce all’Esserci, ossia all’uomo in situazione, la sua «possibilità più propria», vale a dire l’«esistenza autentica» di «casa» e «pastore» dell’essere.

È lo stesso tema hegeliano, come vedremo: la vita sorge dal concentrarsi sulla morte. Occorre «stare presso il mortuum»[1]. Heidegger ha espressioni di assonanza evangelica, come quando Cristo dice: «chi perde la propria vita per Me, la trova» e così Heidegger parla della «rinuncia a se stesso»[2], ma, non essendo cristiano, egli non pensa per nulla al sacrificio cristiano, ed essendo stato filosofo del nazismo, c’è piuttosto da pensare che egli si riferisse alla dedizione allo Stato nazista.

Dai seguenti brani di Heidegger, tratti da Essere e tempo, possiamo vedere da dove Rahner ha tratto ispirazione e il suo concetto della morte come pienezza della libertà.

«L’essere-per-la morte è l’essere per il poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile»[3]. «La morte, come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata»[4]. «L’essere-per-la-morte è l’anticipazione» (=previsione) «di un poter-essere di quell’ente, il cui modo d’essere ha l’anticiparsi stesso. Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l’Esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter-essere più proprio significa: poter comprendere se stesso entro l’essere dell’ente così svelato: esistere.

L’anticiparsi si rivela come la possibilità della comprensione del poter-essere più proprio ed estremo, cioè come la possibilità dell’esistenza autentica»[5]. «La morte è la possibilità più propria dell’Esserci. L’essere per essa apre all’Esserci il poter-essere più proprio, nel quale ne va pienamente dell’essere dell’Esserci». «L’anticipazione non evade l’insuperabilità come fa l’essere-per-la-morte inautentico, ma, al contrario, si rende libera per essa. L’anticipante farsi libero per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità che si presentano casualmente, di guisa che le possibilità effettive, cioè situate al di qua di quella insuperabile, possono essere comprese e scelte autenticamente. L’anticipazione dischiude l’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa. Dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte»[6].

«Ciò che caratterizza l’essere-per-la-morte autenticamente progettato sul piano esistenziale, può essere riassunto così: l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel si-stesso» (=il si dice) «e, sottraendolo fino in fondo al prendente cura avente cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del si dice, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: la libertà per la morte»[7].

Da questi passi vediamo come l’uomo («Esserci») viene inteso come essenzialmente orientato alla morte che gli dischiude nell’angoscia il suo essere autentico come incondizionato ed insuperabile. La «libertà per la morte» è il morire come supremo e definitivo momento della maturazione e del progresso della libertà: lo spunto è stato raccolto da Rahner, come abbiamo visto. Ma la fonte di Heidegger è Hegel, che ci accingiamo a vedere.

Ex morte vita: la concezione hegeliana

della vittoria della vita sulla morte.

Hegel ha alcune pagine della Fenomenologia dello Spirito[8] di straordinaria concentrazione e densità, dove il filosofo ci esprime in poche battute di potente espressività e suggestiva profondità il suo modo d’intendere l’essenza e l’azione dello «Spirito», nozione fondamentale della filosofia hegeliana, secondo me la nozione centrale, la nozione cardine, capìta la quale noi siamo in possesso, oso dire, del segreto del sistema di Hegel. 

Che cosa intende Hegel per Spirito? Indubbiamente per lui lo Spirito infinito, eterno ed assoluto è Dio. Lo dice più volte expressis verbis nelle sue opere. E ciò gli fa certamente onore. Lo Spirito è l’Assoluto, è il Soggetto, è l’Idea, è il Concetto, è il Pensiero, è la Ragione, è il Divenire, è la Storia, è Dio.

Ma ecco subito sopravvenire i problemi, perché lo Spirito è «dialettico». O, come dice Hegel, è «sillogismo». Non è un puro sì, ma è sì e no. Non è l’ipsum Esse per se subsistens di S.Tommaso, perfetta interpretazione di Es 3,14 e dell’«Io Sono» più volte pronunciato da Cristo.

No. Ma è l’essere-non-essere che per Hegel sarebbe il Divenire. Inoltre Hegel ha quella famosa frase estremamente indicativa della sua teologia e del suo spiritualismo: «Dio non sarebbe Dio senza il mondo».  Anche Dio è connesso con la materia. Quindi anche la corporeità e la materia, con tutte le loro traversìe, peripezie, sventure, conflitti, fallimenti, sofferenza, male, morte appartengono a Dio.

Dio è un Dio-nel-mondo, immanente al mondo. Dio non è in cielo ma in terra. Ecco perchè per lui lo Spirito è Divenire, perché il mondo è evidentemente in divenire, mutamento, storia, alternanza di vita e morte. Dunque lo Spirito di Hegel non è pura Vita, ma vita-morte-vita. Ecco perché per lui lo Spirito è lo «spirito del mondo», mentre sappiamo bene che cosa è per San Paolo lo spirito del mondo: è il demonio, quello che Cristo chiama «principe del mondo». E siamo al punto decisivo: non resta che concludere che Hegel nel concetto dello Spirito, confonde Dio con Satana.

Inoltre, Dio per Hegel è bensì come per San Tommaso identità di essere e conoscere, e, come per Aristotele, autocoscienza («nòesis noèseos»); ma il guaio è che Hegel concepisce in tal modo non solo l’essere divino, ma l’essere come tale, cadendo nel panteismo.

Hegel non crede a un puro Spirito immutabile separato dalla materia. In ciò, se si riferisse solo allo spirito umano, potremmo essere d’accordo; ma il fatto è che egli non concepisce lo spirito se non connesso alla materia e alla fine il suo stesso idealismo gnoseologico («l’essere è il pensato») si volge in materialismo, giacchè l’essere è anche essere materiale: e se il pensiero coincide con l’essere, finirà per coincidere con la materia. Ricordiamoci che Marx non è altro che un Hegel rovesciato, come affermò lo stesso Marx.

Dunque, per capire che cosa è e come agisce lo Spirito secondo Hegel, occorre saper maneggiare la dialettica del sì e del no e aver presente che l’identità dell’Essere col Pensiero non riguarda solo Dio ma l’essere come tale. Da qui il suo panteismo. Nel brano che citeremo, Hegel ci dice come vede lo Spirito, fondato sull’Intelletto e basato sulla Negazione. Non mancano in mezzo a profonde intuizioni dei bagliori sinistri, che ci fanno capire o intravedere che Hegel mescola tragicamente il divino col diabolico, il dio Odino col Dio cristiano:

 

«Che l’accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, che ciò che è legato nonché reale solo nella sua connessione con altro, guadagni una sua propria essenza determinata e una distinta libertà, tutto ciò è l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare, del puro Io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l’intelletto, perché esso le attribuisce compiti che essa non è in grado di assolvere. Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione, anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo, come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza solo perché sa guardare in faccia al negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»[9].

Sul significato del termine «negazione» bisogna che c’intendiamo. Negare in generale vuol dire togliere o annullare qualcosa di positivo presupposto. Ma lo spirito può compiere ciò in tre modi: o in senso logico-dialettico, mediante il giudizio negativo; e questa è una negazione costruttiva, necessaria alla scienza, per cui qui affermazione e negazione sono una coppia inseparabile; o con un atto fisico distruttivo o corruttore, per cui parliamo di azioni negative o influssi negativi; oppure un atto morale di disobbedienza o di ribellione.

Hegel, che notoriamente riduce tutta la realtà alla logica, estende all’intera realtà la forma dialettica di affermazione-negazione. Da qui l’estensione delle dualità degli opposti nell’orizzonte dell’Assoluto stesso, per cui in Dio c’è l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il sì e il no, il bene e il male e, per quanto riguarda il nostro tema, la vita e la morte.

Hegel ha indubbiamente la percezione di che cosa è lo spirito, legandolo francamente all’intelletto, al pensiero, alla coscienza, alla persona, alla scienza, alla libertà, all’eterno, all’universale, nella sua padronanza sullo spazio-tempo. La domanda, però, conturbante, che nasce davanti a questo «spirito», è la seguente: qual è il rapporto di questo spirito col bene e col male?

Il grosso guaio dello spiritualismo hegeliano, nonostante il suo gusto per l’opposizione, è che egli non distingue mai lo spirito buono dallo spirito cattivo, ma lo spirito sembra essere ad un tempo buono e cattivo. Non parla mai di uno Spirito Santo, anche quando parla della Trinità.

Ciò si riflette inevitabilmente sul rapporto vita-morte. In realtà per la fede cristiana esiste uno spirito della vita, che è lo Spirito di Dio, Dominum et vivificantem, e uno spirito mortifero, che il Vangelo chiama «spirito impuro», che è il demonio, colui che, come dice Cristo, è «omicida fin da principio». Ora un’esaltazione del «negativo», uno spirito che «si sofferma presso la morte», uno spirito che ricava la vita dalla morte, quale spirito può essere se non uno spirito diabolico?

È evidente qui il principio secondo il quale la vita vive nella morte e la morte vive nella vita. La vita non deve fuggire la morte, ma deve stare con lei. Solo così riesce a vincerla ottenendo che la morte produca la vita. Quindi per Hegel non è la vita che produce la vita negando la morte, ma è la morte che produce la vita dalla negazione della vita, negando se stessa.

In Hegel non troviamo le parole dell’inno pasquale. «Vita et mors mirando conflixere duello», perché tutto sommato, vita e morte, senza smettere di litigare, coesistono nella sintesi dialettica, che non toglie il conflitto, ma lo supera e lo copre, come la grazia luterana, che non toglie il peccato, ma lo assoggetta. Da qui una legalizzazione, anzi una divinizzazione della morte.

Anche la morte vuole la sua parte nel concetto dello Spirito e della divinità. Da qui viene l’essere-per-la-morte heideggeriano, dal quale scaturiscono l’essere autentico e la vita (l’«incondizionato» e l’«insuperabile»). Da qui viene per Rahner la morte di Cristo, dalla quale scaturisce la vita non perchè morte espiativa, un mito superato, ma perchè nella morte stessa c’è la vita e la vita viene dalla morte. Ma non siamo davanti a un altro mito e questa volta assurdo e blasfemo?

Nella mitologia germanica il conflitto al posto dell’espiazione

La religione romana prevede certo Marte come dio della guerra ed altri geni malèfici. Ma la divinità suprema, Giove, il Padre degli dei e di Minerva, è saggio, pacifico, giusto e provvidente, anche se non manca di fulminare i malvagi. Invece la divinità germanica, quale che sia, è concepita sul modello della lotta, dell’aggressività e della violenza. È una divinità sempre adirata, implacabile e sempre in guerra con qualcuno, avida di possesso, di potere e di conquista.

Manca nell’antico Germano il senso così vivo nella romanità della lex naturae dello jus gentium, In nome di una sfrenata e soggettivistica libertà, gli manca il senso e il concetto del peccatum, dello scelus e del crimen.  In simili condizioni morali e sociali, difficile è immaginare quale poteva essere la convivenza degli antichi Germani fra di loro, anche se Tacito non ne ebbe dispregio.

Gli stessi Romani tuttavia non riuscirono mai a sottomettere i Germani.  Solo nel sec. VIII iniziò la cristianizzazione della Germania, quando i paesi latini erano già cristiani dal sec. IV. Solo gli evangelizzatori cristiani, con la loro carità e discernimento riuscirono a comprendere la peculiarità e il lato buono dell’anima tedesca, sulla base del quale fu possibile costruire la fede. E i Tedeschi hanno sempre fatto fatica ad assimilare li diritto romano, che pure la Chiesa ha utilizzato nel Diritto canonico. Ne dà prova la Riforma luterana. Resta, grazie a Dio, come elemento di dialogo la Sacra Scrittura.

Mancava tuttavia negli antichi Germani il senso della colpa e quindi il bisogno di placare la divinità con sacrifici, perché la divinità è sempre in polemica con l’uomo e questi è sempre in polemica con la divinità. Del resto, rubare, opprimere, violentare e uccidere non è una colpa, ma segno di libertà e di potenza divina. La nietzschiana «volontà di potenza» e l’«uccisione di Dio» non sono è altro che una riesumazione dell’antica etica dei Germani. Allora la bestemmia equivaleva a far teologia e la magia si confondeva con la religione.

Quanto alla morte, nella mitologia germanica non ha bisogno che le si assegni una funzione espiatrice, perché essa è principio di vita per conto suo, senza che occorra ricorrere a sacrifici espiativi. Del resto non c’è nulla da espiare, perché il perdono non esiste, ma c’è solo la vendetta, oppure il perdono è assicurato anche a chi non si pente.

Il dio germanico non ha mai pace, è un eroe sventurato ed ha un destino tragico e grandioso. Non è immortale, ma muore e risorge. Non è immutabile, ma si trasforma. Non mette pace, ma suscita conflitti. Non ha il senso dell’universalità, ma parteggia sempre per qualcuno. Quando gli conviene, preferisce la menzogna alla verità. «Genio e sregolatezza», secondo il noto motto riferito al romanticismo tedesco.

Il dio principale, Odino (Wotan), infatti, non è il Dio della vita e della pace secondo l’ideale della pax romana. Ma è un dio orientato ad un tempo alla vita e alla morte che vuole la vita e la morte, un dio che congiunge l’odio e l’amore, un dio che unisce in sé la vita e la morte.

Così vediamo descritta la figura di Odino nel Grande Dizionario Enciclopedico[10]:

«Odino è il principale dio celeste, armato di lancia. Si serve della sua sapienza, della sua astuzia e della sua potenza sull’intero universo in bene e in male. È l’iniziatore della civiltà umana, l’ispiratore del progresso, il creatore della terra e della prima coppia umana, è il dio della guerra e della morte, inquieto spirito avido di avventure, violatore di donne ed imperscrutabile distributore di lutti e dolori. Sua moglie è Frigg, con la quale abita nel Walhalla, la dimora degli dèi, e con la quale perirà nella grandiosa catastrofe finale, divorato dal lupo Fenrir».

Notizie tratte dall’Enciclopedia Cattolica[11]. Odino, originariamente di carattere demoniaco, condottiero nelle notti in tempesta della caccia selvaggia, cioè della schiera delle anime che egli poi riconduce nel grembo delle montagne, perdette in seguito questo carattere e assunse gli attributi di un dio celeste, signore della guerra e della vittoria, ma anche della vita spirituale e della civiltà.

È padre universale e supremo ordinatore del mondo, sovrano dell’arte magica e inventore delle rune, i primi scritti incisi su alte stili di pietra[12], tolti dall’alfabeto latino ed usati come segni a scopo divinatorio. Come signore della guerra, egli troneggia nel meraviglioso Walhalla, luogo felice dove si raccolgono gli uccisi in battaglia, che continuano le loro attività guerresche svolte sulla terra in mezzo a lauti banchetti, allietati dalle walchirie, ancelle di Odino, vergini guerriere dotate di corazza ed armi, che cavalcano in cielo e scelgono i predestinati a soccombere in combattimento per condurli nel Walhalla. Morire uccisi combattendo è l’ideale di felicità dell’antico Germano che gli merita il soggiorno nel Walhalla.

Esisteva bensì anche il luogo sotterraneo dei morti, governato da Hel, la dea della morte. Ma qui andavano gli anziani morti di morte naturale, una morte spregevole non degna del Walhalla. Da Hel viene il termine tedesco Hölle e l’inglese hell per designare l’inferno. Solo i morti in guerra sono risparmiati dall’inferno.

Ad Odino si attribuisce un’attività creatrice e la formazione della prima coppia umana, non nel senso di creazione dal nulla perché si suppone l’esistenza ab aeterno della materia e degli dèi[13]. La fine del mondo è concepita come tragica sia per gli uomini che per gli dèi e una risurrezione felice descritta nella raccolta di poemi dell’Edda è dovuta ad un influsso cristiano.

Una simile visione della divinità signora della morte e della guerra e dalla fine tragica non può che spingere ad una visione fosca e lugubre della vita, sotto il segno della morte. Una divinità basata sul conflitto, sulla violenza, sulla rapina e sulla guerra non può che generare uno stile di vita proteso al delitto, all’omicidio e al suicidio, ad una vita amica della morte, o finalizzata alla morte («essere-per-la morte», sein zum Tode). La vita umana cade sotto l’orizzonte del freudiano «istinto di morte» e vengono in mente le parole del libro della Sapienza (1,24):

«Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole; ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle».

Il detto heideggeriano non è il francescano «fratello, ricordati che devi morire», perché devi render conto a Dio delle tue opere, non è un richiamo al valore espiativo della morte, ma un attendere la morte come «momento della pienezza definitiva della libertà», come se la morte fosse produttiva non perché è la morte espiativa di Cristo, ma semplicemente in quanto morte.

Da qui proviene il detto della massoneria «niente vita senza morte e niente morte senza vita». E da qui viene la falsa concezione della morte che Rahner attribuisce al cristianesimo e in particolare alla morte di Cristo. Essa non è di matrice biblica, ma hegeliana. Infatti Hegel traduce bene in termini dialettici la teomachia propria dell’antica religione germanica fatta di dei crudeli, simili a demòni assetati di morte e distruzione, in base alla falsissima idea che non la vita ma la morte genera la vita, così come per Hegel il «negativo» produce il «positivo».

Così Rahner ha assunto direttamente da Heidegger il concetto della morte, che Heidegger, a sua volta ha ripreso da Hegel, alle radici del cui pensiero è possibile rintracciare i temi dell’antica bellicosa mitologia germanica. Quello dunque che Rahner dice sul significato della morte di Cristo non deriva dalla Scrittura, né ha alcun riferimento neppure alla religione naturale rispecchiata dall’antica Roma, ma riflette in radice la turbinosa e tragica teomachia dell’antico paganesimo germanico[14], il «crepuscolo degli dèi», messo in musica dal fascinoso genio di Richard Wagner.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 1 novembre 2021

Hegel, che notoriamente riduce tutta la realtà alla logica, estende all’intera realtà la forma dialettica di affermazione-negazione.

Da qui l’estensione delle dualità degli opposti nell’orizzonte dell’Assoluto stesso, per cui in Dio c’è l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il sì e il no, il bene e il male e, per quanto riguarda il nostro tema, la vita e la morte. 

Hegel ha indubbiamente la percezione di che cosa è lo spirito, legandolo francamente all’intelletto, al pensiero, alla coscienza, alla persona, alla scienza, alla libertà, all’eterno, all’universale, nella sua padronanza sullo spazio-tempo.

La domanda, però, conturbante, che nasce davanti a questo «spirito», è la seguente: qual è il rapporto di questo spirito col bene e col male?


In Hegel non troviamo le parole dell’inno pasquale. «Vita et mors mirando conflixere duello», perché tutto sommato, vita e morte, senza smettere di litigare, coesistono nella sintesi dialettica, che non toglie il conflitto, ma lo supera e lo copre, come la grazia luterana, che non toglie il peccato, ma lo assoggetta. Da qui una legalizzazione, anzi una divinizzazione della morte.

Anche la morte vuole la sua parte nel concetto dello Spirito e della divinità. Da qui viene l’essere-per-la-morte heideggeriano, dal quale scaturiscono l’essere autentico e la vita (l’«incondizionato» e l’«insuperabile»). Da qui viene per Rahner la morte di Cristo, dalla quale scaturisce la vita non perchè morte espiativa, un mito superato, ma perchè nella morte stessa c’è la vita e la vita viene dalla morte. Ma non siamo davanti a un altro mito e questa volta assurdo e blasfemo?


Immagini da Internet:
- Pericle Fazzini, Deposizione, bronzo, 1946
- Quirino De Ieso, Il mistero della vita e della morte, olio su tela, 2000


[1] Fenomenologia dello Spirito, op.cit., p.26.

[2] Essere e tempo, Longanesi&C.,p.321.

[3] Ibid., p.311

[4] Ibid.,315.

[5] Ibid., p.319.

[6] Ibid., p.321.

[7] Ibid., p.323.

[8] Pp.25-26-27.

[9] Fenomenologia dello Spirito, Op.cit., p.26.

[10] UTET.Torino 1959, alla Voce ODINO.

[11] Alla Voce GERMANI, RELIGIONE DEI.

[12] I nazisti facevano grande stima di questi misteriosi scritti, ancor oggi osservabili in luoghi disabitati, credendo superstiziosamente che in essi fosse contenuta la profezia della grandezza della Germania.

[13] Vedi «il crepuscolo degli dèi» musicato da Richard Wagner.

[14]È interessante come il sistema di Hegel è stato designato come  «pantragismo». E difatti in esso, nonostante la sua celebrazione della vita, non c’è un vero trionfo della vita sulla morte. Ma vita e morte stanno alla pari e si richiamano a vicenda. Non esiste una vera vita eterna, libera dalla morte. La sua impostazione dialettica del sì-no, fa sì che l’Eterno per lui non sia pura vita, ma vita-morte. Il fatto che in Rahner la morte sia vista come come affermazione della vita è certo una traccia di questa visione mortifera hegeliana.

6 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    la ringrazio anzitutto per la chiarezza con cui è riuscito ad esporre concetti teologici non proprio semplici, e per illuminarci su quel filo rosso che collega Hegel, Heidegger e Rahner.
    Sempre sul tema del sacrificio espiatorio, desidererei, cortesemente, sottoporre alla sua critica, se è d’accordo, una posizione teologica assai divergente dalla sua, quella di Carlo Molari, teologo scomparso nel febbraio di quest’anno, il cui libro La fede e il suo linguaggio, ispirato a Teilhard de Chardin, fu giudicato non conforme alla dottrina cattolica dalla Congregazione per la dottrina della fede, per cui nel 1977 gli venne chiesto di lasciare l'insegnamento alla Pontifica Università Urbaniana.
    Suddividerò in almeno tre successivi commenti, i brani tratti da una relazione tenuta da Molari il 30 luglio 2009 (https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-significato-della-croce-e-lequivoco-del-sacrificio/#_ftnref10).

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  2. Da Carlo Molari (1):
    «I motivi però per i quali Gesù ha potuto rendere la croce, che era condanna ingiusta, conseguente al rifiuto di accogliere la sua proposta di conversione per la venuta del Regno di Dio, sia stato evento di salvezza, non sono precisati in modo articolato e uniforme nella Scrittura […]
    Le componenti della storia della salvezza sono fondamentalmente due: una discendente, costituita dall’azione divina che attraverso Cristo offre grazia e perdono all’uomo, l’altra ascendente, costituita dal cammino dell’uomo Gesù che attratto e condotto dalla grazia dello Spirito giunge alla perfezione della identità filiale (cfr “reso perfetto” Eb. 5,9) e traccia per l’uomo il cammino verso la vita eterna, offrendo nello stesso tempo la forza dello Spirito per percorrerlo […]
    Il primo modello, prevalentemente ascendente, considera Gesù come il Figlio/servo che sulla croce offre a Dio riparazione per i peccati degli uomini e merita da Dio quei doni di grazia che salvano l’umanità intera dal male, giustificandola. Le metafore utilizzate nel Nuovo Testamento e i riferimenti profetici del Primo Testamento hanno provocato diverse spiegazioni sul ruolo svolto da Gesù nell’offrire a Dio il giusto compenso per i peccati degli uomini, come loro sostituto e/o rappresentante. Egli, soffrendo e morendo, secondo le varie metafore, avrebbe compiuto un sacrificio di espiazione, versato il prezzo del riscatto, offerto una soddisfazione proporzionata all’offesa ricevuta, subito la pena del peccato al posto degli uomini o come loro rappresentante […].
    Resta in questa prospettiva una grave difficoltà già avvertita in modo generico dal Catechismo del Concilio di Trento. Dopo aver dichiarato che tutta la religione e la fede cristiana si fondano sulla efficacia salvifica della croce, esso afferma: “Se vi è una qualche cosa che fa difficoltà alla mente e alla intelligenza umana lo è certamente il mistero della croce, il più difficile fra tutti, e a stento noi possiamo concepire che la nostra salvezza dipenda dalla croce e da colui che per noi su quel legno è stato inchiodato” (Catechismo del Concilio di Trento P. 1, a. 4, n. 57) […]
    Praticamente la difficoltà veniva risolta con l’aggiunta di una componente discendente costituita dalle strutture ecclesiali e sacramentali, collegate alla croce, attraverso le metafore dell’acqua e del sangue scaturite dal costato di Cristo. La croce salverebbe perché muove Dio a diffondere grazia. Di fatto la salvezza diventa effettiva solo quando l’azione redentrice di Cristo trova accoglienza presso il Padre, il quale nella Sua risposta benevola introduce l’uomo in una nuova condizione di esistenza, facendolo rinascere come figlio, lo libera dai mali eventualmente provocati dal peccato e lo accoglie nel regno definitivo della vita. Tutto questo dipende dall’azione svolta da Cristo, dai meriti da Lui acquisiti, ma di fatto si compie attraverso lo Spirito effuso da Cristo risorto e quindi attraverso l’attuale azione della sua Chiesa e dei suoi sacramenti. Questo modo di pensare a livello della pietà popolare è giunto fino al Concilio Vaticano II e in alcuni ambiti ecclesiali resta tuttora.
    In realtà attribuire a Dio volontà vendicativa o punitiva non si concilia con l’immagine evangelica di Dio che, come aveva promesso nei profeti (“perdonerò la loro iniquità, e non mi ricorderò più del loro peccato” Ger. 31, 34), in Cristo è giunto ad offrire perdono “gratuitamente, per grazia” (Rom. 8, 14) “non imputando agli uomini le loro colpe” (2Cor. 5, 19) proprio nel momento in cui gli uomini rifiutavano in modo violento la proposta di Gesù e non accoglievano l’offerta della Nuova Alleanza. Il Dio rivelato da Gesù offre perdono di propria iniziativa e senza porre condizioni preliminari».

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  3. Da Carlo Molari (2):
    «[…] la prospettiva discendente si riferisce alla testimonianza di amore che Cristo ha offerto in modo sublime sulla croce e alla forza dello Spirito che ha immesso nella storia umana per la sua fedeltà alla testimonianza dell’amore. La componente ascendente (ciò che Gesù offre a Dio per la salvezza dell’uomo) è scomparsa completamente e la croce è divenuta il simbolo della misericordia di Dio che, come aveva promesso (“perdonerò la loro iniquità, e non mi ricorderò più del loro peccato” Ger. 31, 34), in Cristo è giunto ad offrire perdono “gratuitamente, per grazia” (Rom. 8, 14) “non imputando agli uomini le loro colpe” (2Cor. 5, 19) proprio quando i responsabili del popolo rifiutavano in modo violento l’offerta e non riconoscevano il tempo della Nuova Alleanza offerta in Gesù. Molte pagine bibliche dicono con chiarezza che Gesù ha ricevuto da parte di Dio la missione di trasmettere agli uomini una parola di misericordia, la potenza dello Spirito Santo. A coloro che sono “stanchi e oppressi” Gesù promette: “troverete ristoro” (Mt. 11,28).
    Dio non ci ha salvato in Cristo perché ha ricevuto da Lui una adeguata riparazione, bensì perché per mezzo di Lui ha offerto agli uomini doni di vita. La croce in questa prospettiva appare un evento contingente, determinato dal rifiuto umano di accogliere il Vangelo della grazia. Proprio per questo la sua testimonianza è preziosa: mostra che ogni evento, anche ingiusto e contrario al volere divino, può essere vissuto in modo salvifico. Il suo valore salvifico però non sta nella sofferenza che merita perdono, ma nella gratuità dell’amore di Cristo “che ha amato sino alla fine” (cfr Gv. 13, 1), ed è divenuto “icona” dell’amore misericordioso del Padre, strumento dello Spirito che ha effuso. […]
    In se stessa la croce è contraria al volere di Dio, conseguenza necessaria del rifiuto opposto alla proposta di conversione fatta da Gesù. Egli è stato costretto dagli uomini a continuare la missione redentrice in situazioni drammatiche e violente, rivelando così un Dio che continua ad amare anche quando infuria la violenza e l’odio, ed è dalla parte di chi soffre. La croce è il momento in cui l’amore di Gesù ha raggiunto un vertice eccelso “Egli ha amato sino alla fine” (Gv. 13,1) e risorgendo ha rivelato la potenza vivificante dell’amore. La croce diventa in tale modo il simbolo dell’azione divina che con la forza dell’amore può trasformare gli eventi anche più negativi della storia umana in storia di salvezza. La componente ascendente della salvezza risiede solo nel cammino dell’uomo Gesù e di ogni uomo che, al suo seguito, “condotto dallo spirito” (Rom. 8,14) perviene all’identità filiale».

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  4. Da Carlo Molari (3):
    «[…] persino nell’Antico Testamento, la direzione primaria dell’autentico sacrificio sembra chiara: da Dio all’umanità piuttosto che dalla umanità a Dio”[ O’ Collins G., Gesù oggi. Linee fondamentali di cristologia, S. Paolo, 1993 p. 217]. Potremmo dire che sacrificio indica l’azione divina che riserva a se una realtà per inserirla nelle dinamiche della storia salvifica. Il corpo di Gesù è stato riservato a Dio fin dall’inizio, o meglio Dio ha riservato per sè il corpo di Gesù per giungere ad esprimere tutta la perfezione della sua offerta di vita agli uomini. In questo senso la lettera agli Ebrei applica a Gesù il salmo 39/40 “Non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto, ecco io vengo per fare o Dio, la tua volontà” (Eb. 10, 5-7). […] Cosa significa quindi che la croce è sacrificio? Significa che nella croce in Gesù il Dabar divino, il Logos del Padre ha potuto esprimersi in tale modo da iniziare la nuova tappa dell’alleanza. Gesù si è reso disponibile a Dio in modo compiuto e definitivo, senza residui. Solo in questo senso la croce può essere detto sacrificio. Quando Paolo scrive ai Romani: “Dio che non risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato in sacrificio per noi tutti, come non ci darà in dono, assieme a lui, tutte le cose?” esprime una dinamica oblativa, discendente. In questa linea deve essere letta l’azione di Cristo: “Cristo vi ha amato e ha offerto se stesso per noi oblazione e sacrificio di soave odore a Dio” (Ef. 5, 2) e “Gesù Cristo ha dato se stesso per noi allo scopo di riscattarci da ogni iniquità e purificare per sé un popolo che gli appartenga esclusivamente” (Tit 2, 13). Dio ha suscitato l’azione con cui in Gesù ci ha purificati, ci ha riscattati dalla schiavitù del peccato, ha ristabilito l’alleanza […].

    Espiare vuol dire perdonare, l’espiazione quindi non è nostra ma di Dio.
    Il termine biblico espiazione, quindi, non ha il significato attuale di “scontare un peccato, una colpa, sostenendone la pena o il castigo” […] I termini ebraici relativi all’espiazione si riferiscono ad un’azione purificatrice di Dio che si esercita abitualmente attraverso il sangue, ma che di per sé non implica la sofferenza del peccatore come pena del peccato commesso. […]
    “Il soggetto dell’espiazione, quindi è Dio, il quale attiva il suo perdono attraverso il rito espiatorio. L’azione espiatrice inoltre, viene esplicata mediante la purificazione dell’offerente il quale, attraverso la sacralità del sangue, rientra in sintonia con la divinità”[39]. R. Fabris riferendosi a queste riflessioni conclude: “Nel rituale dell’espiazione il soggetto del verbo kipper, «espiare» è Dio, per cui questo «espiare» equivale a «perdonare». […] In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione biblica. Dio purifica il peccatore, ‘copre’ i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto. (Cf Ger. 31, 34 che parla della nuova alleanza) […]
    In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione come nel Nuovo Testamento viene ricordata da Paolo (Rom. 3, 25: “lo ha prestabilito come strumento di espiazione” (strumento di espiazione o propiziatorio è il kaporeth: su cui veniva versato il sangue per potenziarlo nella sua dinamica purificatrice) e nella prima lettera di Giovanni (1 Gv 2,2: vittima di espiazione per i nostri peccati; 1 Gv. 4,10: (Dio) “ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”). Dio purifica il peccatore, copre i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto, come aveva preannunciato Geremia: “perdonerò le loro iniquità, non mi ricorderò più dei loro peccati” (31,34). Usare il termine ‘espiazione’ con il significato che ha oggi risulta perciò erroneo».

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  5. Da Carlo Molari (4):
    «La teologia, infatti, da tempo si era resa conto che il mistero della croce non poteva essere interpretato adeguatamente considerando Cristo solo come colui che offre a Dio una riparazione per conto degli uomini. Anche S. Tommaso d’Aquino alla linea ascendente dell’azione di Cristo nei confronti del Padre (merito, soddisfazione, sacrificio, redenzione, espiazione 3 S. Th. Q. 48, 1-5), aggiunge la linea discendente con la dottrina della causalità strumentale di Gesù che comunica agli uomini la grazia meritata (3 S. Th. q. 48 a. 6). In questa prospettiva a metà del secolo XX fu riscoperta la funzione salvifica della risurrezione e si cominciò a parlare della croce/risurrezione o della Pasqua come unico evento di salvezza [vedi Durrwell F. X., La risurrezione di Gesù, mistero di salvezza, Paoline, Roma 19693 (originale 1954)]. In tale prospettiva la missione di Gesù non consiste solo nell’offrire riparazione a Dio per i peccati degli uomini ma anche, e per alcuni soprattutto, nel trasmettere agli uomini quella forza spirituale che fa fiorire novità di vita. Questa è l’opera (ergon Gv. 4,34) compiuta da Cristo per salvarci: ha donato lo Spirito (“ricevete lo Spirito Santo” Gv. 20, 22) e ha perdonato i peccati.
    […] Il termine “soddisfazione” non è biblico. Significa “risarcimento o riparazione dovuta per aver procurato o subito un danno o un’offesa”. È stato utilizzato nella tradizione per esprimere il compenso che Gesù avrebbe offerto a Dio per le offese ricevute dagli uomini peccatori. Il senso antropomorfico del termine ha inquinato per molti secoli la soteriologia: nelle sue diverse coniugazioni è da abbandonare. Greshake G., osserva che S. Anselmo “è il primo che costruisce esplicitamente la soteriologia sull’assioma ‘aut satisfactio aut poena’ che Tertulliano aveva sviluppato nella teologia della penitenza”[ Greshake G., Soteriologia nella storia della teologia, in Redenzione ed emancipazione, Queriniana, 1975 p.113].

    Il termine “soddisfazione” è insensato: Dio non deve essere soddisfatto
    Molti teologi oggi difendono la teoria anselmiana contro le deviazioni che essa ha subito nella storia. Dal punto di vista storico essi hanno forse ragione, ma certamente l’impostazione anselmiana dipendeva dai modelli giuridici del tempo che egli aveva studiato a Padova nella sua giovinezza. Gonzalez riassume in modo corretto il pensiero del teologo medioevale: “Sant’Anselmo nega che il Padre abbia inviato il Figlio suo per morire in croce (sarebbe ingiusto far morire un giusto al posto dei peccatori), ma lo ha mandato al mondo con la missione di predicare il Vangelo; il Figlio ha trovato la morte per fedeltà (obbedienza) a questa missione, rifiutata dagli uomini. Dal momento che gli uomini avevano peccato, erano incapaci di ‘soddisfare’ per il loro peccato (che consiste nell’offendere Dio venendo meno all’ordine che Egli ha stabilito); si può soddisfare solo offrendo più di quello che è dovuto, ma tutto ciò che l’uomo ha o fa (inclusa la morte) egli lo deve. Dunque per lui può soddisfare solamente Gesù Cristo (se Dio vuole mandarlo) perché la sua morte (non essendo Egli peccatore) non gli è dovuta, ma può accettarla per pura generosità e libertà”[ Gonzalez Carlos Ignacio, Cristologia. Tu sei la nostra salvezza, Piemme, 1988 p. 263].
    Ma oggi non c’è nessun motivo per utilizzare questa categoria: Dio non deve essere soddisfatto. Dio giustifica gratuitamente, per grazia. In Gesù egli rivela e realizza questa sua decisione».

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    1. Caro Bruno, ho letto con molto interesse le tesi di Molari, tanto che, essendone venuta fuori una risposta molto lunga, ho pensato di metterla sotto forma di un vero e proprio articolo, che pubblicherò a giorni, secondo il metodo già usato di una risposta punto per punto.

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